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Autore: Francesco Cartei

“Chukuana”, un workshop sulla decolonizzazione degli interventi delle ong

La cooperazione allo sviluppo nei paesi dell’Africa e dell’America del Sud ha bisogno di vivere una sua “decolonizzazione”, che parta da un’analisi del modo in cui le attività sono condotte e conduca a garantire l’autonomia, l’autodeterminazione e l’indipendenza dei partner locali, che non a caso reclamano apertamente un loro forte protagonismo. Il tema interroga vivamente le organizzazioni non governative e le istituzioni che operano nel sud del mondo e richiede capacità di approfondimento, di comprensione della realtà e di confronto reciproco: per questo Comunità Solidali nel Mondo ha promossoChukuana – Decolonizzare davvero, l’evento organizzato a Roma da mercoledì 27 e venerdì 29 settembre all’interno del quale è previsto un workshop pensato appositamente per riflettere, dibattere ed elaborare proposte, da consegnare ai decisori politici, che traducano le esigenze dei nostri partner del Sud. 

L’appuntamento – promosso in collaborazione con AOI e Focsiv – è per giovedì 28 settembre a partire dalle ore 17:00 alla Casa del Municipio I Roma Centro (via Galilei 53). A confrontarsi, coordinati da Roberto Natale (Rai), saranno il presidente di Comunità Solidali nel Mondo, Michelangelo Chiurchiù; lo storico africanista Sandro Triulzi; la presidente di Focsiv Ivana Borsotto; il responsabile relazioni internazionali di Oxfam Italia, Francesco Petrelli; il prof. Senga Pemba dell’Università Sfuchas (Tanzania); l’economista Pasquale De Muro (Università Roma Tre); la presidente di AOI Silvia Stilli; il giornalista, docente e saggista Jean-Léonard Touadi. Partecipa anche tu, segnala qui la tua presenza.

La decolonizzazione dell’aiuto allo sviluppo rappresenta oggi lo sbocco di una riflessione urgente che interroga le organizzazioni del settore: chi opera sul campo – è la premessa dell’incontro – sa che il tema ha la sua complessità, non solo a livello teorico, ma per le implicazioni concrete e la traduzione operativa negli spazi delle attività e dei progetti. Come è possibile garantire la continuità dei progetti quando in loco mancano le competenze? Come è possibile costruire la sostenibilità futura dei progetti avviati dinanzi a Istituzioni pubbliche locali che per molti versi si rivelano inadeguate? Come si può giungere ad una autentica partnership paritaria, se sussistono ancora delle asimmetrie di potere? Questi interrogativi, e molti altri, rappresentano pane quotidiano per chi fa cooperazione allo sviluppo e richiedono una discussione franca e onesta.

Ad iniziare – sottolinea il presidente di ComSol, Michelangelo Chiurchiù – proprio dal fatto che “serve la consapevolezza comune che va riletta la storia coloniale italiana, che è stata un’avventura becera e assassina: una storia completamente rimossa, ma che ha portato nelle terre africane interessate una politica di terrore e di sterminio. Noi italiani siamo stati colonialisti, e colonialisti della peggior specie. Non è allora una cosa che riguarda esclusivamente gli altri: la decolonizzazione riguarda anche noi italiani”.

Nel tempo – continua – abbiamo assistito ad una crescente disuguaglianza nonostante il fatto che negli ultimi 50 anni siano stati inviati nell’Africa subsahariana oltre un trilione (mille miliardi) di dollari. Quando oggi parliamo di decolonizzazione dei rapporti e delle relazioni attuali, allora, significa che va aperta una nuova stagione. Oggi i nuovi criteri per la progettazione degli interventi delle organizzazioni non governative – sottolinea Chiurchiù – sono unanimi nel dirci che l’obiettivo principale da raggiungere è il cambiamento strutturale delle istituzioni in loco, non la realizzazione delle attività. Quello che facciamo come ong è certamente importante, serve per accompagnare quelle comunità, ma dobbiamo tenere conto che dobbiamo fare un’azione politica”.

La foto di apertura è di Marco Palombi

“Chukuana”, il via con la mostra fotografica di Marco Palombi

Un momento di arricchimento, da vivere con i tempi giusti, quelli necessari per farlo. Un’occasione importante per andare oltre il rapido e tumultuoso scorrimento di un’immagine dietro l’altra, modalità da smartphone o da pc alla quale siamo tutti sempre più abituati ma che non potrà mai far fiorire quelle sensazioni e quelle emozioni che l’incontro con una realtà diversa dalla nostra può suscitare. La mostra fotografica, che dal pomeriggio di mercoledì 27 settembre a Roma permetterà a tutti di poter gustare le immagini che il fotoreporter Marco Palombi ha catturato nel suo viaggio del maggio 2022 in Tanzania insieme a Comunità Solidali nel Mondo, è un’occasione bella per toccare quei luoghi, quelle situazioni e quei volti, con tutto il vissuto che quella terra così lontana sa trasmettere. Un momento aperto a tutti, con la compagnia dello stesso autore, per viaggiare, esplorare e conoscere un pezzo di Africa, anche senza salire su un aereo. E, infine, perfino la possibilità, a mostra conclusa, di portarsi a casa una delle 21 immagini esposte, che tramite una donazione contribuiranno così ad una raccolta fondi per le attività di ComSol.

“Chukuana” parte di slancio con 21 immagini

Mercoledì 27 settembre parte a Roma “Chukuana – Decolonizzare davvero”, l’evento promosso da Comunità Solidali nel Mondo per riflettere, lungo tre giorni, sul presente e sul futuro della cooperazione internazionale, e in particolare sul bisogno di autonomia, autodeterminazione e libertà dai condizionamenti che i partner locali dei progetti in Africa e America del Sud evocano sempre più frequentemente. L’evento, che proseguirà fino a venerdì 29 e che nel pomeriggio del 28 settembre prevede un workshop con esperti per riflettere, dibattere e elaborare proposte da consegnare ai decisori politici per tradurre operativamente le esigenze dei partner del Sud del mondo, avrà lungo tutto il suo svolgimento una sua propria colonna sonora, fatta però non di suoni ma appunto di immagini. Si tratta di una selezione degli scatti che Marco Palombi, fotoreporter romano, ha realizzato visitando la Tanzania insieme al giornalista Vincenzo Giardina (Agenzia Dire) e al team di Comunità Solidali nel Mondo. Palombi, che da oltre tre decenni viaggia per il mondo pubblicando i suoi reportage su varie e importanti testate (“La Repubblica” e “La Stampa” fra queste), ha scelto 21 immagini che raccontano le strade, i villaggi, i centri di riabilitazione, le atmosfere tanzaniane, le abitazioni nelle regioni di Mbeya, Dar es Salaam e Wanging’ombe, l’ambiente urbano e i villaggi rurali, per un racconto fatto di volti, storie e nomi, in grado di testimoniare le diverse sfumature di una realtà complessa e in continua evoluzione come quella tanzaniana.

