Dopo mesi di lavoro, a settembre siamo riusciti ad ultimare la costruzione dell’Ostello. Oggi è perfettamente funzionante e opera a pieno regime, seppur nel rispetto dei contingentamenti imposti dalla pandemia.
Con la realizzazione di questa struttura abbiamo completato il progetto Kila Siku e disegnato una strategia complessiva orientata all’inclusione sociale della persona con disabilità nei sistemi fondamentali della salute e della riabilitazione, dell’istruzione, del lavoro, della partecipazione sociale attraverso la cultura e lo sport.
L’Ostello si rivolge a un target sociale di 2.500 bambini con disabilità, residenti nel territorio della Regione di Dar es Salaam. La disponibilità dell’Ostello consente infatti l’accoglienza residenziale di pazienti e famiglie che abitano a distanza considerevole per periodi brevi (mediamente da una a due settimane) per consentire le prime visite, l’avvio dei piani riabilitativi e la formazione iniziale dei familiari per le attività di riabilitazione. Grazie a questo progetto offriamo ospitalità nel corso di un anno a circa 100 bambini con le mamme provenienti dalla regione di Dar Es Salaam.
Un altro obiettivo ora raggiungibile con la realizzazione dell’Ostello è quello di implementare l’aggiornamento e la formazione del personale locale favorendo la presenza di 15/20 professionisti italiani disponibili ogni anno a un periodo di volontariato che, allo stesso tempo, potranno fornire gratuitamente servizi di supporto di elevata qualità al Centro.
Coinvolgere le famiglie dei bambini con disabilità è di vitale importanza per noi.
Lo scorso 10 ottobre abbiamo incontrato i genitori dei bambini del Centro di Riabilitazione Antonia Verna / Kila Siku CBR – Dar es Salaam – Kawe.
L’obiettivo dell’incontro è stato quello di sensibilizzare i genitori sui servizi offerti dal centro e di raccogliere le loro preoccupazioni e consigli, così da poter migliorare il nostro impegno.
È stato incredibilmente formativo.
Il fisioterapista ha avuto modo di parlare di disabilità e dell’importanza del coinvolgimento delle famiglie nel percorso riabilitativo del bambino, soprattutto per quanto concerne le attività domiciliari.
I genitori sono rimasti molto contenti perché hanno potuto parlare direttamente con l’amministrazione ed esprimere i loro pareri sui servizi ricevuti.
L’incontro con le famiglie rientra all’interno del nostro programma di Riabilitazione su Base Comunitaria (CBR nella sua sigla in inglese).
Durante l’incontro hanno partecipato Azzurra Cori (coordinatrice del progetto “All Inclusive”), Suor. Anjela (manager del Centro per le Suore di Carità dell’Immacolata Concezione d’Ivrea) e il nuovo fisioterapista Joseph Msaka.
L’obiettivo del progetto era quello di dotare il Centro di Riabilitazione Kila Siku A.Verna, di un’ulteriore palestra riabilitativa destinata a bambine, bambini e adolescenti con disabilità e con enormi difficoltà economiche.
Un percorso nato a Novembre del 2018.
Era in corso la costruzione del Centro; si erano infatti completate tutte le fasi di innalzamento delle mura e della struttura in legno del tetto. Nonostante il neo centro non fosse completato, già 350 bambini disabili erano seguiti e assistiti dagli operatori nel dispensario della Congregazione delle Suore di Ivrea, adiacente al Centro in costruzione.
Sono le innumerevoli richieste di assistenza ricevute da parte delle mamme di Dar Es Salaam che ci suggeriscono di costruire una seconda palestra: questo avrebbe garantito assistenza a molti più bambini disabili della zona.
Da qui, la Campagna di Natale del 2018, promossa da Comunità Solidali nel Mondo Onlus e sostenuta dai nostri sostenitori che come noi, hanno creduto nell’importanza di dotare il Centro A.Verna – Kila Siku di questa palestra.
La palestra è oggi completata, equipaggiata e funzionante. L’azione si inserisce all’interno di un più vasto e complesso intervento di servizi di riabilitazione e di percorsi di inclusione integrale (scolastica, lavorativa e sociale), avviato nel 2017 nel quartiere Kawe di Dar Es Salaam e a partire dal 2007 nella zona sud-ovest della Tanzania.
Nello specifico i servizi offerti dalla palestra sono erogati in una logica multidimensionale basata sulla metodologia CBR (Riabilitazione su Base Comunitaria); interesseranno non solo gli aspetti sanitari ma anche quelli relazionali e sociali della persona e del suo ambiente.
La disabilità viene così affrontata come il risultato di una complessa interazione tra limitazioni funzionali/strutturali del soggetto e vincoli ambientali e la piena partecipazione del bambino all’interno di un contesto sociale.
Nell’estate 2017, durante un giro al mercato di Makambako – vicino al villaggio orfani Tumaini dove Comunità Solidali nel Mondo manda i propri volontari ogni anno – notai che su tutte le etichette emergeva quel “made in China” di cui ovunque nel mondo si riempiono oggi i banchi dei negozi. Come si sente spesso dire, infatti, la Repubblica Popolare Cinese sta scommettendo sull’Africa. La cooperazione tra i due soggetti ha origini antiche, e risale all’epoca dell’impero cinese. Le prime relazioni diplomatiche erano guidate dal desiderio di creare un’alleanza tra la Cina e paesi africani, tutti mire dell’espansione coloniale europea. Con un’intensificazione dopo la metà del XX secolo la diplomazia sino-africana si sviluppò intorno ai principi di coesistenza pacifica cinesi, tra i quali figurava l’intenzione di non interferire negli affari interni dei paesi amici. Successivamente, da semplici alleanze diplomatiche la cooperazione tra i paesi africani e la repubblica popolare cinese si estese e si rafforzò con la costruzione della ferrovia Tazara (Tanzania-Zambia Railway), nota come uno dei più importanti progetti infrastrutturali mai realizzati in Africa. Questa, sviluppata tra il 1964 e il 1976 collega le miniere di rame dello Zambia con il porto Tanzaniano di Dar Es Salaam. Il mercato di Makambako, si sviluppa intorno all’omonima stazione della suddetta ferrovia.
Fonte: https://www.economist.com/middle-east-and-africa/2017/02/04/the-hardships-of-doing-business-in-africa, 27 agosto 2019
Il progetto della Tazara e più in generale la cooperazione sino-africana sono da sempre importanti per l’immagine della Cina nel mondo. Il Focac (Forum on China-Africa Cooperation) istituito nel 2000 ne è un esempio. Questo evento, che si ripete con cadenza triennale, ha lo scopo di rafforzare le relazioni economiche, politiche e diplomatiche tra la Cina e i paesi africani. Riecheggiano infatti in questa sede i principi di cooperazione sopra citati, ma anche temi di win-win cooperation (una situazione in cui entrambe le parti hanno benefici), Beijing consensus (per contrasto al Washington consensus imposto dalle grandi istituzioni finanziarie aventi sede nella capitale statunitense) e cooperazione sud-sud.
La nuova politica della Belt and Road Initiative risponde a tutti questi principi. Di questa strategia di sviluppo, che comprende costruzione di innumerevoli progetti infrastrutturali, investimenti nell’educazione e progetti sanitari dei paesi membri, beneficia anche la Tanzania. Tra le infrastrutture cinesi nel paese rientra anche il mai realizzato porto di Bagamoyo, pochi km a nord di Dar es Salaam. L’intenzione cinese, al momento del finanziamento del progetto era di realizzare il più grande porto della costa Orientale Africana, di prolungare la Tazara fino a Bagamoyo e di costruire una Zona Economica Speciale nel villaggio. Il progetto avrebbe consentito alle merci cinesi di raggiungere più facilmente i mercati dell’Africa Sub-sahariana e a Pechino di beneficiare dell’abbondanza di risorse della regione. Tuttavia, il nuovo presidente della Tanzania nel 2016 si oppose alla realizzazione del porto per timore che il paese diventasse una neo-colonia cinese. Egli dichiarò e dichiara tutt’ora che consentirà alla Cina di procedere con i loro investimenti a Bagamoyo solo dopo una ricontrattazione dei termini dell’accordo.
