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Autore: Francesco Cartei

Lettera ai sostenitori

Carissimi,

dalla Tanzania ci arrivano notizie confuse: probabilmente il coronavirus è molto presente nelle Comunità ma non ci sono mezzi per rilevare la gravità della epidemia. Di certo sappiamo che in tutto il Paese – con un numero di abitanti come l’Italia – ci sono appena 120 letti di terapia intensiva di cui 100 a Dar Es Salaam e solo 20 nelle altre Regioni.

Abbiamo effettuato un primo invio di fondi ai nostri Centri Inuka di Wanging’ombe, Kila Siku di Dar, Simama di Mbeya per l’acquisto di 6000 mascherine, 8000 paia di guanti monouso, sapone liquido e cloro.

Inoltre i nostri Centri, per la prevenzione del contagio, hanno promosso – su nostra sollecitazione e con il nostro contributo – dei corsi di formazione che hanno coinvolto gli operatori e i genitori dei bambini con disabilità.

Ma non possiamo restare indifferenti a quello che capita vicino a noi, in Italia.

I responsabili di due Case di Riposo nelle Marche – quella di Corridonia e quella di Cingoli ci hanno chiesto un aiuto per l’acquisto di materiale sanitario, sono allo stremo.

Nella prima su 26 ospiti ben 19 anziani hanno contratto il coronavirus, nella seconda su 33 ospiti la quasi totalità è contagiata e gli operatori hanno esaurito le scorte di mascherine, di visiere e di tute.

Abbiamo già effettuato un ordine per l’acquisto di questo materiale che nei prossimi giorni arriverà a destinazione.

In questa situazione, dunque, ci sembra giusto restituire alle Comunità locali italiane l’attenzione prestata in questi anni ai bisogni dei fratelli africani e nello stesso tempo continuare la nostra vicinanza alla Comunità africana: la nostra Associazione persegue la finalità dell’“assistenza agli emarginati e ai poveri di tutti i continenti promuovendone lo sviluppo integrale della persona”. (art 2 dello Statuto).

E’ la nostra vocazione:  le Comunità nel mondo devono essere solidali!

#Distantimauniti: ora più che mai!

Michelangelo Chiurchiù
Presidente Comunità Solidali nel Mondo Onlus 

Covid-19 Attività di prevenzione a Wanging’ombe

Il coronavirus si sta purtroppo diffondendo anche in Africa.

In Tanzania, nei centri di riabilitazione sostenuti da Comunità Solidali nel Mondo continuiamo a monitorare la situazione e promuoviamo attività di prevenzione, consapevoli che se dovesse peggiorare la situazione non sarà così semplice affrontarla. La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile e a volte impossibile.

Come a Mbeya anche a Wanging’ombe, nel centro di Inuka stiamo intervenendo a sostegno della comunità e soprattutto dei genitori dei bambini con disabilità che frequentano il centro.

Per poter affrontare l’emergenza abbiamo messo in pratica le seguenti misure:

– Riduzione del numero di bambini presenti nella settimana di trattamenti intensivi 

– Esclusione dei bambini che vengono da troppo lontano e che quindi dovrebbero sostenere un lungo viaggio

– Sospensione dei servizi nei centri piccoli 

– Training sulla prevenzione per tutto lo staff

– Training per i genitori che partecipano alla settimana di trattamenti intensivi

– Punti per il lavaggio delle mani davanti a quasi tutte le stanze ( come quello in fotografia)

– Acquisto e possibile produzione di mascherine di protezione.

Covid-19 arriva in Tanzania

E’ il 3 Marzo quando il presidente della Tanzania John Magufuli saluta il  leader dell’opposizione Maalim Seif Sharif Hamad toccandosi con le scarpe a vicenda invece che con una classica stretta di mano. Un gesto che ha fatto sorridere, che attraverso i social è stato visto in tutto il mondo e che in quei giorni era il riflesso di una situazione di pericolo di cui si iniziava ad avere consapevolezza ma che sembrava ancora distante e localizzata solamente in Cina e nel nord Italia.

Ed invece in soli 13 giorni il virus raggiunge, dopo essersi diffuso in gran parte del mondo ed aver intaccato molti paesi del continente Africano, anche la Tanzania.

«It’s here, but don’t panic». Così commenta la ministra della Salute della Tanzania Ummy Mwalimu il primo caso registrato nel nord del Paese, mentre attraverso i giornali, la radio e la televisione vengono diffuse le modalità di trasmissione, i sintomi e le principali misure da adottare per proteggersi e prevenire la diffusione del virus. Inizia così la progressiva “chiusura” del Paese inizialmente alle frontiere, proseguendo poi con la chiusura delle scuole e la sospensione degli eventi pubblici e sportivi. Restano invece aperte le chiese e le moschee che, a detta del Presidente Magufuli sono “i luoghi dove si può trovare la vera guarigione”.