Tutti all’inaugurazione: appuntamento mercoledì 27 settembre alle 17,30

Ad ospitare la mostra, così come l’intera tre giorni “Chukuana” (che in lingua swahili sta per “aiuto reciproco”), sarà la Casa del Municipio Roma I Centro (via G. Galilei 53). La mostra verrà inaugurata alle 17,30 di mercoledì 27 settembre dallo stesso Marco Palombi, che parlerà della propria esperienza sul campo insieme anzitutto al giornalista dell’Agenzia di Stampa “Dire”, Vincenzo Giardina (con il quale ha viaggiato) e poi con i giornalisti di “La Repubblica” Chiara Nardinocchi e Carlo Ciavoni. L’ingresso è libero e gratuito, ma è consigliato segnalare la propria presenza tramite questo form. La mostra sarà visitabile il primo giorno fino alle 21:30, e poi ancora giovedì 28 (ore 09:00-21:30) e venerdì 29 settembre (ore 09:00-16:00). Nelle mattinate del 28 e 29 Marco Palombi si confronterà e discuterà con ragazzi di classi di scuole superiori che parteciperanno agli incontri organizzati appositamente per loro. Le immagini del fotoreporter contribuiranno anche ad una raccolta fondi: tutto il ricavato dalla vendita delle foto in mostra, sarà devoluto a Comunità Solidali nel Mondo. Chi vorrà infatti, potrà a conclusione della tre giorni, portarsi a casa una delle 21 immagini scattate da Marco Palombi e montate su pannelli 50×70.

Palombi: “Recuperiamo insieme la magia della fotografia”

“Questa – ci racconta Palombi – è la prima esposizione su carta delle immagini raccolte in Tanzania: sono tutti scatti che fermano una storia, che raccontano un singolo momento, che presentano quelle atmosfere così particolari. Sono felice di questa occasione di riflessione comune, felice di potermi confrontare con chi verrà a vedere la mostra, felice che ci sia l’opportunità di fare una ‘cosa lenta’, cioè di poter vedere con calma, senza la fretta che ha invaso il web e i social network e che non permette di andare in profondità”.

La fotografia, dice Palombi, in questo periodo storico ha perso un po’ della sua magia a causa della velocità con cui oggi si fruiscono (e si cancellano) le immagini, un utilizzo istantaneo all’insegna dell’usa e getta che non permette davvero di cogliere tutta la complessità di un lavoro fotografico: “Ancora non è arrivato il momento, ma come società ritorneremo tutti un giorno ad una fruizione più lenta e meditata”, ragiona pensando al futuro. Nel frattempo, non resta che cogliere le opportunità e quella che parte mercoledì 27 settembre è una di queste: “Sono stato testimone di un lavoro incredibile che gli operatori e tutto lo staff di Comunità Solidali nel Mondo svolgono quotidianamente: ho conosciuto e ho visto all’opera giovani ragazzi italiani, quelli in Servizio Civile, che mi hanno emozionato e meravigliato per la loro capacità di vivere lì per mesi e mesi e fare con il cuore cose spettacolari, e ho incontrato famiglie e visto bambini tanzaniani dei villaggi più lontani essere accompagnati ai centri di riabilitazione per fare la fisioterapia necessaria”. Situazioni complesse raccontate in immagini che per la gran parte non mostrano neppure l’evidenza della disabilità (“fotograficamente parlando non sono voluto entrare in questo campo”), ma che ancor più per questo sanno lasciare il segno, rappresentando un vero ritratto d’autore di una terra e di una cultura.

Un lavoro, quello di Marco Palombi, fatto nel rispetto del contesto, della lingua locale, delle radici culturali e religiose, all’insegna della collaborazione e della solidarietà fra i popoli, cioè dei pilastri su cui si fonda la vera cooperazione allo sviluppo. La tre giorni di Chukuana – Decolonizzare davvero parte come meglio non avrebbe potuto. Ci vediamo tutti mercoledì 27 settembre alla Casa del Municipio Roma I Centro.

Segnalaci la tua partecipazione QUI. Grazie!

Centri Simama, l’abbraccio dell’Italia ai bambini di Mbeya

MBEYA – Un giorno di festa e di saluti, di abbracci e di lacrime, di informazione, di conoscenza e di raccolta fondi per far sì che anche quei bambini con disabilità le cui famiglie non hanno le possibilità economiche sufficienti per poter loro garantire cure e sostegno possano stipulare un’assicurazione sanitaria e godere così delle opportunità a disposizione sul territorio per migliorare la propria qualità di vita. E’ stato un giorno dalle intense emozioni quello di sabato 9 settembre a Mbeya, dove la comunità locale ha risposto positivamente all’invito dei Centri Simama CBR a partecipare e animare una giornata-evento di sensibilizzazione, conoscenza e impegno a favore dei bambini e bambine con disabilità e delle loro famiglie. Un momento al quale vogliamo ora dare un seguito anche dall’Italia, invitando tutti a contribuire per rendere ancora più forte e incisiva la possibilità di supportare bimbi e bimbe con disabilità.

Quattro italiani e un’idea per salutare tutti

L’iniziativa dei Centri Simama andata in scena sabato 9 settembre è nata dall’intuizione di quattro giovani che a Mbeya hanno trascorso molti degli ultimi 12 mesi e che sono ora giunti alla conclusione di un percorso impegnativo e straordinariamente formativo: si tratta dei 4 italiani – tre ragazze e un ragazzo – che in Tanzania hanno svolto il loro Servizio Civile Universale con Comunità Solidali nel Mondo e che sono ormai arrivati al capolinea di questa esperienza. Dopo un anno dall’avvio del loro servizio Giorgia Ferrami, Sabrina Leonardi, Ilaria Mazzuca e Andrea Pilia (qui nella foto insieme a Kitula De Pascalis) sono infatti pronti a rientrare in Italia, ma prima di lasciare Mbeya hanno lanciato l’idea e si sono impegnati attivamente per la riuscita di un evento di raccolta fondi a favore del programma Simama CBR per il quale hanno svolto servizio volontario in questo arco di tempo.

L’importanza dell’assicurazione sanitaria

“Durante il nostro percorso trascorso qui frequentando la comunità – ci racconta Giorgia – ci siamo rese conto che una delle difficoltà più grandi si riscontra quando i bambini si ammalano ma le loro famiglie non hanno la possibilità economica di portarli in ospedale, dove ogni intervento ha un costo. Accade molto spesso e l’obiettivo della nostra giornata di sensibilizzazione è stato proprio quello di raccogliere più fondi possibili per pagare l’assicurazione a quei bambini che non hanno la possibilità di farlo. Del resto il costo delle assicurazioni è aumentato di oltre il doppio di recente, e sono molte le famiglie che si ritrovano in difficoltà”. I fondi raccolti sono ora nelle mani dei referenti dei Centri Simama, che insieme al Dipartimento Sociale ha l’onere di valutare le condizioni delle famiglie che hanno necessità e di autorizzare a loro favore l’utilizzo delle risorse economiche disponibili.