Col progetto Bagamoyo e molti altri, la Cina sta operando in Africa ma anche su più larga scala (si potrebbe dire pressoché globale) con la Belt and Road Initiative, che le consentirà di acquisire una posizione geopolitica importante nella guida dello sviluppo dei paesi del terzo mondo. Tuttavia, numerose sono le perplessità. Gli occidentali temono che si tratti di una moderna forma di colonialismo, finalizzata a migliorare la posizione geopolitica cinese a confronto con l’Occidente. La Cina la presenta invece come un’opportunità unica di sviluppo e di miglioramento per le condizioni di vita della popolazione mondiale. Gli africani sembrano guardare positivamente alla “mano amica” cinese che porta infrastrutture ed investimenti ai paesi, nonché miglioramenti delle condizioni di vita della popolazione. La costruzione di porti lungo la costa africana orientale e l’apertura di numerosi istituti Confucio in molti paesi dell’Africa Sub Sahariana sono un esempio di queste opportunità. Tuttavia, solo il tempo potrà dirci se la presenza della Cina in Africa porterà più benefici a Pechino o alle persone in Africa.
Attraverso la campagna “Vamos juntos” insieme a tanti amici abbiamo deciso di sostenere il Projeto Luar de Dança.
Projeto Luar è una ONG brasiliana che nel 2020 ha festeggiato un compleanno importante: 30 anni di danza, arte, educazione, sogni e magie tra i bambini e i ragazzi della periferia di Rio de Janeiro… E quasi 20 anni dell’amicizia del Luar con l’Italia.
In questo momento così difficile per i nostri amici e per tutta la comunità Brasiliana a seguito della pandemia del Coronavirus abbiamo ritenuto nostro dovere esprimere la nostra solidarietà a questa Associazione amica che non ha mai smesso di funzionare e che si adopera ora per distribuire cestas básicas – alimenti di base alle famiglie disagiate della periferia della metropoli brasiliana.
Un piccolo gesto che rafforza l’essere “Comunità solidali nel mondo” per sentirci parte della Famiglia Luar!
Insieme a CESC Project e alla CEI – Conferenza Episcopale Italiana abbiamo potuto dare un supporto aggiuntivo al Centro di Riabilitazione Inuka CBR nella lotta contro il Corona Virus.
Lo scorso aprile, per fronteggiare la diffusione della pandemia in Tanzania abbiamo inviato i primi fondi a sostegno dei nostri Centri di Riabilitazione.
Grazie alla CEI e alla campagna di sostegno ai Paesi in Via di Sviluppo avviata durante l’emergenza è stato possibile dare continuità a questo intervento.
Sono stati acquistati tutti i beni necessari per ridurre il contagio del COVID 19: mascherine adeguate alle diverse situazioni (FFP2, chirurgiche e lavabili), guanti, detergenti, igienizzanti e termometri.
E’ stato revisionato il protocollo sanitario di accoglienza dei nuovi pazienti e quello per i trattamenti, considerando che sono ora presenti anche dei termometri a infrarossi.
Stanno per arrivare a giorni gli strumenti più avanzati: i pulsossimetri (strumento diagnostico per misurare la percentuale di emoglobina satura di Ossigeno nel sangue) e 1 concentratore di O2.
INUKA sta adoperandosi al meglio delle sue possibilità per operare in sicurezza e non permettere la diffusione del Corona Virus all’interno delle sue strutture.
Lo scorso marzo, la responsabile della Casa di Riposo di Corridonia ci aveva chiesto un aiuto per l’acquisto di materiale sanitario.
La situazione era particolarmente complessa, con ben 19 anziani su 26 positivi al Coronavirus.
Anche grazie alla nostra donazione è stato possibile proteggere gli operatori sanitari della struttura e garantire servizi adeguati. Ora la situazione si sta normalizzando e lentamente tornando alla normalità.
Questa settimana abbiamo ricevuto i ringraziamenti del Sindaco di Corridonia Paolo Cartechini.
Pensiamo che sia giusto condividerli con voi. Grazie al vostro supporto e sostegno costante ancora una volta abbiamo potuto mettere in pratica la nostra missione e dimostrarci solidali verso le nostre comunità.
Condividendo con voi questa bella lettera cogliamo l’occasione per ringraziare il Sindaco e gli amici della Casa di Riposo.
ALLA COMUNITA’ SOLIDALI NEL MONDO ONLUS C.A del Presidente Dott. Michelangelo Chiurchiu
Preg.mo Presidente,
desidero esprimerLe, anche a nome dell’Amministrazione comunale e della Cittadinanza, il più sincero ringraziamento per la generosità che ha concretamente dimostrato con la donazione dei dispositivi di protezione individuale donati alla nostra Casa di Riposo.
Il materiale di alta qualità consegnato (n. 21 schermi protettivi per tutti gli operatori e le n. 250 mascherine FFPS) è stato un preziosissimo supporto nella gestione dell’emergenza nella Casa di Riposo. La Sua donazione ha rappresentato la testimonianza tangibile di collaborazione e solidarietà verso chi quotidianamente è impegnato nella battaglia contro il Covid- 19.
L’occasione mi è gradita per salutarLa con riconoscenza, chiedendoLe di estendere il ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla donazione.
In Tanzania il coronavirus ha contagiato qualche centinaia di persone e sin da subito nei nostri centri socio-riabilitativi sono state messe in atto le misure necessarie per fronteggiare l’epidemia.
Sono stati organizzati incontri di formazione a tutte le famiglie e alle lavoratrici per la prevenzione del contagio e dopo la pausa pasquale i nostri Centri Simama CBR hanno riaperto i servizi garantendo mascherine e guanti agli operatori, predisponendo acqua e sapone all’entrata della stanza degli esercizi, e l’entrata controllata negli spazi comuni.
Come ogni mese la nostra psicologa ha telefonato a tutte le famiglie per ricordare gli impegni per le visite fisioterapiche, gli appuntamenti in ospedale e durante gli incontri giornalieri ha raccolto le difficoltà delle mamme che non riescono a venire al centro, riferendole poi all’assistente sociale che potrà così intervenire con supporti economici o visite e attività domiciliari.
Abbiamo poi deciso di incrementare il nostro servizio domiciliare in questo periodo dove la nostra presenza sul territorio come CBR (Community Based Rehabilitation) risulta ancora più importante.
Sono state organizzate delle giornate di sensibilizzazione a domicilio, per quei bambini e quelle famiglie che non frequentano i centri Simama da un po’ di tempo e che non hanno partecipato all’incontro formativo riguardo il Coronavirus, e che vivono più lontani dai centri.
L’operatrice del centro di Uyole, Magrette, con Innocent, bambino affetto da Sindrome di Down, iscritto al programma Simama da 5 anni.
L’obiettivo, in questo momento particolare, è stato quello di informarsi sulla salute del bambino, ascoltare i genitori riguardo i problemi che impediscono di frequentare costantemente il centro, ma soprattutto parlare dell’importanza della riabilitazione e informare e formare sul Coronavirus, spiegando anche quali precauzioni sono state prese dai centri Simama CBR per assicurare il trattamento riabilitativo ai bambini. Quindi un doppio obiettivo di awareness che mira ad accrescere la consapevolezza delle mamme riguardo alla riabilitazione e riguardo alla prevenzione del Coronavirus.
Il terapista occupazionale ha accompagnato ogni operatrice del rispettivo centro così da poter informare al meglio i genitori e poter anche valutare il bambino.
La nonna di Bahati ha condiviso la sua difficoltà nel portare suo nipote sulle spalle, diventato troppo grande e pesante per lei. Il nostro staff ha deciso di valutare la possibilità di inserirlo nel programma delle visite domiciliari regolari.
La mamma di Innocent ha perso la sua motivazione perché si aspettava più miglioramenti per il suo bambino. Questo ci fa capire quanto bisogna ancora lavorare per la formazione dei genitori, migliorare gli incontri di counselling (consulenza) dove i genitori possano condividere le proprie aspettative, e migliorare anche il dialogo con i terapisti.
Qualche genitore ha affermato di non frequentare il centro per il virus, non essendo informato adeguatamente ha preferito non andarci. Sicuramente non è l’unico motivo considerata l’assenza dai centri per molto tempo, ancora prima della comparsa del Covid 19; ma questo ci fa capire quanto i genitori siano restii a parlare e confidarsi, e accrescere la loro fiducia nel nostro programma, anche attraverso le visite domiciliari, resta un punto importante.