Ma è proprio in paesi come la Tanzania, ancora fortemente legati all’agricoltura di sussistenza e al commercio, che molte misure restrittive che potrebbero limitare la diffusione del contagio non possono trovare applicazione. La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile, a volte impossibile. Altre precauzioni come l’isolamento sociale o il rimanere “a casa” rappresentano poi un’utopia in un paese in cui le abitazioni sono spesso piccolefatiscenti e in ogni caso condivise da più nuclei familiari. 

Vi è poi un profondo squilibrio economico e sociale tra la popolazione concentrata nelle principali città (Dar es Salaam, Mwanza, Arusha e Dodoma) e il resto della popolazione che abita nelle varie zone rurali. Squilibrio che si traduce in minori disponibilità economiche per far fronte a questa emergenza e ad una minore accessibilità ai pochi centri di assistenza sanitari presenti nel Paese. Questa differenza tra contesto rurale e cittadino si riflette anche sulla percezione del rischio, strettamente correlata alla possibilità di avere strumenti e informazioni per gestire l’emergenza. I nostri volontari, partiti a gennaio per il servizio civile in Tanzania, hanno avvertito l’evolversi della situazione in maniera completamente diversa a seconda che fossero operativi in una grande città come Dar es Salaam oppure nei piccoli villaggi dell’entroterra. Nel primo caso, attraverso la relazione quotidiana e il dialogo con i residenti del quartiere popolare di Kawe, vi è stata una crescente consapevolezza che molto presto il virus avrebbe raggiunto il Paese; manovre precauzionali come la rimozione dell’acquasantiera dalle chiese o la sospensione di eventi mondani si erano già verificate all’inizio del mese di marzo.  La stessa cosa non è avvenuta invece per i volontari operativi nei villaggi rurali dove, a causa del parziale isolamento dato dal territorio vi era una percezione del pericolo nettamente sottostimata. Come conseguenza, all’interno delle grandi città la paura ha poi innescato un’ impennata dei prezzi delle mascherine, passate in pochi giorni dalla conferma del primo contagio da 2.000 a 20.000 scellini Tanzaniani, una cifra enorme per la maggior parte della popolazione che vive di agricoltura e commercio dei prodotti della terra.

Il mercato di Makambako, nella regione di NJOMBE

la paura ha poi innescato un’ impennata dei prezzi delle mascherine, passate in pochi giorni dalla conferma del primo contagio da 2.000 a 20.000 scellini Tanzaniani

Ad oggi i casi confermati sono 24 contagiati e 1 decesso ma i dati potrebbero essere drasticamente sottostimati a causa della quasi totale assenza di tamponi e della difficoltà a riconoscere i sintomi e a ricevere soccorso.

La media dei posti letto nel continente Africano è di 1,2 ogni 1.000 abitanti e gran parte di questi sono dislocati nelle grandi città. I dati del personale medico sono ancora più drammatici: l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda un numero di almeno 44,5 medici ogni 10.000 abitanti, attualmente ne sono presenti 8 in Uganda, 12 in Zambia e solamente 2 in Tanzania. Numeri che atterriscono, se si pensa al numero di infetti che si è visto crescere in maniera esponenziale in paesi sviluppati come l’Italia. Un ulteriore fattore da considerare è la presenza enorme della fascia più vulnerabile ed esposta maggiormente al rischio d’infezione, quella della popolazione affetta da disabilità. Si stima che la percentuale di popolazione con disabilità sia del 7% e che nella sola Dar es Salaam vi siano su 6 milioni di abitanti circa 340.000 disabili. Per queste persone il rischio è duplice, da un lato il tasso di mortalità in caso di infezione sarebbe nettamente più alto per coloro che sono affetti da malattie che riducono le difese immunitarie (i cosiddetti immunodepressi), dall’altro potrebbero venire a mancare i sostegni già precari che permettono a moltissime persone non autosufficienti di avere una vita dignitosa.