Un sabato di settembre a Mbeya

Nel corso della giornata di sabato 9 settembre, in un clima informale e familiare, sono state illustrate alle persone presenti le attività dei Centri Simama CBR, a partire dai centri socio riabilitativi di Iyunga, Simike e Uyole e da quello semi residenziale di Shewa, nei quali i bambini con disabilità ricevono terapie motorie, cognitive e logopediche, anche attraverso l’utilizzo di ausili riabilitativi. L’intervento del direttore di Simama ha permesso di inquadrare i termini giuridici ed economici dell’azione svolta, e le testimonianze di mamma Prince e mamma Felix hanno consentito di comprendere a fondo quanto la possibilità di ricevere cure e sostegno adeguati incida sulla vita dei singoli bambini e su quella delle loro famiglie, migliorandola sensibilmente. A ravvivare ed allietare la giornata anche i giochi per i bambini, un po’ di musica, un bel rinfresco e una divertente asta nel corso della quale sono stati venduti gli oggetti di artigianato prodotti dalle mamme coinvolti nei progetti di cucito e sartoria.

Progetti, sinergie e autonomia

La giornata di raccolta fondi organizzata a Mbeya è un perfetto esempio di sinergia fra ComSol Italia e i partner locali che operano in Tanzania, i quali si attivano autonomamente in attività di raccolta fondi in loco in linea con il concetto di sostenibilità che sottolineiamo sempre, per far sì che i nostri progetti, una volta avviati, possano poi proseguire nel tempo con le proprie gambe. In questo contesto generale, i ragazzi e le ragazze italiani impegnati nel Servizio Civile Universale, così come i nostri cooperanti sul territorio (in questo momento per ComSol ci sono Kitula De Pascalis, Valerio Topazio e Valentina De Cao) fermi restando i rispettivi ruoli all’interno dei progetti di cooperazione in corso, contribuiscono tutti all’economia del territorio e costituiscono un’ulteriore ricchezza per le comunità nelle quali hanno scelto di vivere e impegnarsi.

Aiutiamo anche noi!

In quest’ottica di reciproco supporto, invitiamo tutti a partecipare anche dall’Italia alla raccolta fondi realizzata per i Centri Simama CBR: dai anche tu il tuo contributo per costruire un accesso alla sanità per tutti. Puoi effettuare una donazione singola per l’importo desiderato, o se preferisci attivare un contributo mensile. Grazie per il tuo sostegno!

“Chukuana”. Immagini, workshop e dibattiti: a Roma un evento di ComSol

Un unico evento con tre giorni di iniziative e dibattiti, con una mostra fotografica dai colori intensi, incontri con i ragazzi delle scuole e un workshop di lavoro per promuovere la cultura di una vera cooperazione internazionale e riflettere sul bisogno di autonomia e di autodeterminazione che – nei progetti in Africa e America del Sud – viene sempre più avvertito dai partner locali. In una parola, un momento di confronto a tutto campo su come “decolonizzare” la cooperazione allo sviluppo, per fare in modo che davvero le comunità africane e latino-americane siano protagoniste del loro proprio sviluppo e l’azione delle organizzazioni italiane non appaia come una nuova, e per questo più subdola, forma di colonizzazione.

L’iniziativa, intitolata “Chukuana. Decolonizzare davvero – Il futuro della cooperazione internazionale”, si terrà a Roma dal 27 al 29 settembre ed è promossa da Comunità Solidali nel Mondo, che chiama così a raccolta referenti istituzionali di Organizzazioni non governative, docenti universitari (anche tanzaniani), fotografi, giornalisti, studenti, sostenitori e amici: quartier generale dell’evento la Casa del Municipio Roma I Centro di via Galilei 53, nella quale durante la tre giorni si alterneranno occasioni per promuovere la cultura di una vera cooperazione internazionale, suscitare nuovi legami e rafforzare quelli già esistenti con persone e altre realtà associative, e riflettere, dibattere ed elaborare proposte da consegnare ai decisori politici. L’espressione “chukuana” in lingua swahili sta per “aiutarsi reciprocamente”, e in questo contesto sta quindi a designare una situazione di reciproca cooperazione, di vero e profondo partenariato.

Calendario alla mano, si parte il pomeriggio di mercoledì 27 settembre con l’inaugurazione di una mostra fotografica che farà poi da scenografia all’intera tre giorni: un viaggio nelle atmosfere tanzaniane e nelle attività e progetti di Comunità Solidali nel Mondo attraverso le immagini di Marco Palombi, fotoreporter che dagli anni ’90 raccoglie scatti e video per i suoi reportage dal mondo e che nel maggio 2022 ha viaggiato per la Tanzania proprio insieme a Comunità Solidali nel Mondo e al giornalista Vincenzo Giardina, che insieme a lui inaugurerà la mostra animando il racconto e il dibattito che caratterizzerà l’intero pomeriggio del primo giorno.

Proprio dalle immagini della mostra, e dal racconto ancora una volta di Marco Palombi affiancato dalla giornalista Chiara Nardinocchi, si trarrà spunto per gli incontri con gli studenti che visiteranno la Casa del Volontariato nelle mattinate di giovedì 28 e di venerdì 29 settembre. A partecipare saranno alcune classi dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado (la quinta superiore) che verranno coinvolti in un confronto intergenerazionale e stimolati alla comprensione della vita in contesti africani e latino-americani e al ruolo e all’importanza della cooperazione allo sviluppo.

Il pomeriggio di giovedì 28 spazio alla riflessione e al confronto con un workshop sul tema realizzato in collaborazione con l’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (AOI) e con la Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv): i molti relatori rifletteranno sulla condizione attuale e sullo stato di salute della cooperazione internazionale, e su come promuovere un’autentica partnership con i partner locali superando le asimmetrie di potere a favore di una piena e vera decolonizzazione.

“Chukuana. Decolonizzare davvero” nasce – afferma il presidente di Comunità Solidali nel Mondo, Michelangelo Chiurchiù “sugli stessi capisaldi di ComSol: fatica e ideali, cura e speranza, rispetto e cooperazione. L’evento e le iniziative che abbiamo pensato, in particolare sul tema della decolonizzazione e sul valore della (vera) cooperazione internazionale, nascono dalla consapevolezza che questo argomento risulta essere sempre più cruciale, non solo per noi ma anche per i nostri partner locali in Africa e America del Sud, dai quali viene tradotto in un loro specifico bisogno di autonomia e autodeterminazione. E’ un obiettivo che risponde all’esigenza di essere protagonisti della propria storia, del proprio presente e futuro, e che deve essere al centro della nostra attenzione”.