Fra questi bambini, Anderson, è stato trovato chiuso in casa, cosa che succede spesso da quanto ci dicono i suoi vicini di casa. La mamma è stata contattata telefonicamente e raggiunta la casa si sono affrontati diversi argomenti; per lui lo staff ha previsto delle altre visite per monitorare la situazione e cercare di comprendere le necessità della madre.
Questi alcuni dei feedback ricevuti nelle tre giornate; ma in generale tutti i genitori sono stati contenti della visita, dell’attenzione, e anche delle informazioni ricevute. L’importanza della riabilitazione costante e della frequenza del centro socio-riabilitativo, ciò che si è fatto e si sta facendo per migliorare i servizi, e in questo periodo cosa si sta facendo per proteggersi dal Coronavirus pur continuando le nostre attività.
Il prossimo mese faremo una verifica di queste giornate per capire se questi bambini, e quelli seguiti nelle giornate degli special case (programma mensile di visita per quelle famiglie che non frequentano i centri socio-riabilitativi da almeno 3 mesi), siano ritornati a frequentare i centri, e capire anche se i nostri obiettivi sono stati raggiunti.
Joshua Obadia, iscritto al programma Simama da 4 anni, vive molto lontano dal centro, e le strade sterrate vicino casa rendono difficile raggiungere il centro con la sedia a rotelle.
Diversi gli argomenti trattati. Dall’emergenza scoppiata in casa e che ci ha costretti a rivedere le nostre attività in Italia e in Tanzania, a riflessioni sul ruolo fondamentale della donna nei nostri centri di riabilitazione di Dar Es Salaam, Mbeya e Wanging’Ombe.
Il coronavirus non ha certamente intaccato la nostra passione e volontà di essere attori di cambiamento, solidali con le comunità a cui siamo legati da anni e anche con quelle più vicine. Stiamo affrontando l’emergenza e ci stiamo preparando per affrontare il post-emergeza.
Se non potremo ricevere i bambini con disabilità nei nostri centri saremo noi a raggiungerli e offriremo assistenza alle loro famiglie. Per questo motivo, abbiamo deciso di destinare i fondi raccolti dalla campagna 5×1000, appena partita, alle attività di assistenza e alle terapie domiciliari.
E quando il distanziamento fisico non sarà più necessario noi saremo pronti a riaprire e, come noi, sarà pronto l’ostello destinato all’accoglienza delle mamme dei bambini con disabilità. Il primo piano è quasi completato e procedono anche i lavori di costruzione della palestra che permetterà di aumentare gli spazi destinati alle attività riabilitative per i bambini del Centro A.Verna – Kila Siku.
Non possiamo fermarci, dobbiamo andare avanti per Hamza, un bambino di 7 anni affetto da paralisi cerebrale, in evidente stato di malnutrizione durante la sua prima visita al nostro centro di Dar Es Salaam. Dobbiamo continuare a seguire sua mamma con attività di formazione e supporto psicologico.
Dopo essersi diffuso in gran parte del mondo ed aver intaccato molti paesi del continente africano, il virus, che tanto duramente stiamo combattendo in questi giorni, ha purtroppo raggiunto anche la Tanzania.
Abbiamo deciso di impegnarci anche in Italia e di venire incontro alle esigenze delle case di riposo di Cingoli e Corridonia nella Regione Marche, recapitando loro materiale sanitario. La felicità degli operatori e quella dei nonni, assistiti dalle due case, ci ha riempito di gioia e ha rafforzato la volontà di continuare ad essere solidali per le comunità più vicine e più lontane.
Non possiamo e non vogliamo dimenticare popolazioni che troppe volte sono state lasciate sole in balia di crisi sanitarie che non sono in grado di sostenere ed affrontare.
Dal 2007 siamo presenti in Tanzania al fianco dei più deboli e ci siamo impegnati per migliorare la qualità della vita di oltre 3000 bambini con disabilità e delle loro famiglie grazie ai nostri centri Inuka di Wanging’ombe, A.Verna – Kila Siku di Dar Es Salaam e Simama di Mbeya.
Dopo un primo invio di fondi a inizio aprile per l’acquisto di 6000 mascherine, 8000 paia di guanti monouso, sapone liquido e cloro, dobbiamo continuare a salvaguardare la salute dei bambini dei nostri 3 Centri, delle loro famiglie e di tutto il personale interno ed esterno.
Grazie al tuo 5×1000 potremo raggiungere i bambini che vivono lontano dai nostri centri e assistere le loro famiglie durante l’emergenza e il post emergenza.
In un contesto così problematico a livello locale e mondiale c’è solo un modo per reagire: restare solidali.
Uno degli aspetti che più mi ha incuriosito ed emozionato, in questa breve esperienza di servizio civile in Tanzania (nella regione di Mbeya), è stata la possibilità di affiancare gli operatori locali nelle majumbani, ossia negli incontri domiciliari con i bambini con disabilità e le loro famiglie. Osservare i bambini negli spazi in cui vivono e nei momenti della loro vita di ogni giorno, mi ha aiutata a comprendere bisogni e priorità riabilitative nel loro contesto. Accanto all’opportunità di crescita professionale, in questo breve periodo, ho ricevuto molto di più! Ogni volta che entravo nella casa di un bimbo, avvertivo di avere un grande privilegio: quello di poter conoscere davvero l’altro, nei suoi ritmi, nella sua quotidianità, nelle sue modalità di condividere gli spazi e di accogliere l’altro.
Gli incontri a casa sono stati un susseguirsi rapido di sensazioni, emozioni, osservazioni e ascolti nuovi; e la sera tra una partita a carte e un film, ci si ritrovava spesso ad aver bisogno di condividere tra noi civiliste e CCP impressioni e pensieri; ed è stato bello avere accanto qualcuno a cui raccontare e con cui confrontarsi.
Da quel che, in questo breve periodo in Tanzania abbiamo avuto modo di osservare, le visite domiciliari prevedono una routine di base, una sorta di “ritmo che ritorna”. Una mia amica, a cui raccontavo questa sensazione di un qualcosa che ha accomunato tutti gli incontri domiciliari, mi spiegava che quel ritmo di base di cui le parlavo si chiama in musica (specialm. etnica) “ostinato ritmico”. Con un paragone musicale, quindi, potrei dirvi che le poche majumbani, che abbiamo modo di aver vissuto, hanno avuto un “ostinato ritmico” inatteso, nuovo, piacevole…
“L’ostinato ritmico” delle nostre visite domiciliari Mbeya
Le visite domiciliari iniziano sempre con il risveglio presto la mattina, si parte con uno zaino in spalla, riempito di semplici giochi per i bambini. Da casa si cammina a piedi fino alla fermata del “daladala” (piccolo bus locale), con il quale si raggiunge il luogo preciso dell’appuntamento, dove si incontrano i terapisti locali. Così tutti insieme ci si avvia lungo stradine di terra rossa, sotto il sole o la pioggia, fino all’abitazione della famiglia che ci attende.
Gli incontri a casa iniziano sempre con un “Hodi! Hodi!” in coro (toc! toc!) sull’uscio di piccole case e con in risposta un sonoro e accogliente “Karibuni dada” ovvero benvenute sorelle. Eh si! ci chiamano dada!, questo è un aspetto che mi ha emozionato fin dai primi giorni in Tanzania. Perché, seppur sei un’italiana appena arrivata e che non parla la loro lingua, loro ti accolgono, chiamandoti “dada” e presto ci sia abitua con piacere a chiamare l’altro “kaka” (fratello) o “dada”, e “mama + il nome del bimbo” nel caso in cui sia già una mamma.
Le majumbani iniziano sempre con un’onda vivace e lunga di saluti (Shikamoo, Habari za asubuhi, habari za nyumbani, habari za familia, …). Perché i Tanzaniani dedicano al saluto tempo e parole e ogni volta ti trasmettono e ti insegnano la bellezza di questo momento. Il loro saluto rilascia calore, voglia di accogliere e creare una relazione e un legame con l’altro. Un secondo momento importante è quello del presentarsi all’altro, un momento di ascolto vero e condivisione.
E infine l’ostinato ritmico più vivace nelle visite domiciliari è l’ospitalità: quella loro calorosa accoglienza anche se c’è poco spazio, quel loro sorridente offrire all’altro anche se si ha poco o nulla.