Questa epidemia, forse per la prima volta dal dopoguerra, si è dimostrata essere una sfida che un solo Paese non può risolvere, ma che l’intero genere umano deve affrontare unito e, proprio per questo non possiamo lasciare in disparte il continente Africano. Antonio Guterres, segretario Onu, commenta così l’attuale situazione: “Più contagi ci sono, maggiore è la possibilità di una mutazione del virus. Dopodichè tutti gli investimenti fatti sui vaccini andranno persi e la malattia tornerà dal Sud al Nord del pianeta” 

Ed è in questo contesto che risulta fondamentale il supporto che Comunità Solidali nel Mondo, Cesc Project e Gondwana possono fornire ai partner locali. Nei tre centri attualmente attivi (Inuka CBR a Wanging’ombe, Simama CBR a Mbeya e Kila Siku-Antonia Verna Rehabilitation Center a Dar es Salaam) sono state attuate, nel più breve tempo possibile tutte le misure necessarie per sostenere la popolazione locale sia dal punto di vista comunicativo (tramite incontri informativi per la prevenzione del coronavirus), sia mettendo a disposizione mascherine e prodotti disinfettanti.

Se da un lato abbiamo deciso di impegnarci per la prima volta in Italia e di venire incontro alle esigenze delle case di riposo di Cingoli e Corridonia non possiamo dimenticare popolazioni che troppe volte sono state lasciate sole in balia di crisi sanitarie che non sono in grado di sostenere ed affrontare. Perché come ci hanno dimostrato molti Paesi che in questi mesi difficili hanno sostenuto l’Italia, le buone azioni prima o dopo tornano indietro.

Di Nicolò Zuliani e Valentina De Cao

Covid-19 Incontro con i genitori nei centri di Mbeya

Il coronavirus si sta purtroppo diffondendo anche in Africa.

In Tanzania, presso la comunità di Mbeya, abbiamo promosso l’incontro tra un medico e i genitori dei bambini con disabilità per offrire indicazioni utili alla prevenzione.

Abbiamo cercato di raccogliere la testimonianza dei partecipanti per capire quale fosse il livello di consapevolezza.

Il personale in servizio, i genitori e i bambini non conoscevano bene le problematiche legate all’emergenza e le misure da attuare per prevenire il contagio.

Continuiamo a monitorare la situazione e attraverso i nostri centri facciamo prevenzione consapevoli che se dovesse peggiorare la situazione non sarà così semplice affrontarla.

La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile e a volte impossibile.

Dopo l’incontro i genitori e i bambini hanno iniziato ad utilizzare i secchi con sapone detergente, distribuiti nei tre centri di riabilitazione sostenuti da Comunità Solidali nel mondo: Simike, Iyunga e Uyole.

#iorestoacasa

Cooperazione significa avvicinare culture distanti.

Oggi più che mai è importante comprendere come la distanza fisica a cui da qualche giorno in Italia dobbiamo abituarci, non precluda l’unione, il sentirsi vicini anche se fisicamente lontani.

In sede ci siamo organizzati e adeguati alle direttive del decreto #iorestoacasa.

Il nostro lavoro prosegue perché è attento ad una parte di mondo lontana ma comunque bisognosa.

Cooperazione significa avvicinare culture distanti.

Allo stesso modo continueremo a condividere tutti gli aggiornamenti più importanti – e affidabili – sulla situazione d’emergenza legata al Coronavirus. 

Cliccando l’immagine potete accedere alle F.A.Q. del Ministero: 

Kila Siku! – Ogni giorno, grazie al programma Otto per Mille della Chiesa Valdese

Moses utilizza le parallele per svolgere attività di riabilitazione.

Qualità elevata della riabilitazione: questo è stato l’obiettivo del progetto Kila Siku nel nostro Centro di Riabilitazione a Dar Es Salam in Tanzania rivolto a oltre 250 bambini con disabilità .

Il prezioso contributo della Tavola Valdese è stato così utilizzato per l’acquisto di una attrezzatura indispensabile ai fini della riabilitazione manuale: materassi, specchi, parallele, spalliera, palloni Bobath, carrozzine, maniglioni, cyclette, pallone medicinale, scale e balance board.

Non abbiamo fatto mancare però a Kila Siku delle apparecchiature più sofisticate – Elettroterapia, Ultrasuoni e Laserterapia – in una metropoli africana dove queste sono impossibili da trovare.

In una seconda fase, anche sulla base di bisogni evidenziati dai nostri tecnici, è stato acquistato un prodotto particolare come il lettino “Therapy 2 Section Couches” particolarmente efficace per la terapia rivolta a pazienti con problematiche neurologiche e ortopediche

Il progetto così offre un segnale importante alle autorità tanzaniane e al Ministero della Salute della Tanzania che vede nel Centro Kila Siku un modello da replicare anche in altri contesti e per rispondere ai bisogni di oltre 2 milioni di tanzaniani con disabilità.

Moses utilizza le parallele per svolgere attività di riabilitazione.