La partecipazione ai vari appuntamenti è libera ma per esigenze organizzative è prevista l’iscrizione QUI

Ifakara, “on air” la campagna sull’epilessia

IFAKARA – “I genitori non devono sentirsi inferiori o in torto a causa dei loro bambini con disabilità: loro sono gli unici bimbi che meritano più attenzione rispetto a tutti gli altri. Il mio consiglio ai genitori è quello di non chiuderli dentro casa: i bambini come loro dovrebbero essere portati all’ospedale e a scuola, dovrebbero ricevere tutte le attenzioni e le cure che vengono date agli altri bambini all’interno della società: se c’è un compleanno, deve essere festeggiato; se c’è da fare un viaggio o se c’è da camminare, devono poterlo fare. I genitori non devono sentirsi inferiori nell’avere questi bambini”. 

Le parole di Mama Francis, una donna madre di un bambino con disabilità colpito da epilessia, raccontano le difficoltà che in Tanzania sono vissute dai genitori come lei, e mettono al tempo stesso in evidenza il grado di consapevolezza ormai raggiunto da un numero sempre maggiore di persone, ferme e risolute nel difendere i diritti propri e dei propri figli e nel reclamare attenzione e presa in carico per tutti coloro che vivono una condizione simile.

Siamo a Ifakara, in Tanzania, dove il St Francis Hospital – nell’ambito del Programma Simama – ospita un ambulatorio per la diagnosi e la cura dell’epilessia, con medici e personale sanitario appositamente formati, e dove alla diagnosi e alla cura si è da tempo affiancata anche una campagna di sensibilizzazione – denominata We-ASET (We’are Against Stigma Epilepsy in Tanzania) – che divulga un’informazione corretta sulla malattia, lottando contro lo stigma che tuttora colpisce le persone interessate e le loro famiglie. Attività avviate tempo fa nell’ambito del progetto “Beati i misericordiosi” finanziato dalla Cei con fondi dell’otto per mille alla Chiesa Cattolica e ora in via di consolidamento nell’ambito del progetto “Shine” finanziato dall’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics).

“Nella nostra clinica – dice Lucia Mbiro, medico presso il St Francis Referal Hospital – offriamo diversi servizi, tra cui visite mediche e trattamenti farmacologici per pazienti con epilessia: in un locale offriamo servizi di counseling, advocacy e trattamenti farmacologici ai pazienti con epilessia, in un’altra stanza eseguiamo l’esame con l’elettroencefalografo per poi interpretare i dati e fornire la cura adeguata”. Una clinica aperta tre giorni alla settimana (lunedì, mercoledì e giovedì) la cui esistenza viene promossa anche attraverso i mezzi di comunicazione, per far sì che il maggior numero di persone interessate al tema possano effettivamente fruire del servizio. 

Una parte della campagna informativa si sviluppa attraverso programmi radiofonici, molto seguiti in un paese come la Tanzania: “I genitori dei bambini con epilessia – racconta nel corso di uno di questi programmi Asaadi, psicologo di Kila Siku a Dar es Salaam, che ha supportato l’avvio della campagna e la raccolta dati – sono spesso confusi di fronte alle situazioni che devono affrontare per via della malattia: a volte vengono discriminati all’interno della loro stessa famiglia e della loro comunità. Una difficoltà importante per ognuno di loro è il fatto di non avere dei caregivers a cui affidare il bambino durante le loro ore di lavoro, il che conduce al fatto che molto spesso devono rinunciare al loro impiego, obbligati a rimanere a casa per prendersi cura del piccolo. Una sfida enorme dal punto di vista economico, umanamente amplificata dal fatto che possono soffrire ulteriormente a causa delle parole provocatorie e dello stigma che subiscono con riferimento alla disabilità del figlio”. 

“La comunità tanzaniana – dice Asaadi – non comprende l’epilessia e ogni crisi diventa un problema insormontabile da gestire perché nessuno ha insegnato finora come fare: girano tante credenze e superstizioni, che rendono difficile la vita delle persone”. “Ho sentito dire – confida Mama Francis – che l’epilessia è una malattia dovuta a una maledizione del bambino, o che si verifichi a causa di un rapporto sessuale in età precoce da parte dei genitori. O ancora si dice che il bambino abbia l’epilessia a causa di una maledizione fatta per ottenere ricchezza e denaro da parte del nonno o del padre o chissà da chi”. “Sì, le persone – conferma un’altra mamma, Merry Ombey – credono che questi siano problemi legati alla stregoneria, come se gli spiriti si fossero impossessati del corpo della persona a causa di una maledizione. Ma non bisogna credere a queste cose”. “Consiglio a tutti i genitori che si trovano di fronte a queste situazioni – dice un’altra mamma – a non correre dagli stregoni: devono andare in ospedale per la diagnosi di questi problemi. Mio figlio ha iniziato ad avere delle crisi epilettiche all’età di cinque anni: il pediatra del St. Francis ha diagnosticato le crisi e gli ha somministrato alcune medicine, grazie alle quali ora sta migliorando. Questa è la strada”, dice con convinzione.

Le informazioni trasmesse alla radio spiegano cosa è l’epilessia e come va trattata, e le testimonianze delle mamme (o dei papà o dei caregiver) dimostrano come le figure adulte vengano formate a saper riconoscere i sintomi dei bambini e ad intervenire in modo adeguato. La sensibilizzazione dell’intera comunità è un obiettivo fondamentale da perseguire, per cambiare la percezione generale e far sì che le famiglie con epilessia possano contare su un ambiente amico e adeguatamente istruito, senza discriminazioni che infieriscono su persone già provate dalla malattia. 

“Con un trattamento adeguato e corretto – dice padre Achille, direttore generale dell’Ospedale St Francis fino al febbraio 2023 – le persone con epilessia possono stare meglio, senza soffrire gravemente la malattia: noi vogliamo far sì che la diagnosi sia effettuata per tempo, anche sotto i cinque anni, perché un trattamento precoce dà una qualità di vita migliore. E con i progetti in corso puntiamo a fornire un trattamento adeguato non solo in quest’area, ma in tutta la Tanzania”.
Puoi contribuire anche tu al supporto dell’ambulatorio e al sostegno delle azioni in corso per favorire una corretta diagnosi e una puntuale gestione dell’epilessia, migliorando così la vita di tanti bambini e tante bambine con disabilità, insieme alle loro famiglie. Come? Puoi fare una donazione oppure scoprire quali sono gli altri modi per sostenere Comunità Solidali nel Mondo. Grazie per il tuo aiuto!

Sei mesi di Shine, azioni in corso

Sei mesi di azioni concrete per trattare le principali condizioni patologiche nei bambini e bambine con disabilità che arrivano ai nostri Centri di riabilitazione: la malnutrizione e l’epilessia. Due nemici che in Tanzania stiamo combattendo perché non possano nuocere e perché l’intera società acquisisca competenze e mezzi per contrastarli e sconfiggerli. 

Il primo semestre di azioni del Progetto Shine (AID 012590/09/1), finanziato dall’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) si chiude con un bilancio positivo e con le prime positive interlocuzioni con le istituzioni governative tanzaniane per la realizzazione e la revisione dei protocolli ufficiali per la diagnosi e cura dell’epilessia e malnutrizione. 