All’interno di questo ritmo che ritorna, poi ogni domiciliare regala un suono proprio, una sfumatura musicale unica, creata dall’unicità del bambino, che si va a trovare. Infatti, ogni bimbo conosciuto durante le visite domiciliari ci ha rilasciato prime sensazioni ed emozioni diverse. Tra loro, scelgo di raccontare l’incontro con
Rehema, perché aveva qualcosa di particolare nel suo portamento: di umile, dolce e fiero al tempo stesso, che mi ha suscitato nell’immediato tanta tenerezza.
Al nostro “Hodi! Hodi!”, Rehema ci viene incontro sull’uscio della porta, con accanto i suoi fratellini.
Rehema, undici anni, ci accoglie con un lieve “karibuni” e un sorriso vivace e timido al contempo. Risponde al nostro saluto, ma poi abbassa lo sguardo e inclina un po’ il capo: da un lato, sembra vergognarsi un po’, dall’altro, sembra assumere un atteggiamento di rispetto e riverenza nei nostri confronti. Accanto ai fratellini assume un portamento molto diverso: il petto più in fuori e il capo più dritto e nel porsi ha una sorta di fierezza da sorella maggiore. Sembra abituata ad occuparsi di loro e i bimbi sembrano avvezzi a seguire la sua voce e i suoi richiami.
Rehema, con un gesto timido ci invita a seguirla, appare fiera di guidarci lei nell’ingresso a casa. La mamma non c’è, probabilmente è nei campi e ci raggiunge poco dopo. Ci precede nel breve corridoio che porta alla stanza della sua casa. Noto che cammina lentamente provando a controllare il suo passo, ma nonostante lo sforzo, la gamba destra le rimane un po’ indietro e ha un’andatura falciante. Rehema ha una paralisi cerebrale, più precisamente un’emiparesi destra, la sua gamba non le consente un’andatura normale e fluida, il suo braccio è rigido, pressoché immobile e lei lo nasconde un po’, camminando con le braccia semiconserte.
Dopo esserci sedute nella stanza della sua casa, le operatrici invitano la bambina a salutarci con “Shikamoo!”, provando ad utilizzare la mano destra per il gesto che prevede il saluto. “Shikamoo” è un saluto formale e rispettoso che i più piccoli e i giovani riservano alle persone più grandi o anziane ed è associato ad un gesto: il più piccolo d’età pone la sua mano sul capo del più grande. E Rehema, con imbarazzo, ma tenacia, aiutandosi con il sinistro, solleva il suo braccio e mano destra e ci saluta tutte con una voce esile e dolce. Poi si siede e sorride: sembra proprio contenta di averci lì, sedute a casa sua, e partecipa all’intera conversazione, per la maggior parte del tempo ascoltando quanto le viene detto.
Appena le operatrici iniziano a parlare, nella stanza arriva una ragazza, molto giovane, con un neonato di pochi giorni avvolto nel kitenge e addormentato sulla sua schiena. Intuisco essere la sorella maggiore di Rehema, le chiedo del piccolo e le facciamo gli auguri per la sua nascita. Poco dopo, compare anche un uomo, molto giovane anch’esso, il papà del piccolino. È una stanza vivace, movimentata. Le case (spesso stanze) in Tanzania sono sempre un po’ affollate: piene di parenti, vicini. A me occidentale, più abituata al nucleo familiare, “le case piene” fanno sempre un po’ strano e sono sempre incantata e incuriosita dall’ingresso e presenza di tante persone!
Le terapiste iniziano a parlare con Rehema e lei risponde con voce via via più sicura e ridendo di tanto in tanto; talora interviene anche la sorella maggiore. Comprendo ancora davvero molto poco di kiswahili, ma intuisco che stanno parlando delle attività che fa a casa: cucinare, lavare, prender l’acqua… e le chiedono se continua a fare esercizi per la sua mano. Osservo che, durante l’intera conversazione, con la mano sinistra Rehema continua ad aprirsi le dita della mano destra, rigide (per l’ipertono) e a massaggiarsi la mano, lo fa con imbarazzo, ma dolcezza e calma. Se si incrocia il suo sguardo, lo abbassa, con un fare vergognoso ma sorridendo.
Poco dopo, ci raggiunge anche la mamma di Rehema, con lei le terapiste proseguono la conversazione già avviata con la bambina e la sua sorella maggiore. Intuisco di nuovo, che c’è uno scambio di suggerimenti e consigli di attività quotidiane da far fare alla bambina.
La mamma è seduta vicina a lei, non capisco esattamente ciò che dice alle operatrici, ma il suo sguardo verso Rehema è tenero e fiero. Si somigliano molto, anche lei ha un atteggiamento “raccolto”, umile e rispettoso verso le riabilitation workers e la psicologa. Annuisce e ringrazia spesso.
Poco dopo la giovane sorella di Rehema esce e torna con una soda per ognuna di noi. Io e Chiara ci sentiamo in imbarazzo nell’accettare da loro che hanno poco, la bevanda offerta e riservata solo a noi ospiti. Ma le operatrici ci invitano a bere, ci hanno insegnato che bisogna sempre accettare, accogliere ciò che viene offerto a casa dei bimbi. Perché accogliere qui è segno di rispetto, di gradimento e per loro offrire è un’usanza, un modo di ringraziare l’ospite.
Finito l’incontro ci accompagnano, ma non alla porta come mi aspetterei io, Rehema, la sua mamma e i suoi fratellini ci fanno compagnia per un lungo tratto di strada di terra rossa che dal loro villaggetto porta alla strada principale. È capitato spesso, durante le domiciliari, che poi le mamme ci accompagnassero per un lungo tratto di strada, anche le mamme con bimbi pesanti sulla schiena. Ed io, con i miei occhi occidentali, ogni volta dentro di me mi chiedevo fin dove ci avrebbero accompagnato e mi stupivo di tanto rispetto, accoglienza e riverenza. Loro facevano tutto ciò con spontaneità, calma e naturalezza.
Tornando alla dolce Rehema, all’incrocio con la via principale, la salutiamo abbracciandola e lei per abbracciarci prova a sollevare anche il suo braccio destro. Salutiamo i suoi fratellini e la sua mamma. C’è di nuovo uno scambio vivace di saluti “Asante sana” “Karibuni sana” (grazie tante, benvenuti ancora! tornate! da parte della mamma) e da parte nostra un sentito “Asante Mama Rehema, Tutaonana Mama, Tutaonanaa Rehema” (grazie mamma, ci vediamo mamma, ci vediamo Rehema).
E dicendoti Tutaonana, pensavamo davvero Rehema di rivederti presto, dopo alcune settimane dal nostro primo incontro, per aggiornarci con le operatrici locali su come andavano le attività a casa.
Io Rehema, non so come andrà il mondo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, nei prossimi anni… ma forse come ci stavate insegnando voi tanzaniani, con la vostra fede e fiducia spontanea e semplice… Mungu akipenda tutaonana tena (se Dio vorrà, ci rivedremo ancora).
E se torneremo, bimbi tanzaniani, sarà davvero bello venirvi a conoscere nelle vostre casette e sperimentare la continuità dell’incontro con voi, aspetto che per il precoce rientro non abbiamo avuto modo di vivere.
Tutaonana Rehema! tutaonana watoto watanzania!
Mungu atulinde
Tunatumaini sana kurudi Tanzania!
Asante Tanzania!
Di Valentina Collina, volontaria SCU 2020 con Gondwana e Cesc Project a Mbeya, in Tanzania
dalla Tanzania ci arrivano notizie confuse: probabilmente il coronavirus è molto presente nelle Comunità ma non ci sono mezzi per rilevare la gravità della epidemia. Di certo sappiamo che in tutto il Paese – con un numero di abitanti come l’Italia – ci sono appena 120 letti di terapia intensiva di cui 100 a Dar Es Salaam e solo 20 nelle altre Regioni.
Abbiamo effettuato un primo invio di fondi ai nostri Centri Inuka di Wanging’ombe, Kila Siku di Dar, Simama di Mbeya per l’acquisto di 6000 mascherine, 8000 paia di guanti monouso, sapone liquido e cloro.
Inoltre i nostri Centri, per la prevenzione del contagio, hanno promosso – su nostra sollecitazione e con il nostro contributo – dei corsi di formazione che hanno coinvolto gli operatori e i genitori dei bambini con disabilità.
Ma non possiamo restare indifferenti a quello che capita vicino a noi, in Italia.