La disabilità è (anche e soprattutto) una questione di percezione

Quando a lezione all’università ci spiegavano i vari modelli di classificazione della disabilità oltre a una serie di definizioni non riuscivo a comprendere quanto fosse importante spingerci a pensare oltre il modello biomedico. Questa comprensione è arrivata, quando qui, in Tanzania ho colto più  sfaccettature della disabilità. Facendo outreach (riabilitazione domiciliare – NdR) per le campagne di Makambako mi sono trovato davanti a un contesto completamente diverso al quale sono abituato a vedere quotidianamente al centro di riabilitazione Inuka. Inserito in un contesto povero, spoglio, privo di ogni cosa c’era un bambino tetraplegico che provava a  pronunciare parole prive di senso abbandonato a se stesso. Ho percepito quella differenza dal bambino pulito e curato di Inuka. Quando mi si è avvicinato strisciando, aggrappandosi alle mie gambe, con la saliva che gli usciva dalla bocca ho provato un senso di ribrezzo, mi sono spostato e allontanato (anche emotivamente). Quasi come se a toccarlo mi trasmettesse la sua disabilità. Lui ha percepito questa mia distanza e ha smesso di cercare la mia attenzione. Ma proprio in quel momento lì, il concetto di disabilità spiegato tante volte a lezione mi è venuto chiaro. Ho riconosciuto e governato questa emozione. Mi sono vergognato di me stesso, non pensavo di possedere dentro di me una paura del diverso tale da reagire così. Ho deciso di abbassarmi prenderlo in braccio, dedicargli le attenzioni che ogni bambino merita e promettergli che sarei tornato presto a giocare con lui.

Tutto questo mi ha fatto riflettere molto e ho finalmente afferrato un concetto di disabilità fino ad ora da me ignorato: nel momento in cui ho creato quella distanza emotiva e fisica tra me e lui ho creato disabilità;  questa nasce anche nel momento in cui vi è una discrepanza nella relazione del soggetto con il mondo esterno. Questa restrizione alle attività sociali, alle attività di partecipazione sono una delle cause che aumentano la percezione del suo essere disabile. 

Bisogna, quindi, rivalutare il concetto di disabilità e incoraggiare a  passare da un approccio biomedico a uno biopsicosociale. Vedere, quindi, oltre la patologia il contesto in cui il soggetto è inserito. Iniziando a curare anche la relazione terapeutica. 

Con questo voglio dire che se mi relaziono al soggetto malato come se fosse come tutti gli altri, se non lo percepissi come diverso dagli altri, se non dessi peso alla sua saliva sul mio braccio, se non facessi smorfie per l’odore di pipì,  egli non percepirebbe l’esistenza di un problema. Altrimenti tutti questi limiti mentali, mi impedirebbero di creare una relazione con lui, creando distanza, creando disabilità. Ma nel momento in cui scavalco questi pregiudizi, questi limiti ecco che non si parla più di disabilitá. Ecco perché sostengo che la disabilità è anche e soprattutto una questione di percezione, di punti di vista.

E non possiamo giustificarci se il bambino non capisce o è troppo piccolo, perché se tratto con distacco il bambino la disabilità la percepirà lo stesso la madre o chi gli sta vicino. Questo apre un’altra considerazione importante: la disabilità non appartiene solo al singolo ma anche a tutti quelli che lo circondano.

Scrivendo questo diario di bordo ho trovato conferma in questa mia riflessione quando in questi giorni una paziente anziana emiplegica perdendo saliva mi ha bagnato il braccio durante un esercizio di fisioterapia. È scoppiata in lacrime per il suo senso di impotenza nel controllare un abilità (a noi) così naturale. Immaginatevi una donna adulta alla quale le si dovrebbero attribuire autorevolezza e rispetto vede persi in un gesto entrambi gli attributi. Un senso di impotenza, frustrazione. È lì che ho percepito una distanza.  

E se questa distanza si crea a priori quanto possiamo fare noi attraverso i nostri atteggiamenti e comportamenti per ridurre e aumentare questa distanza chiamata disabilità?