La lotta alla malnutrizione

Partiamo da Dar es Salaam, dove al centro A. Verna – Kila Siku si è formato, sotto la guida del dottor Peter Alando, il team dedicato alle attività di screening e diagnosi sulla malnutrizione: tre operatrici e due volontari – coadiuvati dagli specialisti all’assistenza sociale e al consulto psicologico – hanno avviato il lavoro di squadra che ogni mese ha portato ad effettuare lo screening su una media di 65 bambini e bambine dell’Antonia Verna Rehabilitation Centre. A seguito dello screening, una media di 44 bambini ogni mese è stata sottoposta a trattamento, e a seconda della diagnosi e dell’andamento riportato, i caregivers hanno ricevuto farina fortificata (161 unità) e latte in polvere (108 unità) per facilitare il giusto apporto nutrizionale ai bambini con grave o moderata malnutrizione. I nuovi pazienti ospitati in clinica sono stati 15. 

Anche a Mbeya, sotto il programma CBR Simama, grazie al cofinanziamento della Conferenza Episcopale Italiana, si è costituito il team per il trattamento della malnutrizione (sotto la sapiente guida del Dr. Joshua Marson e con il contributo di una psicologa e una social worker). La clinica attiva nei 3 centri di Simike, Iyunga e Uyole, ha visto lo screening di 236 bambini con la distribuzione ai caregivers di 192 Kg di farina, 191 unità di latte in polvere e 207 unità di viritubish (un integratore specifico per la cura dei casi pediatrici). Il programma formativo annuale sul trattamento della malnutrizione ha coinvolto prima lo staff dei centri e poi in seguito anche i caregivers. Dalle misure di primo soccorso alla prevenzione del soffocamento, fino all’alimentazione del bambino nei primi mille giorni, i temi hanno riscosso l’attenzione dei partecipanti, con una grande partecipazione. In fase di valutazione, lo staff coinvolto nei training ha dimostrato un netto miglioramento delle competenze specifiche.

Con il progetto Shine, i centri Simama e il centro Antonia Verna hanno introdotto l’uso di un nuovo indicatore per l’indagine delle abitudini alimentari: HDDS, ovvero una misura qualitativa che riflette la varietà di alimenti presente nella dieta delle famiglie coinvolte. Il team ha dato il via alla raccolta dei dati, intervistando le caregivers e fornendo una relativa consulenza nutrizionale. I primi dati di riscontro tracciano un’evoluzione positiva del progetto.

Contro l’epilessia

Quanto invece al secondo filone, quello della cura dell’epilessia, partiamo da Mbeya dove ComSol Tanzania ha portato a termine i lavori della clinica per l’epilessia: abbiamo costruito uno spazio dedicato a scopi medici, dove forniremo servizi per l’epilessia (e la malnutrizione) con 4 sale mediche, una reception, una sala d’attesa, una farmacia e una toilette. L’ambulatorio per l’epilessia si trova all’interno del centro sanitario di Iyunga RC e di fronte alla nuova struttura di riabilitazione che si prevede di aprire alla fine di quest’anno. Si tratta di un passaggio fondamentale perché permetterà di migliorare la qualità del servizio, creando un filo diretto tra la nuova clinica e la struttura di riabilitazione, così da garantire un trattamento più efficace ai bambini epilettici e malnutriti sotto trattamento riabilitativo.

Con l’apporto dei fondi Shine è stato possibile ammobiliare la clinica con panche per la sala d’attesa, tavoli per le sale mediche e la reception, armadi per la gestione delle cartelle e per lo stoccaggio dei farmaci, tende, bilance e altro. Durante l’estate è previsto l’arrivo del macchinario EEG per l’elettroencefalogramma, acquistato di recente. Ad agosto è previsto l’arrivo di una specializzanda italiana in neuropsichiatria infantile, che prenderà le redini del lavoro avviato, seguendo lo staff in modo costante, avendo a disposizione la migliore strumentazione e il primo lotto di farmaci per il trattamento dell’epilessia, la cui procedura d’acquisto (per un totale circa di 17.000 euro) è in corso d’opera. 

A Ifakara, invece, il progetto Shine supporta e dà continuità le attività della clinica di epilessia avviata lo scorso anno con i fondi della CEI, attraverso il lavoro del Dr. Mgabo Mabusi e del tecnico EEG Magreth Wambo. Un totale di 240 pazienti in cura, con un ciclo di formazione rivolto a 45 caregivers che ha portato ad una maggiore consapevolezza sull’epilessia, innescando un processo virtuoso di lotta allo stigma e ai falsi miti.

Contatti governativi

Nel corso di questo primo semestre si sono gettate le basi di una collaborazione solida con il Ministero della Salute e il Tamisemi (Ministero degli affari regionali) per la realizzazione e la revisione dei protocolli per la diagnosi e cura dell’epilessia e malnutrizione. La missione di confronto realizzata a Dodoma per definire il testo di un Memorandum of Understanding ha evidenziato una concordanza di intenti sui punti fondamentali: guida politica per la revisione dei protocolli e la produzione di buone pratiche, supporto tecnico, accesso ai dati e alle informazioni utili, disponibilità di risorse umane. 

Avanti tutta

Nuovi importanti passi avanti sono stati dunque fatti nella lotta alla malnutrizione e all’epilessia in Tanzania, a beneficio di un numero sempre maggiore di bambini e bambine con disabilità, che possono contare su una presa in carico globale e su un’azione su base comunitaria che coinvolge una pluralità di soggetti e che costituisce un valore aggiunto di fondamentale importanza. Un impegno – quello previsto dal progetto Shine – che entra ora nel suo secondo semestre, per raggiungere altri e nuovi obiettivi.

CBR, il nostro modo di essere

E’ l’approccio che abbiamo scelto e che caratterizza l’intero nostro operare. E’ una dichiarazione di intenti e al tempo stesso un dato di fatto, perché siamo certi che questo è il modo migliore per fare cooperazione allo sviluppo e farlo in modo specifico nel campo della disabilità e dei diritti di ogni persona. Non un rapporto dall’alto in basso, organizzato secondo una volontà gerarchica, ma un’attività che innesca processi di sviluppo per una comunità intera, che promuove la riabilitazione e lo fa coinvolgendo le stesse persone con disabilità, i loro familiari e la comunità tutta.

La Riabilitazione su Base Comunitaria (che è resa dall’acronimo CBR, Community Based Rehabilitation) è una strategia attuabile nell’ambito dei processi di sviluppo di una comunità, definita a livello internazionale fin dagli scorsi decenni. Si prefigge di organizzare la riabilitazione (e quindi i servizi sanitari, ma anche educativi, professionali, sociali) in modo da valorizzare il ruolo delle persone con disabilità, dei loro familiari e caregiver e di tutta la comunità, che diventano protagonisti dell’attività con l’obiettivo di garantire l’uguaglianza delle opportunità e l’integrazione sociale di tutte le persone con disabilità. E’ la promozione di un modello sociale della disabilità, che non si esaurisce nel rapporto fra soggetto e sanitario (medico, terapista, ecc.) ma contempla il coinvolgimento di tutta la comunità: del resto, la condizione delle persone con disabilità è legata ovunque al rispetto dei diritti umani, e quindi chiama in causa l’azione della comunità, per garantire una piena inclusione sotto molteplici aspetti: sanitario, educativo, sociale, oltre che di sostentamento e di empowerment.