I responsabili di due Case di Riposo nelle Marche – quella di Corridonia e quella di Cingoli ci hanno chiesto un aiuto per l’acquisto di materiale sanitario, sono allo stremo.
Nella prima su 26 ospiti ben 19 anziani hanno contratto il coronavirus, nella seconda su 33 ospiti la quasi totalità è contagiata e gli operatori hanno esaurito le scorte di mascherine, di visiere e di tute.
Abbiamo già effettuato un ordine per l’acquisto di questo materiale che nei prossimi giorni arriverà a destinazione.
In questa situazione, dunque, ci sembra giusto restituire alle Comunità locali italiane l’attenzione prestata in questi anni ai bisogni dei fratelli africani e nello stesso tempo continuare la nostra vicinanza alla Comunità africana: la nostra Associazione persegue la finalità dell’“assistenza agli emarginati e ai poveri di tutti i continenti promuovendone lo sviluppo integrale della persona”. (art 2 dello Statuto).
E’ la nostra vocazione: le Comunità nel mondo devono essere solidali!
#Distantimauniti: ora più che mai!
Michelangelo Chiurchiù Presidente Comunità Solidali nel Mondo Onlus
Il coronavirus si sta purtroppo diffondendo anche in Africa.
In Tanzania, nei centri di riabilitazione sostenuti da Comunità Solidali nel Mondo continuiamo a monitorare la situazione e promuoviamo attività di prevenzione, consapevoli che se dovesse peggiorare la situazione non sarà così semplice affrontarla. La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile e a volte impossibile.
Come a Mbeya anche a Wanging’ombe, nel centro di Inuka stiamo intervenendo a sostegno della comunità e soprattutto dei genitori dei bambini con disabilità che frequentano il centro.
Per poter affrontare l’emergenza abbiamo messo in pratica le seguenti misure:
– Riduzione del numero di bambini presenti nella settimana di trattamenti intensivi
– Esclusione dei bambini che vengono da troppo lontano e che quindi dovrebbero sostenere un lungo viaggio
– Sospensione dei servizi nei centri piccoli
– Training sulla prevenzione per tutto lo staff
– Training per i genitori che partecipano alla settimana di trattamenti intensivi
– Punti per il lavaggio delle mani davanti a quasi tutte le stanze ( come quello in fotografia)
– Acquisto e possibile produzione di mascherine di protezione.
E’ il 3 Marzo quando il presidente della Tanzania John Magufuli saluta il leader dell’opposizione Maalim Seif Sharif Hamad toccandosi con le scarpe a vicenda invece che con una classica stretta di mano. Un gesto che ha fatto sorridere, che attraverso i social è stato visto in tutto il mondo e che in quei giorni era il riflesso di una situazione di pericolo di cui si iniziava ad avere consapevolezza ma che sembrava ancora distante e localizzata solamente in Cina e nel nord Italia.
Ed invece in soli 13 giorni il virus raggiunge, dopo essersi diffuso in gran parte del mondo ed aver intaccato molti paesi del continente Africano, anche la Tanzania.
«It’s here, but don’t panic». Così commenta la ministra della Salute della Tanzania Ummy Mwalimu il primo caso registrato nel nord del Paese, mentre attraverso i giornali, la radio e la televisione vengono diffuse le modalità di trasmissione, i sintomi e le principali misure da adottare per proteggersi e prevenire la diffusione del virus. Inizia così la progressiva “chiusura” del Paese inizialmente alle frontiere, proseguendo poi con la chiusura delle scuole e la sospensione degli eventi pubblici e sportivi. Restano invece aperte le chiese e le moschee che, a detta del Presidente Magufuli sono “i luoghi dove si può trovare la vera guarigione”.
Ma è proprio in paesi come la Tanzania, ancora fortemente legati all’agricoltura di sussistenza e al commercio, che molte misure restrittive che potrebbero limitare la diffusione del contagio non possono trovare applicazione. La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile, a volte impossibile. Altre precauzioni come l’isolamento sociale o il rimanere “a casa” rappresentano poi un’utopia in un paese in cui le abitazioni sono spesso piccole, fatiscenti e in ogni caso condivise da più nuclei familiari.
Vi è poi un profondo squilibrio economico e sociale tra la popolazione concentrata nelle principali città (Dar es Salaam, Mwanza, Arusha e Dodoma) e il resto della popolazione che abita nelle varie zone rurali. Squilibrio che si traduce in minori disponibilità economiche per far fronte a questa emergenza e ad una minore accessibilità ai pochi centri di assistenza sanitari presenti nel Paese. Questa differenza tra contesto rurale e cittadino si riflette anche sulla percezione del rischio, strettamente correlata alla possibilità di avere strumenti e informazioni per gestire l’emergenza. I nostri volontari, partiti a gennaio per il servizio civile in Tanzania, hanno avvertito l’evolversi della situazione in maniera completamente diversa a seconda che fossero operativi in una grande città come Dar es Salaam oppure nei piccoli villaggi dell’entroterra. Nel primo caso, attraverso la relazione quotidiana e il dialogo con i residenti del quartiere popolare di Kawe, vi è stata una crescente consapevolezza che molto presto il virus avrebbe raggiunto il Paese; manovre precauzionali come la rimozione dell’acquasantiera dalle chiese o la sospensione di eventi mondani si erano già verificate all’inizio del mese di marzo. La stessa cosa non è avvenuta invece per i volontari operativi nei villaggi rurali dove, a causa del parziale isolamento dato dal territorio vi era una percezione del pericolo nettamente sottostimata. Come conseguenza, all’interno delle grandi città la paura ha poi innescato un’ impennata dei prezzi delle mascherine, passate in pochi giorni dalla conferma del primo contagio da 2.000 a 20.000 scellini Tanzaniani, una cifra enorme per la maggior parte della popolazione che vive di agricoltura e commercio dei prodotti della terra.
Il mercato di Makambako, nella regione di NJOMBE
la paura ha poi innescato un’ impennata dei prezzi delle mascherine, passate in pochi giorni dalla conferma del primo contagio da 2.000 a 20.000 scellini Tanzaniani
Ad oggi i casi confermati sono 24 contagiati e 1 decesso ma i dati potrebbero essere drasticamente sottostimati a causa della quasi totale assenza di tamponi e della difficoltà a riconoscere i sintomi e a ricevere soccorso.
La media dei posti letto nel continente Africano è di 1,2 ogni 1.000 abitanti e gran parte di questi sono dislocati nelle grandi città. I dati del personale medico sono ancora più drammatici: l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda un numero di almeno 44,5 medici ogni 10.000 abitanti, attualmente ne sono presenti 8 in Uganda, 12 in Zambia e solamente 2 in Tanzania. Numeri che atterriscono, se si pensa al numero di infetti che si è visto crescere in maniera esponenziale in paesi sviluppati come l’Italia. Un ulteriore fattore da considerare è la presenza enorme della fascia più vulnerabile ed esposta maggiormente al rischio d’infezione, quella della popolazione affetta da disabilità. Si stima che la percentuale di popolazione con disabilità sia del 7% e che nella sola Dar es Salaam vi siano su 6 milioni di abitanti circa 340.000 disabili. Per queste persone il rischio è duplice, da un lato il tasso di mortalità in caso di infezione sarebbe nettamente più alto per coloro che sono affetti da malattie che riducono le difese immunitarie (i cosiddetti immunodepressi), dall’altro potrebbero venire a mancare i sostegni già precari che permettono a moltissime persone non autosufficienti di avere una vita dignitosa.
Questa epidemia, forse per la prima volta dal dopoguerra, si è dimostrata essere una sfida che un solo Paese non può risolvere, ma che l’intero genere umano deve affrontare unito e, proprio per questo non possiamo lasciare in disparte il continente Africano. Antonio Guterres, segretario Onu, commenta così l’attuale situazione: “Più contagi ci sono, maggiore è la possibilità di una mutazione del virus. Dopodichè tutti gli investimenti fatti sui vaccini andranno persi e la malattia tornerà dal Sud al Nord del pianeta”
Ed è in questo contesto che risulta fondamentale il supporto che Comunità Solidali nel Mondo, Cesc Project e Gondwana possono fornire ai partner locali. Nei tre centri attualmente attivi (Inuka CBR a Wanging’ombe, Simama CBR a Mbeya e Kila Siku-Antonia Verna Rehabilitation Center a Dar es Salaam) sono state attuate, nel più breve tempo possibile tutte le misure necessarie per sostenere la popolazione locale sia dal punto di vista comunicativo (tramite incontri informativi per la prevenzione del coronavirus), sia mettendo a disposizione mascherine e prodotti disinfettanti.