Di Valerio Topazio

Lighness e Hosea

La storia di Lightness, 10 anni, è triste.
Quando arriviamo all’ostello di Inuka é seduta a terra con il suo busto. La nonna sorride e ci dice, quasi per scusarsi, che non si può alzare.
È arrivata da due settimane al nostro Centro di riabilitazione paralizzata: non può muovere le gambe.
È stata una punizione a scuola. Sì così. Una punizione tragica.
Le punizioni corporali nelle scuole tanzaniane sono consentite ma regolate dalla legge: 2 bacchettate sulle mani oppure due nel sedere. Ma non un colpo sulla schiena da farla restare paralizzata.La scuola adesso sta pagando le cure e la permanenza di Lightness  nel nostro ostello.
Ma ha già inviato due suoi emissari per tentare di strappare alla nonna la versione di comodo. Lei sarebbe tornata a scuola dopo il colpo ricevuto: la paralisi sarebbe stata causata da un incidente avvenuto a casa.
La nonna fortunatamente non si lascia convincere.
Siamo rimasti sconvolti letteralmente sconvolti, parliamo con gli operatori del Centro Inuka e ci dicono che la bambina è già fortunata se la scuola si è fatta carico almeno di pagare le cure, sicuramente nessun maestro sarà denunciato e nessuna scuola sarà censurata per questo gesto criminale.
Avevamo la speranza che potesse essere stato un edema a provocare la paralisi: una piccola emorragia interna che andava a comprimere il midollo e paralizzare gli arti. Ma come verificarlo?
Un medico ci dice che si dovrebbe fare una radiografia in un centro specializzato e che potrebbe anche riprendersi, potrebbe camminare: ma la famiglia non ha i soldi.
Facciamo avere a Chiara, la nostra espatriata presente nel Centro, i soldi che un’amica ci ha donato prima della missione in Tanzania. “Usali bene” ci aveva detto commossa.
Ora possiamo raccontare a questa nostra amica che la storia di Lightness ha avuto un lieto fine. Dopo un mese di permanenza a Inuka. la bambina è tornata a casa sulle sue gambe. Dovrà solo tornare 1 volta al mese per i controlli periodici.

Più drammatica la storia la Hosea, classe 2008.
É stata la TV nazionale tanzaniana (link) a denunciare la sua storia qualche giorno fa.
Diagnosi di paraplegia a seguito di una azione “educativa” molto forte da parte di un maestro: faccia al muro e giù bastonate nella schiena. All’ennesimo colpo, il bambino crolla a terra e ci si accorge allora che il bastone stavolta ha lesionato il midollo: da allora il bambino sta in carrozzina e ha perso il controllo delle urine e delle feci.
Hosea era arrivato la prima volta ad Inuka nell’aprile 2017 poi, la famiglia povera di mezzi e male informata, aveva preferito riportarlo a casa.
Hosea era rimasto chiuso in casa senza scuola, senza cure, senza futuro.
Hussein, un nostro fisioterapista attento e fortemente motivato nel suo lavoro, ce lo ha segnalato e ha fatto del tutto per convincere la famiglia a riportare Hosea al Centro Inuka. ll bambino ora è preso in carico dal nostro centro, sarà rieducato almeno nelle funzioni più importanti poi dovrebbe tornare in classe, il prossimo gennaio, nella scuola di Ilembula.
La scuola forse pagherà i trattamenti e gli ausili che sono stati richiesti. Noi regaleremo a Hosea una nuova carrozzina.

Il “suo” maestro, purtroppo, come il maestro di Lightness, sono ancora lì a insegnare, protetti dalle loro scuole.
In fondo sono sicuri che il loro metodo, “vabbè può succedere”, ma è l’unico che garantisce un apprendimento efficace…

L’integrazione scolastica

Dal colloquio con una bambina che ha frequentato il nostro centro:

“Quando l’operatrice mi ha detto che tutto era pronto per andare a scuola ero contentissima. Però poi ho cominciato ad avere paura: come mi avrebbero accolto i compagni? Sarei riuscita a imparare? Che cosa mi avrebbe detto il maestro? Adesso devo dire che sono contenta e anche mia mamma, che all’inizio non voleva, adesso è molto felice!”

Nyha ha nove anni. Ora frequenta la scuola primaria, ma fino a poco tempo fa non usciva mai di casa. Sua madre ha da sempre lavorato tutto il giorno lo Shamba, il tipico appezzamento di terreno coltivato davanti casa. Suo padre, invece, non lo ha mai conosciuto, perché è scappato subito dopo essersi accorto che sua figlia non avrebbe mai camminato. Inoltre l’istituto scolastico più vicino non era facilmente accessibile perché aveva l’entrata in cima ad una rampa piuttosto ripida.

E oltre alle barriere architettoniche, c’erano quelle mentali ad ostacolare l’entrata a scuola! La mamma di Nyha se ne stava tutto il giorno a lavoro, pensando che l’unico modo per aiutare la sua bambina fosse quello di riuscire a migliorare il suo raccolto, così da poter vendere qualcosa, proteggendo nello stesso tempo sua figlia dal pericolo dell’incomprensione e degli scherni dei compagni.