La CBR è vissuta come fondamentale cornice di tutte le attività sviluppate da Comunità Solidali nel Mondo. Un approccio che si avvale della collaborazione di familiari, amici, operatori e dell’intera comunità per emancipare la persona con disabilità e accrescerne l’autonomia personale e che è – lo vediamo nel concreto – particolarmente efficace in Tanzania, dove l’accesso alle cure non è sempre garantito e rischia di condurre alla progressiva e inesorabile emarginazione della persona con disabilità. 

Una storia che a Wanging’ombe, dove è attivo il Centro di riabilitazione Inuka, ha una storia ormai ultradecennale: un periodo ricco di esperienze e di volti che ci hanno permesso di vedere con mano che…

  • la CBR è SOLIDARIETA’ perché laddove necessario la comunità si fa carico del sostentamento economico delle famiglie che non riescono a garantire alle persone con disabilità l’accesso ai loro diritti;
  • la CBR è INCLUSIONE LAVORATIVA perché favorisce il potenziamento delle capacità delle persone con disabilità e la loro inclusione e partecipazione in tutti i processi di sviluppo, compreso l’ambito lavorativo;
  • la CBR è INCLUSIONE SCOLASTICA perché lavora per rendere concrete le normative che prescrivono che tutte le persone con disabilità abbiano gli stessi diritti all’istruzione e alla formazione, in contesti inclusivi;
  • la CBR è SVILUPPO DI COMPETENZE attraverso programmi di microcredito: tramite essi soprattutto le mamme di bambini con disabilità (spesso sole perché abbandonate dai mariti e lasciate sole nella cura familiare) hanno modo di apprendere una competenza professionale che generi nei mercati locali quei guadagni sufficienti a renderle autonome nel sostentamento e nelle cure al proprio bambino;
  • la CBR è ASSISTENZA DOMICILIARE perché porta le cure anche a quei bambini con disabilità e a quelle famiglie che non possono permettersi di raggiungere gli ospedali e pagare le cure: sono minori che vivono spesso in villaggi difficilmente raggiungibili e isolati, che non avrebbero altrimenti alcuna possibilità di essere seguiti.

La CBR ci racconta tantissime storie: quella di Mariam, mamma di due gemellini di 4 anni con paralisi celebrale infantile, epilessia e malnutrizione, per i quali la comunità di Inuka ha ritenuto opportuno attingere al fondo di donazioni destinate alle famiglie in difficoltà per poter fornire cure immediate e adeguate; la storia di Aloise, ragazzo disabile in seguito ad un incidente sul lavoro, che da oltre 10 anni è un dipendente di Inuka, addetto fra le altre alla mansione di preparare la colazione ai neonati e bambini che ricevono le cure del Centro; la storia della mamma di Alexi, che riesce a sostenere le cure del proprio figlio grazie alla vendita di vestiti tradizionali tanzaniani, che ha imparato a realizzare con i Kitenge (stoffe locali) nell’ambito delle attività di artigianato solidale; la storia di Samueli e della sua mamma, che ogni settimana vengono raggiunti dai terapisti del Centro per garantire al piccolo quelle terapie riabilitative che altrimenti non potrebbe avere; la storia delle tante mamme e dei tanti bimbi accolti dall’ostello Inuka che accoglie i piccoli pazienti (con le loro mamme) che devono effettuare un ciclo continuo di terapie (tendenzialmente di 7-10 giorni) e che abitano troppo lontano per poter andare e tornare in giornata (ve lo abbiamo raccontato qui).

Storie che diventano sempre di più ogni anno che passa: dalla sua inaugurazione ufficiale nel 2011, l’Inuka rehabilitation Hospital di Wanging’ombe ha accolto e offerto terapie riabilitative a oltre 6.000 bambini, con una trasmissione delle competenze dai terapisti ai caregivers per fare in modo che essi possano continuare gli esercizi di riabilitazione in maniera autonoma anche nelle loro case, garantendo una costanza nel trattamento e una maggiore consapevolezza nella gestione quotidiana del bambino con disabilità. 

Un’azione preziosa alla quale tutti possiamo dare una mano: DONA ORA il tuo contributo per aiutare i bambini con disabilità in Tanzania a vivere la loro vita come parte integrante della loro comunità. 

Jeremia e gli altri: la forza del sostegno a distanza

Non è assistenzialismo e non è un sussidio generico di dubbia utilità. E’ invece una forma di cooperazione e di solidarietà umana che diventa aiuto concreto, con un impatto reale sulla vita del bambino con disabilità, ma anche su quella della sua famiglia e sulla comunità alla quale appartiene. Il sostegno a distanza è una cosa seria, che ci permette di instaurare un rapporto di vicinanza oltre le grandi distanze chilometriche che separano i diversi continenti: è un gesto di solidarietà che cambia davvero le cose, talvolta perfino in modo inaspettato.

Ecco Jeremia: un percorso che genera speranza

Segnatevi questo nome: Jeremia. L’anno scorso, a 4 anni di età, è arrivato al nostro Centro di Riabilitazione A. Verna – Kila Siku di Dar es Salaam (Tanzania) accompagnato dalla mamma e dalla zia. Non ha padre, allontanatosi dalla famiglia già prima della sua nascita. Molto presto in casa si accorgono che qualcosa non va: è iperattivo, linguaggio verbale assente, comprensione non adeguata, contatto oculare saltuario. La diagnosi medica è di autismo, disturbo da deficit di attenzione, problemi nella socializzazione e comportamenti aggressivi.

Jeremia inizia a fare terapia riabilitativa al Centro A. Verna Kila Siku. Con grande difficoltà: vaga spesso scalzo e nudo nel giardino, rifiuta gli esercizi, è complicato farlo stare seduto e catturare la sua attenzione. I terapisti non demordono. Col tempo Jeremia fa miglioramenti importanti: ora è solito arrivare al Centro con gli amichetti di scuola, si toglie le scarpe da solo e le mette vicino alla porta, entra cercando i terapisti, prende i giochi e si mostra più interessato alle attività.

Grazie anche alla musica è più attento e collaborativo, imita suoni semplici e dice brevissime parole di saluto. Ha ancora i suoi momenti di crisi, quando improvvisamente inizia a urlare e a spegnere le luci, e talvolta risulta ancora difficile farsi ascoltare. Tuttavia una breccia si è aperta nel suo mondo, e un legame profondo e speriamo duraturo si sta instaurando pian piano.