Se da un lato abbiamo deciso di impegnarci per la prima volta in Italia e di venire incontro alle esigenze delle case di riposo di Cingoli e Corridonia non possiamo dimenticare popolazioni che troppe volte sono state lasciate sole in balia di crisi sanitarie che non sono in grado di sostenere ed affrontare. Perché come ci hanno dimostrato molti Paesi che in questi mesi difficili hanno sostenuto l’Italia, le buone azioni prima o dopo tornano indietro.
Il coronavirus si sta purtroppo diffondendo anche in Africa.
In Tanzania, presso la comunità di Mbeya, abbiamo promosso l’incontro tra un medico e i genitori dei bambini con disabilità per offrire indicazioni utili alla prevenzione.
Abbiamo cercato di raccogliere la testimonianza dei partecipanti per capire quale fosse il livello di consapevolezza.
Il personale in servizio, i genitori e i bambini non conoscevano bene le problematiche legate all’emergenza e le misure da attuare per prevenire il contagio.
Continuiamo a monitorare la situazione e attraverso i nostri centri facciamo prevenzione consapevoli che se dovesse peggiorare la situazione non sarà così semplice affrontarla.
La popolazione infatti, per soddisfare i soli bisogni primari deve coltivare i campi e raggiungere i mercati nei villaggi vicini, talvolta spostandosi a bordo di bus sovraffollati. Una grande percentuale di tanzaniani inoltre, non ha accesso all’acqua corrente per cui un lavaggio frequente delle mani risulta difficile e a volte impossibile.
Dopo l’incontro i genitori e i bambini hanno iniziato ad utilizzare i secchi con sapone detergente, distribuiti nei tre centri di riabilitazione sostenuti da Comunità Solidali nel mondo: Simike, Iyunga e Uyole.
Cooperazione significa avvicinare culture distanti.
Oggi più che mai è importante comprendere come la distanza fisica a cui da qualche giorno in Italia dobbiamo abituarci, non precluda l’unione, il sentirsi vicini anche se fisicamente lontani.
In sede ci siamo organizzati e adeguati alle direttive del decreto #iorestoacasa.
Il nostro lavoro prosegue perché è attento ad una parte di mondo lontana ma comunque bisognosa.
Cooperazione significa avvicinare culture distanti.
Allo stesso modo continueremo a condividere tutti gli aggiornamenti più importanti – e affidabili – sulla situazione d’emergenza legata al Coronavirus.
Cliccando l’immagine potete accedere alle F.A.Q. del Ministero:
Moses utilizza le parallele per svolgere attività di riabilitazione.
Qualità elevata della riabilitazione: questo è stato l’obiettivo del progetto Kila Siku nel nostro Centro di Riabilitazione a Dar Es Salam in Tanzania rivolto a oltre 250 bambini con disabilità .
Il prezioso contributo della Tavola Valdese è stato così utilizzato per l’acquisto di una attrezzatura indispensabile ai fini della riabilitazione manuale: materassi, specchi, parallele, spalliera, palloni Bobath, carrozzine, maniglioni, cyclette, pallone medicinale, scale e balance board.
Non abbiamo fatto mancare però a Kila Siku delle apparecchiature più sofisticate – Elettroterapia, Ultrasuoni e Laserterapia – in una metropoli africana dove queste sono impossibili da trovare.
In una seconda fase, anche sulla base di bisogni evidenziati dai nostri tecnici, è stato acquistato un prodotto particolare come il lettino “Therapy 2 Section Couches” particolarmente efficace per la terapia rivolta a pazienti con problematiche neurologiche e ortopediche.
Il progetto così offre un segnale importante alle autorità tanzaniane e al Ministero della Salute della Tanzania che vede nel Centro Kila Siku un modello da replicare anche in altri contesti e per rispondere ai bisogni di oltre 2 milioni di tanzaniani con disabilità.
James durante il suo percorso terapeutico. James durante il suo percorso terapeutico.Ibraim sulla cyclette svolge attività di riabilitazione. Ibraim sulla cyclette svolge attività di riabilitazione.Moses utilizza le parallele per svolgere attività di riabilitazione.
Quando a lezione all’università ci spiegavano i vari modelli di classificazione della disabilità oltre a una serie di definizioni non riuscivo a comprendere quanto fosse importante spingerci a pensare oltre il modello biomedico. Questa comprensione è arrivata, quando qui, in Tanzania ho colto più sfaccettature della disabilità. Facendo outreach (riabilitazione domiciliare – NdR) per le campagne di Makambako mi sono trovato davanti a un contesto completamente diverso al quale sono abituato a vedere quotidianamente al centro di riabilitazione Inuka. Inserito in un contesto povero, spoglio, privo di ogni cosa c’era un bambino tetraplegico che provava a pronunciare parole prive di senso abbandonato a se stesso. Ho percepito quella differenza dal bambino pulito e curato di Inuka. Quando mi si è avvicinato strisciando, aggrappandosi alle mie gambe, con la saliva che gli usciva dalla bocca ho provato un senso di ribrezzo, mi sono spostato e allontanato (anche emotivamente). Quasi come se a toccarlo mi trasmettesse la sua disabilità. Lui ha percepito questa mia distanza e ha smesso di cercare la mia attenzione. Ma proprio in quel momento lì, il concetto di disabilità spiegato tante volte a lezione mi è venuto chiaro. Ho riconosciuto e governato questa emozione. Mi sono vergognato di me stesso, non pensavo di possedere dentro di me una paura del diverso tale da reagire così. Ho deciso di abbassarmi prenderlo in braccio, dedicargli le attenzioni che ogni bambino merita e promettergli che sarei tornato presto a giocare con lui.
Tutto questo mi ha fatto riflettere molto e ho finalmente afferrato un concetto di disabilità fino ad ora da me ignorato: nel momento in cui ho creato quella distanza emotiva e fisica tra me e lui ho creato disabilità; questa nasce anche nel momento in cui vi è una discrepanza nella relazione del soggetto con il mondo esterno. Questa restrizione alle attività sociali, alle attività di partecipazione sono una delle cause che aumentano la percezione del suo essere disabile.
Bisogna, quindi, rivalutare il concetto di disabilità e incoraggiare a passare da un approccio biomedico a uno biopsicosociale. Vedere, quindi, oltre la patologia il contesto in cui il soggetto è inserito. Iniziando a curare anche la relazione terapeutica.
Con questo voglio dire che se mi relaziono al soggetto malato come se fosse come tutti gli altri, se non lo percepissi come diverso dagli altri, se non dessi peso alla sua saliva sul mio braccio, se non facessi smorfie per l’odore di pipì, egli non percepirebbe l’esistenza di un problema. Altrimenti tutti questi limiti mentali, mi impedirebbero di creare una relazione con lui, creando distanza, creando disabilità. Ma nel momento in cui scavalco questi pregiudizi, questi limiti ecco che non si parla più di disabilitá. Ecco perché sostengo che la disabilità è anche e soprattutto una questione di percezione, di punti di vista.
E non possiamo giustificarci se il bambino non capisce o è troppo piccolo, perché se tratto con distacco il bambino la disabilità la percepirà lo stesso la madre o chi gli sta vicino. Questo apre un’altra considerazione importante: la disabilità non appartiene solo al singolo ma anche a tutti quelli che lo circondano.
Scrivendo questo diario di bordo ho trovato conferma in questa mia riflessione quando in questi giorni una paziente anziana emiplegica perdendo saliva mi ha bagnato il braccio durante un esercizio di fisioterapia. È scoppiata in lacrime per il suo senso di impotenza nel controllare un abilità (a noi) così naturale. Immaginatevi una donna adulta alla quale le si dovrebbero attribuire autorevolezza e rispetto vede persi in un gesto entrambi gli attributi. Un senso di impotenza, frustrazione. È lì che ho percepito una distanza.
E se questa distanza si crea a priori quanto possiamo fare noi attraverso i nostri atteggiamenti e comportamenti per ridurre e aumentare questa distanza chiamata disabilità?