Per fortuna ogni tanto arrivano le belle notizie! Nel 2014 la mamma di Nyha aveva saputo che nel villaggio accanto era entrato in funzione un piccolo centro socio-riabilitativo e si era convinta a portarci la figlia. L’operatore del centro aveva inserito subito Nyha in un programma riabilitativo. Giorno per giorno, si vedono i miglioramenti e dopo mesi di faticoso lavoro la bambina impara a camminare con il solo aiuto delle stampelle.

E’ in questo periodo che, a Wanging’Ombe, la mamma di Nyha scopre che stiamo facendo un lavoro di formazione sugli insegnanti, che riguarda anche i maestri dell’istituto del suo villaggio. Li conosce. E’ un incontro incoraggiante, perchè apprende che, di lì a poco, sarebbero iniziati i lavori nella sua scuola, che non solo sarebbe stata più accessibile, ma avrebbe anche avuto insegnanti più capaci di trattare i piccoli disabili.

Comincia un sogno che presto si trasforma in realtà!

Oggi Nhya frequenta abitualmente le lezioni ed è molto studiosa. La mattina si sveglia presto per andare da sola a scuola, ma non sempre torna a casa a fare i compiti. Capita spesso infatti che vada dalle sue compagne. Lei finalmente fa la vita che ha sempre desiderato: una vita normale!

La Storia di Noeli

Noeli ha 11 anni, affetto da paralisi cerebrale infantile, non può camminare, ha iniziato la riabilitazione molto tardi; riesce però ad utilizzare la mani, gli piace giocare con le costruzioni in casa; e sa parlare, ma non scandisce bene le parole.

E’ nato a Dar es Salaam, dove viveva con i genitori e i fratelli. I genitori lo hanno portato a fare riabilitazione, ma i posti che potevano permettersi non erano di qualità, infatti Noeli non è riuscito a fare i progressi sperati.

La nonna, che vive a Mbeya, ha sentito parlare di Inuka, un centro di riabilitazione molto buono dove fanno gli esercizi per i bambini. La famiglia decide allora di far trasferire Noeli a Mbeya con la nonna, che due/tre volte all’anno, ormai da un paio d’anni, lo porta alle WIT (settimane di riabilitazione intensiva).

Durante una di queste settimane hanno parlato alla nonna di Simama CBR e del centro di Uyole. Noeli ha così iniziato l’anno scorso a frequentare anche il centro di Uyole, e usufruisce delle visite domiciliari perchè vive lontano del centro, e la nonna è sola e anziana per poterselo caricare sulla schiena. Ha uno standing a casa, che utilizza ogni giorno grazie alla nonna, che lo aiuta anche a fare gli esercizi i giorni in cui le operatrici non vanno a casa sua.

E’ così che ho conosciuto Noeli e sua nonna, durante una visita domiciliare. Abbiamo fatto gli esercizi tutti insieme, abbiamo giocato, e la nonna ci ha offerto il pranzo, ugali e verdura ovviamente, buonissimi.

Ho ascoltato la storia di Noeli e ho raccontato alla nonna che a Dar es Salaam, dove ci sono i genitori e i fratelli di Noeli, è stato inaugurato quest’anno un centro di riabilitazione su base comunitaria come Inuka. La nonna entusiasta di questa notizia ne ha subito parlato con suo figlio, il papà di Noeli.

Ho saputo poco tempo fa che la famiglia ha deciso di far trasferire Noeli a Dar, dove potrà vivere di nuovo con la propria famiglia, e frequentare il centro di riabilitazione Kila Siku, e poter continuare il suo programma riabilitativo.

La storia di Noeli, è la storia di un legame fra i vari progetti e i vari centri: Noeli è un testimone di amore, che attraversa la Tanzania.

Di Federica Castellana

Il nuovo centro di riabilitazione Kila Siku CBR

Sono stati i bambini disabili e i loro amici i primi protagonisti della festa celebrata in un popoloso quartiere di Dar es Salaam per l’apertura del centro di riabilitazione “Kila Siku”.
La loro sarà la prima generazione a veder messo in pratica il diritto all’uguaglianza sancito dalla Costituzione Tanzaniana.
È stata una gran festa anche per i loro genitori, che vedono più concreto l’obiettivo della partecipazione della comunità territoriale alla presa in carico dei loro figli.
Ma è stata una vera festa anche per i 15 operatori che nel quartiere già lavorano per la riabilitazione dei bambini disabili e che adesso hanno a disposizione spazi più accoglienti e meglio attrezzati.
Con loro anche la Comunità delle suore di Ivrea ha fatto festa, che gestirà il centro in questa importante fase di avvio.
E, naturalmente, abbiamo festeggiato anche noi di Comunità Solidali nel Mondo, perché vediamo coronato da successo il progetto All Inclusive iniziato due anni fa assieme al CEFA Onlus di Bologna – che del progetto è capofila – con l’apporto determinante dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e il generoso sostegno di un’Azienda italiana, la Finproject.