Un sostegno costante per aiutare i bambini e le loro comunità

Lui, Jeremia, è uno dei bambini aiutati a distanza, perché la sua famiglia non è in grado di sostenere le spese necessarie per il suo percorso riabilitativo. Per garantire le cure a lui e a molti altri bambini e bambine con  disabilità, la cosa importante non è tanto la quota, ma la costanza del sostegno, perché questa permette una pianificazione delle attività e una migliore resa. Con 25 euro al mese (che significa 80 centesimi al giorno, meno di un caffè) un bambino o una bambina con disabilità può frequentare uno dei nostri centri socio-riabilitativi: verrà stilato un percorso riabilitativo personalizzato annuale e – noi ci teniamo molto! – la sua famiglia, così come la comunità tutta, sarà coinvolta nella formazione.

E’ questo infatti il modo in cui abbiamo costruito le attività: la riabilitazione promossa dai nostri centri di riabilitazione avviene su base comunitaria ed implica quindi un coinvolgimento dell’intera comunità che si prende cura del bambino valorizzandone le sue abilità e capacità residue. Una cura che si estende naturalmente anche a tutti i bambini che non possono frequentare i centri ma che raggiungiamo direttamente nei loro villaggi con le visite domiciliari. La riabilitazione psico-motoria si accompagna, se necessario, alle cure per la malnutrizione, all’Inserimento scolastico, all’assistenza domiciliare, alla fornitura di ausili ortopedici e al sostegno psicologico alle famiglie. C’è davvero tanto da fare!

Il tuo sostegno a distanza: per un bimbo e per tanti bimbi

Se attivi un sostegno a distanza per un bimbo o una bimba, noi periodicamente condivideremo con te gli aggiornamenti sul suo percorso riabilitativo: sarà come avere notizie di una persona cara, seguendone il percorso di vita. Ma se è bello e gratificante (e lo è!) scambiarci notizie sui progressi che bambini e bambine raggiungono, perché accontentarsi della storia di uno solo? Perché non conoscerne anche degli altri, affezionarsi a loro, seguirne le storie? Ebbene, è possibile, e senza che la cifra mensile debba necessariamente aumentare. Scegliendo di sostenere l’intero Centro di riabilitazione, infatti, tu permetterai allo staff di intervenire su più situazioni di particolare gravità psico-motoria che non possono essere coperte solo dalla famiglia e noi condivideremo periodicamente con te le storie di questi bimbi, con aggiornamenti sui loro percorsi di cura e con uno sguardo anche alle loro mamme, ai loro papà e agli operatori del centro, perchè sono aggiornamenti che coinvolgono l’intera comunità, non il singolo bambino. Non uno, ma tanti bimbi che imparerai a conoscere e a seguire insieme alla comunità nella quale vivono.

Attiva ora il tuo sostegno a distanza direttamente da casa con carta di credito oppure scrivici per ricevere tutte le informazioni per farlo attraverso banca o posta. Aiutiamo tutti insieme le bambine e i bambini con disabilità dei nostri centri e le loro comunità!

A Mbeya è un successo il corso di sartoria: il racconto dei protagonisti

MBEYA – Hanno imparato a cucire, acquisendo una competenza che non avevano e che possono ora mettere a frutto. Un’opportunità che si è presentata loro davanti e che hanno saputo cogliere al volo, continuando a seguire i loro figli nell’attività di riabilitazione (sono tutti genitori di bambini o bambine con disabilità) ma accrescendo le possibilità di crearsi un lavoro e di avere un proprio reddito, con il quale poter sostenere economicamente l’intera famiglia. 

Tanti sorrisi e tanta soddisfazione per i 18 partecipanti giunti alla conclusione delle attività di formazione al cucito a Mbeya: un’iniziativa portata avanti nell’ambito del progetto “Wanawake – Dignità e diritti per le donne”, realizzato con il finanziamento dell’8 per mille della Chiesa Valdese. I partecipanti sono stati individuati dal Dipartimento sociale che lavora per il centro Simama CBR sulla base della situazione socio economica della famiglia, sull’interesse personale del singolo e sull’urgenza per il genitore o caregiver di specializzarsi in un ambito al fine di trovare un lavoro. Una necessità avvertita soprattutto dalle mamme che sono in larga parte molto giovani e non avendo finito la scuola hanno una probabilità davvero bassa di emanciparsi. Sono stati 20, fra il 10 febbraio e il 23 giugno scorso, i training seguiti dai frequentanti, che hanno permesso loro di imparare a cucire abiti, vestiti, gonne, camicette, magliette maschili, pantaloni ma anche borse, zaini, cappelli, astucci e porta documenti.

“Sapevo già cucire alcuni prodotti, ma il corso mi è servito a rafforzare le mie conoscenze e ad imparare nuove cose”, dice Christina Mayunga, una delle partecipanti, mamma di Prince. “Sono abbastanza soddisfatta, la mia speranza ora è di sviluppare le capacità che ho acquisito. Spero di avere l’opportunità di farlo, mi piacerebbe molto continuare”. Anche Neema Mwashiuya, mamma di Priscilla, è soddisfatta: “E’ la prima volta che ricevo questo tipo di formazione, per me era tutto nuovo ma ho imparato davvero tante cose e ora posso iniziare a lavorare da sola, anche se dovrò certamente migliorare. La mia speranza è quella di aprire un ufficio, ma certo la cosa più difficile è poter avere una macchina da cucire”. Quelle che i partecipanti hanno usato durante il corso rimarranno all’interno dei centri di Simama CBR per dare ancora la possibilità ai genitori e ai caregivers di lavorare dopo aver seguito i loro figli nell’attività di riabilitazione. Di fatto, si crea una sorta di circolarità nelle attività e un incentivo per continuare a frequentare i centri: ci si assicura insomma che i bambini siano seguiti e abbiano le giuste cure e attenzioni e, allo stesso tempo, a mamme e papà è data la possibilità di crearsi un lavoro e avere un loro reddito. Una tipologia di intervento attivata sulla base della matrice della riabilitazione su base comunitaria (CBR) che permette di sviluppare conoscenze e sensibilizzazione, riabilitazione ed empowerment.

C’è anche chi progetta di fare un passo ulteriore in avanti, come Salama Simbeye, mamma di Thomas: “E’ stata un’esperienza nuova per me, ho imparato davvero tante cose e molte altre sarei felice di impararle ancora. La mia speranza è quella di poter sviluppare le competenze che ho acquisito e lavorare con la macchina da cucire”. Il suo obiettivo è quello di comprarne una e di poter quindi lavorare da casa: ne ha parlato con il marito, che le darà una parte del denaro necessario, mentre un’altra parte progetta di ottenerla lei stessa con le prime vendite dei centrini da divano o da tavola.

Fra tante mamme, ha partecipato al corso anche un papà, quello di Paulina: lui si chiama Alistedes Ernest Rubibila e prima del febbraio scorso – dice – “non avevo alcuna conoscenza in materia: è stato tutto nuovo per me e ho imparato parecchie cose. Mi piacerebbe in realtà apprenderne altre ancora, in particolare sull’abbigliamento maschile, ma già così posso lavorare da solo e spero di poter sviluppare ciò che ho imparato”. Con il loro lavoro, tutti i 18 partecipanti al corso di sartoria potranno generare reddito, sostenendo la propria famiglia e le stesse cure dei loro bambini con disabilità, contribuendo più in generale allo sviluppo dell’economia locale.