La storia di Lightness, 10 anni, è triste. Quando arriviamo all’ostello di Inuka é seduta a terra con il suo busto. La nonna sorride e ci dice, quasi per scusarsi, che non si può alzare. È arrivata da due settimane al nostro Centro di riabilitazione paralizzata: non può muovere le gambe. È stata una punizione a scuola. Sì così. Una punizione tragica. Le punizioni corporali nelle scuole tanzaniane sono consentite ma regolate dalla legge: 2 bacchettate sulle mani oppure due nel sedere. Ma non un colpo sulla schiena da farla restare paralizzata.La scuola adesso sta pagando le cure e la permanenza di Lightness nel nostro ostello. Ma ha già inviato due suoi emissari per tentare di strappare alla nonna la versione di comodo. Lei sarebbe tornata a scuola dopo il colpo ricevuto: la paralisi sarebbe stata causata da un incidente avvenuto a casa. La nonna fortunatamente non si lascia convincere. Siamo rimasti sconvolti letteralmente sconvolti, parliamo con gli operatori del Centro Inuka e ci dicono che la bambina è già fortunata se la scuola si è fatta carico almeno di pagare le cure, sicuramente nessun maestro sarà denunciato e nessuna scuola sarà censurata per questo gesto criminale. Avevamo la speranza che potesse essere stato un edema a provocare la paralisi: una piccola emorragia interna che andava a comprimere il midollo e paralizzare gli arti. Ma come verificarlo? Un medico ci dice che si dovrebbe fare una radiografia in un centro specializzato e che potrebbe anche riprendersi, potrebbe camminare: ma la famiglia non ha i soldi. Facciamo avere a Chiara, la nostra espatriata presente nel Centro, i soldi che un’amica ci ha donato prima della missione in Tanzania. “Usali bene” ci aveva detto commossa. Ora possiamo raccontare a questa nostra amica che la storia di Lightness ha avuto un lieto fine. Dopo un mese di permanenza a Inuka. la bambina è tornata a casa sulle sue gambe. Dovrà solo tornare 1 volta al mese per i controlli periodici.
Più drammatica la storia la Hosea, classe 2008. É stata la TV nazionale tanzaniana (link) a denunciare la sua storia qualche giorno fa. Diagnosi di paraplegia a seguito di una azione “educativa” molto forte da parte di un maestro: faccia al muro e giù bastonate nella schiena. All’ennesimo colpo, il bambino crolla a terra e ci si accorge allora che il bastone stavolta ha lesionato il midollo: da allora il bambino sta in carrozzina e ha perso il controllo delle urine e delle feci. Hosea era arrivato la prima volta ad Inuka nell’aprile 2017 poi, la famiglia povera di mezzi e male informata, aveva preferito riportarlo a casa. Hosea era rimasto chiuso in casa senza scuola, senza cure, senza futuro. Hussein, un nostro fisioterapista attento e fortemente motivato nel suo lavoro, ce lo ha segnalato e ha fatto del tutto per convincere la famiglia a riportare Hosea al Centro Inuka. ll bambino ora è preso in carico dal nostro centro, sarà rieducato almeno nelle funzioni più importanti poi dovrebbe tornare in classe, il prossimo gennaio, nella scuola di Ilembula. La scuola forse pagherà i trattamenti e gli ausili che sono stati richiesti. Noi regaleremo a Hosea una nuova carrozzina.
Il “suo” maestro, purtroppo, come il maestro di Lightness, sono ancora lì a insegnare, protetti dalle loro scuole. In fondo sono sicuri che il loro metodo, “vabbè può succedere”, ma è l’unico che garantisce un apprendimento efficace…
Dal colloquio con una bambina che ha frequentato il nostro centro:
“Quando l’operatrice mi ha detto che tutto era pronto per andare a scuola ero contentissima. Però poi ho cominciato ad avere paura: come mi avrebbero accolto i compagni? Sarei riuscita a imparare? Che cosa mi avrebbe detto il maestro? Adesso devo dire che sono contenta e anche mia mamma, che all’inizio non voleva, adesso è molto felice!”
Nyha ha nove anni. Ora frequenta la scuola primaria, ma fino a poco tempo fa non usciva mai di casa. Sua madre ha da sempre lavorato tutto il giorno lo Shamba, il tipico apprezzamento di terreno coltivato davanti casa. Suo padre, invece, non lo ha mai conosciuto, perché è scappato subito dopo essersi accorto che sua figlia non avrebbe mai camminato. Inoltre l’istituto scolastico più vicino non era facilmente accessibile perché aveva l’entrata in cima ad una rampa piuttosto ripida.
E oltre alle barriere architettoniche, c’erano quelle mentali ad ostacolare l’entrata a scuola! La mamma di Nyha se ne stava tutto il giorno a lavoro, pensando che l’unico modo per aiutare la sua bambina fosse quello di riuscire a migliorare il suo raccolto, così da poter vendere qualcosa, proteggendo nello stesso tempo sua figlia dal pericolo dell’incomprensione e degli scherni dei compagni.
Per fortuna ogni tanto arrivano le belle notizie! Nel 2014 la mamma di Nyha aveva saputo che nel villaggio accanto era entrato in funzione un piccolo centro socio-riabilitativo e si era convinta a portarci la figlia. L’operatore del centro aveva inserito subito Nyha in un programma riabilitativo. Giorno per giorno, si vedono i miglioramenti e dopo mesi di faticoso lavoro la bambina impara a camminare con il solo aiuto delle stampelle.
E’ in questo periodo che, a Wanging’Ombe, la mamma di Nyha scopre che stiamo facendo un lavoro di formazione sugli insegnanti, che riguarda anche i maestri dell’istituto del suo villaggio. Li conosce. E’ un incontro incoraggiante, perchè apprende che, di lì a poco, sarebbero iniziati i lavori nella sua scuola, che non solo sarebbe stata più accessibile, ma avrebbe anche avuto insegnanti più capaci di trattare i piccoli disabili.
Comincia un sogno che presto si trasforma in realtà!
Oggi Nhya frequenta abitualmente le lezioni ed è molto studiosa. La mattina si sveglia presto per andare da sola a scuola, ma non sempre torna a casa a fare i compiti. Capita spesso infatti che vada dalle sue compagne. Lei finalmente fa la vita che ha sempre desiderato: una vita normale!
Noeli ha 11 anni, affetto da paralisi cerebrale infantile, non può camminare, ha iniziato la riabilitazione molto tardi; riesce però ad utilizzare la mani, gli piace giocare con le costruzioni in casa; e sa parlare, ma non scandisce bene le parole.
E’ nato a Dar es Salaam, dove viveva con i genitori e i fratelli. I genitori lo hanno portato a fare riabilitazione, ma i posti che potevano permettersi non erano di qualità, infatti Noeli non è riuscito a fare i progressi sperati.
La nonna, che vive a Mbeya, ha sentito parlare di Inuka, un centro di riabilitazione molto buono dove fanno gli esercizi per i bambini. La famiglia decide allora di far trasferire Noeli a Mbeya con la nonna, che due/tre volte all’anno, ormai da un paio d’anni, lo porta alle WIT (settimane di riabilitazione intensiva).
Durante una di queste settimane hanno parlato alla nonna di Simama CBR e del centro di Uyole. Noeli ha così iniziato l’anno scorso a frequentare anche il centro di Uyole, e usufruisce delle visite domiciliari perchè vive lontano del centro, e la nonna è sola e anziana per poterselo caricare sulla schiena. Ha uno standing a casa, che utilizza ogni giorno grazie alla nonna, che lo aiuta anche a fare gli esercizi i giorni in cui le operatrici non vanno a casa sua.
E’ così che ho conosciuto Noeli e sua nonna, durante una visita domiciliare. Abbiamo fatto gli esercizi tutti insieme, abbiamo giocato, e la nonna ci ha offerto il pranzo, ugali e verdura ovviamente, buonissimi.
Ho ascoltato la storia di Noeli e ho raccontato alla nonna che a Dar es Salaam, dove ci sono i genitori e i fratelli di Noeli, è stato inaugurato quest’anno un centro di riabilitazione su base comunitaria come Inuka. La nonna entusiasta di questa notizia ne ha subito parlato con suo figlio, il papà di Noeli.
Ho saputo poco tempo fa che la famiglia ha deciso di far trasferire Noeli a Dar, dove potrà vivere di nuovo con la propria famiglia, e frequentare il centro di riabilitazione Kila Siku, e poter continuare il suo programma riabilitativo.