Molto ancora c’è da fare ma essere riusciti a raggiungere questo traguardo, grazie ad un grande lavoro di squadra ed il supporto di tanti amici di Comunità Solidali nel Mondo, ci riempie di orgoglio.

Alla festa, fra le numerose autorità intervenute, ha voluto esser presente anche Roberto Mengoni, ambasciatore d’Italia in Tanzania, che ha ben rappresentato il contributo degli italiani al raggiungimento di questo importante obiettivo.
Non ha voluto far mancare alla festa la sua autorevole presenza anche Ummy Mwalimu, Ministra della Sanità del Governo tanzaniano.
Le sue parole segnano una tappa importante nel cammino della collaborazione paritaria e fattiva degli italiani con la comunità tanzaniana:

Molti bambini con disabilità in Tanzania, sia nelle zone rurali che nei centri urbani, non hanno accesso ai servizi riabilitativi.
Il mio obiettivo, del quale ho discusso con Michelangelo, è affiancare ai 510 centri di salute presenti in tutta la Tanzania specifiche strutture per servizi di riabilitazione ai bambini con disabilità.
Certo, 510 centri sono molti, possiamo iniziare con 50 o 100. Ma sono certa che in 5 anni si possa compiere un programma globale e sostenibile per una copertura sanitaria universale di servizi riabilitativi di qualità che raggiunga ogni cittadino, e in primo luogo ogni bambino con disabilità.
Grazie mille! Siamo partner! Sorella e Fratello”.

“Kila Siku”.
In lingua swahili significa “Ogni giorno”.

Proprio come dice il nome, il centro di riabilitazione svilupperà le sue potenzialità quotidianamente in uno dei più popolosi quartieri della metropoli tanzaniana, Kawe, dove molti bambini con disabilità vengono ancora tenuti nascosti in casa, privi di ogni diritto alla integrazione e quelli che riescono a frequentare la scuola, vengono segregati nelle classi speciali.
Il centro di riabilitazione, attraverso le attività diurne, accoglierà almeno 350 di questi bambini disabili e darà loro un servizio riabilitativo qualificato, diretto alla integrazione. È importante per loro, ma è anche un forte segnale ai genitori e alla comunità locale. È un primo ma decisivo passo verso l’uguaglianza sancita dalla Costituzione Tanzaniana che all’articolo 13 stabilisce:

“Tutte le persone sono uguali davanti alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, alla protezione e all’uguaglianza di fronte alla legge” .
Se un bambino con disabilità resta nascosto in casa non è uguale agli altri.
Se un bambino non va a scuola come tutti i bambini non è uguale agli altri.
Molti bambini con disabilità vivono nascosti in casa: noi li aiutiamo a uscire, a frequentare il nostro centro e sono nati una seconda volta. Ora sono conosciuti nel quartiere, frequentano il centro e le mamme non si vergognano di loro”.

Una bellissima storia africana ben rappresenta il senso della giornata inaugurale del centro Ogni Giorno-Kila Siku di Dar es Salaam.

Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume. Mentre tutti discutevano animatamente, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure ma il colibrì continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme. Ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!”. Il leone si mise a ridere: “Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?” e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. A quella vista un elefantino, dopo aver aspirato con la proboscide quanta più acqua possibile, la spruzzò sul fuoco. Anche un giovane pellicano, si riempì il grande becco d’acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata sul fuoco. Così tutti i cuccioli d’animale, i cuccioli del leone e dell’antilope, quello della scimmia e del leopardo dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie si prodigarono insieme per spegnere l’incendio. A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono ad aiutare i loro figli. Quando le ombre della sera calarono sulla savana, l’incendio poteva dirsi ormai domato. Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco. Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: “Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d’acqua può essere importante e che «insieme si può» spegnere un grande incendio. D’ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo”.

L’inaugurazione che noi abbiamo festeggiato il 14 febbraio, per loro è una festa vissuta “Kila Siku-Ogni giorno”: è proprio questo ciò che più è apprezzato dalla comunità tanzaniana. I bambini disabili di Dar es Salaam e i loro genitori sono il simbolo di ciò che vogliamo costruire tutti insieme non solo in Tanzania e non solo in Africa, ma in quel grande villaggio globale che sempre di più è il nostro pianeta. Tutti insieme si può a partire dai più piccoli e impegnarsi perché il mondo sia un po’ migliore di come l’abbiamo trovato.

Inaugurazione Kila Siku CBR

Inaugurato a Dar es Salaam “KILA SIKU CBR”, centro di riabilitazione su base comunitaria. Kila Siku in lingua swahili vuol dire ogni giorno. E Kila Siku è il nome del primo centro di riabilitazione inaugurato oggi, 14 febbraio, nel quartiere periferico di Kawe, uno dei più popolosi della zona sud di Dar es Salaam, che con 6 milioni di abitanti è la più vasta metropoli della Tanzania. La struttura è adeguatamente attrezzata per dare kila siku, ogni giorno, risposte concrete, significative e qualificate ai bisogni di centinaia di bambini con disabilità. Ma il centro è anche il primo luogo dove le famiglie troveranno aiuto e sostegno per partecipare al percorso riabilitativo dei propri bambini con disabilità.

All’inaugurazione, alla quale hanno partecipato molti genitori, e bambini con disabilità, ha presenziato la ministra della Salute della Repubblica di Tanzania, Ummy A. Mwalimu, che ha nel suo discorso ha detto: “Sono molto felice che si apra un posto come questo. Non mi piacciono i centri dove le persone disabili vengono abbandonate, mentre qui, ogni giorno le persone vengono a fare riabilitazione e ogni giorno, Kila Siku, tornano nelle loro case. Prendersi cura dei disabili deve essere un impegno della famiglia e di tutta la comunità. Dietro ogni bambino disabile, invece, c’è quasi sempre una donna, una mamma, spesso sola, che ogni giorno deve affrontare enormi difficoltà.  Sono stata molto toccata da quello che Comunità Solidali nel Mondo ha fatto per questo centro: ha dimostrato che gli italiani sono persone che sanno lavorare assieme alle comunità locali, gomito a gomito, senza stare dietro una scrivania ma sporcandosi le mani.

Presente anche l’Ambasciatore Italiano Roberto Mengoni

Era presente anche l’Ambasciatore Italiano Roberto Mengoni, che rivolgendo il proprio saluto ha affermato: “Per me è stato un vero piacere venire qua, a conclusione di un progetto molto importante che va avanti e che seguo da diverso tempo. Esso testimonia la capacità degli italiani di realizzare cose concrete, che hanno immediato impatto sulla popolazione. In questi tre anni in Tanzania ho avuto modo di incontrare italiani straordinari.  Alcuni di questi connazionali erano qui presenti oggi, già attivi con il progetto All Inclusive: Comunità Solidali nel Mondo, CEFA e CO.P.E. hanno dimostrato di essere capaci di mettere il cuore assieme a tantissima professionalità. Hanno realmente dato prova di tantissima capacità di vivere realmente a contatto e di collaborare con i tanzaniani, con le loro comunità, con le loro organizzazioni e di dialogare proficuamente anche con il governo e con le autorità locali, realizzando un progetto che ha già un concreto beneficio per la popolazione.”

Tutto pronto per l’inaugurazione “Kila Siku CBR”

Sono i momenti febbrili che precedono i grandi eventi.
Tutto è quasi pronto per l’inaugurazione prevista per giovedì 14 febbraio del centro di Riabilitazione Kila Siku di Dar es Salaam: i muratori fanno gli ultimi ritocchi agli edifici, si completa il viale interno, si fanno le pulizie dei locali.
Gli inviti per la inaugurazione sono stati consegnati da tempo: le autorità locali vogliono essere presenti perché hanno capito l’importanza di questo Centro.

È il primo centro di Riabilitazione e il più grande dei quartieri popolosi della zona sud di Dar es Salaam in grado di dare una risposta significativa e qualificata ai tanti bisogni di centinaia di bambini con disabilità e alle loro famiglie.

Ci ha assicurato che non mancherà la ministra della Salute Tanzania Ummy A. Mwalimu, il nostro Ambasciatore dott. Roberto Mengoni il vescovo di Dar es Salaam Mons. Eusebius Alfred Nzigilwa, le Suore d’Ivrea che in seguito gestiranno il Centro, le centinaia di genitori e di bambini con disabilità che hanno cominciato a frequentare il centro e che lo frequenteranno nei nuovi locali.

Sarà anche l’occasione questa per inaugurare la palestra che sarà intitolata al nostro grande amico Giancarlo Fratocchi: saranno presenti la moglie Martina e il fratello Alberto a nome di tutti quelli che hanno amato Giancarlo e che lo hanno voluto ricordare con questa presenza discreta e significativa che lui ha fortemente voluto.

Un grande grazie agli amici e ai donatori a cui non faremo mancare le immagini di questo evento e di questa significativa giornata.

Il progetto “All Inclusive” è cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

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