La storia di Noeli, è la storia di un legame fra i vari progetti e i vari centri: Noeliè un testimone di amore, che attraversa la Tanzania.
Sono stati i bambini disabili e i loro amici i primi protagonisti della festa celebrata in un popoloso quartiere di Dar es Salaam per l’apertura del centro di riabilitazione “Kila Siku”. La loro sarà la prima generazione a veder messo in pratica il diritto all’uguaglianza sancito dalla Costituzione Tanzaniana. È stata una gran festa anche per i loro genitori, che vedono più concreto l’obiettivo della partecipazione della comunità territoriale alla presa in carico dei loro figli. Ma è stata una vera festa anche per i 15 operatori che nel quartiere già lavorano per la riabilitazione dei bambini disabili e che adesso hanno a disposizione spazi più accoglienti e meglio attrezzati. Con loro anche la Comunità delle suore di Ivrea ha fatto festa, che gestirà il centro in questa importante fase di avvio. E, naturalmente, abbiamo festeggiato anche noi di Comunità Solidali nel Mondo, perché vediamo coronato da successo il progetto All Inclusive iniziato due anni fa assieme al CEFA Onlus di Bologna – che del progetto è capofila – con l’apporto determinante dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e il generoso sostegno di un’Azienda italiana, la Finproject.
Molto ancora c’è da fare ma essere riusciti a raggiungere questo traguardo, grazie ad un grande lavoro di squadra ed il supporto di tanti amici di Comunità Solidali nel Mondo, ci riempie di orgoglio.
Alla festa, fra le numerose autorità intervenute, ha voluto esser presente anche Roberto Mengoni, ambasciatore d’Italia in Tanzania, che ha ben rappresentato il contributo degli italiani al raggiungimento di questo importante obiettivo. Non ha voluto far mancare alla festa la sua autorevole presenza anche Ummy Mwalimu,Ministra della Sanità del Governo tanzaniano. Le sue parole segnano una tappa importante nel cammino della collaborazione paritaria e fattiva degli italiani con la comunità tanzaniana:
“Molti bambini con disabilità in Tanzania, sia nelle zone rurali che nei centri urbani, non hanno accesso ai servizi riabilitativi. Il mio obiettivo, del quale ho discusso con Michelangelo, è affiancare ai 510 centri di salute presenti in tutta la Tanzania specifiche strutture per servizi di riabilitazione ai bambini con disabilità. Certo, 510 centri sono molti, possiamo iniziare con 50 o 100. Ma sono certa che in 5 anni si possa compiere un programma globale e sostenibile per una copertura sanitaria universale di servizi riabilitativi di qualità che raggiunga ogni cittadino, e in primo luogo ogni bambino con disabilità. Grazie mille! Siamo partner! Sorella e Fratello”.
“Kila Siku”. In lingua swahili significa “Ogni giorno”. Proprio come dice il nome, il centro di riabilitazione svilupperà le sue potenzialità quotidianamente in uno dei più popolosi quartieri della metropoli tanzaniana, Kawe, dove molti bambini con disabilità vengono ancora tenuti nascosti in casa, privi di ogni diritto alla integrazione e quelli che riescono a frequentare la scuola, vengono segregati nelle classi speciali. Il centro di riabilitazione, attraverso le attività diurne, accoglierà almeno 350 di questi bambini disabili e darà loro un servizio riabilitativo qualificato, diretto alla integrazione. È importante per loro, ma è anche un forte segnale ai genitori e alla comunità locale. È un primo ma decisivo passo verso l’uguaglianza sancita dalla Costituzione Tanzaniana che all’articolo 13 stabilisce:
“Tutte le persone sono uguali davanti alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, alla protezione e all’uguaglianza di fronte alla legge” . Se un bambino con disabilità resta nascosto in casa non è uguale agli altri. Se un bambino non va a scuola come tutti i bambini non è uguale agli altri. Molti bambini con disabilità vivono nascosti in casa: noi li aiutiamo a uscire, a frequentare il nostro centro e sono nati una seconda volta. Ora sono conosciuti nel quartiere, frequentano il centro e le mamme non si vergognano di loro”.
Una bellissima storia africana ben rappresenta il senso della giornata inaugurale del centro Ogni Giorno-Kila Siku di Dar es Salaam.
“Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume. Mentre tutti discutevano animatamente, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure ma il colibrì continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme.Ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!”. Il leone si mise a ridere: “Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?” e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. A quella vista un elefantino, dopo aver aspirato con la proboscide quanta più acqua possibile, la spruzzò sul fuoco. Anche un giovane pellicano, si riempì il grande becco d’acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata sul fuoco.Così tutti i cuccioli d’animale, i cuccioli del leone e dell’antilope, quello della scimmia e del leopardo dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie si prodigarono insieme per spegnere l’incendio. A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono ad aiutare i loro figli. Quando le ombre della sera calarono sulla savana, l’incendio poteva dirsi ormai domato. Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: “Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d’acqua può essere importante e che «insieme si può» spegnere un grande incendio. D’ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo”.
L’inaugurazione che noi abbiamo festeggiato il 14 febbraio, per loro è una festa vissuta “Kila Siku-Ogni giorno”: è proprio questo ciò che più è apprezzato dalla comunità tanzaniana. I bambini disabili di Dar es Salaam e i loro genitori sono il simbolo di ciò che vogliamo costruire tutti insieme non solo in Tanzania e non solo in Africa, ma in quel grande villaggio globale che sempre di più è il nostro pianeta. Tutti insieme si può a partire dai più piccoli e impegnarsi perché il mondo sia un po’ migliore di come l’abbiamo trovato.
Inaugurato a Dar es Salaam“KILA SIKU CBR”, centro di riabilitazione su base comunitaria. Kila Siku in lingua swahili vuol dire ogni giorno. E Kila Siku è il nome del primo centro di riabilitazione inaugurato oggi, 14 febbraio, nel quartiere periferico di Kawe, uno dei più popolosi della zona sud di Dar es Salaam, che con 6 milioni di abitanti è la più vasta metropoli della Tanzania. La struttura è adeguatamente attrezzata per dare kila siku, ogni giorno, risposte concrete, significative e qualificate ai bisogni di centinaia di bambini con disabilità. Ma il centro è anche il primo luogo dove le famiglie troveranno aiuto e sostegno per partecipare al percorso riabilitativo dei propri bambini con disabilità.
All’inaugurazione, alla quale hanno partecipato molti genitori, e bambini con disabilità, ha presenziato la ministra della Salute della Repubblica di Tanzania, Ummy A. Mwalimu, che ha nel suo discorso ha detto: “Sono molto felice che si apra un posto come questo. Non mi piacciono i centri dove le persone disabili vengono abbandonate, mentre qui, ogni giorno le persone vengono a fare riabilitazione e ogni giorno, Kila Siku, tornano nelle loro case. Prendersi cura dei disabili deve essere un impegno della famiglia e di tutta la comunità. Dietro ogni bambino disabile, invece, c’è quasi sempre una donna, una mamma, spesso sola, che ogni giorno deve affrontare enormi difficoltà. Sono stata molto toccata da quello che Comunità Solidali nel Mondo ha fatto per questo centro: ha dimostrato che gli italiani sono persone che sanno lavorare assieme alle comunità locali, gomito a gomito, senza stare dietro una scrivania ma sporcandosi le mani.”
Presente anche l’Ambasciatore Italiano Roberto Mengoni
Era presente anche l’Ambasciatore Italiano Roberto Mengoni, che rivolgendo il proprio saluto ha affermato: “Per me è stato un vero piacere venire qua, a conclusione di un progetto molto importante che va avanti e che seguo da diverso tempo. Esso testimonia la capacità degli italiani di realizzare cose concrete, che hanno immediato impatto sulla popolazione. In questi tre anni in Tanzania ho avuto modo di incontrare italiani straordinari. Alcuni di questi connazionali erano qui presenti oggi, già attivi con il progetto All Inclusive: Comunità Solidali nel Mondo, CEFA e CO.P.E. hanno dimostrato di essere capaci di mettere il cuore assieme a tantissima professionalità. Hanno realmente dato prova di tantissima capacità di vivere realmente a contatto e di collaborare con i tanzaniani, con le loro comunità, con le loro organizzazioni e di dialogare proficuamente anche con il governo e con le autorità locali, realizzando un progetto che ha già un concreto beneficio per la popolazione.”