Le azioni del Centro Simama e di Comunità Solidali nel Mondo in Tanzania possono essere supportate da tutti regalando a se stessi o ad altri i prodotti dell’artigianato solidale, dietro i quali (come abbiamo raccontato qui) ci sono le prospettive di vita di donne e uomini che scommettono sul proprio futuro, maturando una nuova consapevolezza sul proprio ruolo dentro la comunità e dentro la società. Fra gli oggetti proposti, che sono visibili alla pagina Artigianato Solidale, ci sono beauty case, pencil case, porta laptop, pochette, agende e quaderni, borse, portamonete, elastici, sacchettini, zaini e grembiuli. Prodotti adatti anche al confezionamento di bomboniere da distribuire in occasione di matrimoni, battesimi e ogni altro momento importante della nostra vita personale e familiare. Per tutte le informazioni o per ordinare subito i prodotti dell’artigianato solidale potete inviare una richiesta tramite il form visibile alla pagina dedicata o inviare una email all’indirizzo solidarieta@solidalinelmondo.org. Sarete ricontattati al più presto per ricevere tutti i dettagli utili alla vostra richiesta, comprese disponibilità, tempistiche e indicazioni operative.

Tanzania, la maternità partecipata

di Michelangelo Chiurchiù

DAR ES SALAAM (primavera 2023) – Bite, la nostra segretaria del Centro Kila Siku, mi saluta radiosa al mattino quando entro in ufficio. La pancia è vistosa e lei, al contrario di altre donne incinte tanzaniane, non fa nulla per nasconderla. D’altra parte il riserbo è giustificato, oltre che da costumi rituali, anche dall’alto tasso di mortalità neonatale. Le faccio gli auguri, che ricambia col sorriso.

Il mattino dopo c’è aria di festa in palestra: Bite ha avuto un bambino!

“Ma quando?”.

“Stanotte”, risponde Chausiku, l’assistente sociale, amica del cuore.

Sono incredulo e chiedo alla suora che è ben informata. Mi racconta che il pomeriggio, uscendo dall’ufficio, Bite le confida che ha dolori molto forti ma rifiuta di essere accompagnata; preferisce prendere ben due daladala (i pulmini del trasporto pubblico di Dar) per tornare a casa dove ha già telefonato al marito.

La valigia è pronta e insieme vanno in ospedale.

Alle tre del mattino nasce Eliam!

Le suore del Centro organizzano una visita alla casa dei nuovi genitori. Si affitta un pulmino, i colleghi fanno una colletta per il regalo e tre giorni dopo, nel pomeriggio, si parte tutti insieme. La casa è lontana più di un’ora in mezzo al traffico di Dar.

Ci accoglie la mamma di Bite, siamo più di venti, e ci fa accomodare in due stanze pulite e modeste. Calde parole di benvenuto prima di presentarci, perché la mamma chiede di conoscere ognuno di noi. 

Finalmente arriva Bite col marito e ci saluta uno a uno. Lei ci tiene a dire che è andato tutto bene e, davanti a noi, ringrazia il marito che le è stato vicino durante il parto. La cosa non è scontata ed è un segnale significativo della cultura che sta cambiando in Tanzania: anche gli uomini si assumono la responsabilità della paternità! 

Le sorelle di Bite servono una cena a base di riso e pollo: c’è tanta aria di festa! 

Terminata la cena arriva il papà con il piccolo Eliam: dalle coperte spunta un faccino delicato che dorme incurante dei complimenti che riempiono la stanza. Il papà mette in braccio a me, per primo, il piccolo: sono l’ospite d’onore e tocca a me il privilegio. Poi via via tutti i presenti.

Quando viene Bite ci alziamo tutti in piedi: prima si canta un canto festoso con i gridi di gioia come fanno in Tanzania; poi si prega il silenzio. A nome di tutti la madre superiora prende il bambino in braccio e ringrazia Dio per aver benedetto questa famiglia e augura al bambino ogni bene. Due colleghe, con parole semplici e commosse, esprimono il loro affetto e fanno gli auguri alla famiglia. 

Chiedono a me di dire qualcosa: Valentina traduce in swahili. Sono emozionato. Ringrazio di cuore per avermi fatto partecipe dell’esperienza intima della paternità e della maternità e dico con sincerità che ho imparato dalla cultura tanzaniana ciò che vorrò trasmettere alla nostra cultura occidentale: la nascita non è un evento privato vissuto dai soli genitori se non addirittura dalla sola mamma, ma uno spazio di festa e di consapevolezza della comunità tutta. La maternità (la paternità) e la generazione dei figli è il vero fondamento della cultura tanzaniana.

E’ significativo che, d’ora in poi, Bite cambierà il nome: non la chiameranno più Bite ma “Mama Eliam”, la mamma di Eliam.

A Dar Es Salaam un nuovo centro satellite per la riabilitazione

A Dar Es Salaam, la più grande metropoli della Tanzania, si allarga la rete delle collaborazioni attivate sul territorio dal centro di riabilitazione “A. Verna Kila Siku” che offre supporto medico-sanitario a centinaia di bambini e ragazzi: da alcune settimane, per venire incontro alle esigenze di altri bambini con disabilità, ha preso il via il rapporto con un nuovo centro satellite. Si tratta del centro “Ekklesia Special Needs Center”, situato nel quartiere di Kimara, che accoglie attualmente 21 bambini, sei dei quali presentano una forma di disabilità. Ed è rivolto proprio ad essi l’intervento del centro “A. Verna Kila Siku”, con una presa in carico a cadenza settimanale da parte di un terapista che, accompagnato da un volontario o da uno studente, si occupa del trattamento riabilitativo dei bambini (cinque hanno una diagnosi di autismo e uno soffre di paralisi cerebrale infantile). Le attività riguardano in primo luogo la fisioterapia, al fine di consentire ai bambini di migliorare le loro capacità motorie e di mantenere i risultati acquisiti nel tempo, ma non mancano né gli interventi di logopedia (per migliorare gli aspetti comunicativi) né la terapia occupazionale (con l’obiettivo di raggiungere l’autonomia nelle attività quotidiane).

La collaborazione con “Ekklesia Special Needs Center” è stata avviata nello scorso mese di aprile, subito dopo l’inaugurazione ufficiale del centro avvenuta il 30 marzo 2023. La struttura, fondata qualche mese prima (era il settembre 2022), nasce come asilo nido, scuola e centro diurno, dando ai bambini e alle bambine l’opportunità di interagire con i coetanei in un ambiente strutturato gestito da insegnanti attenti e preparati. Dopo la primissima fase di avvio, il centro ha aperto le porte anche a minori con disabilità avviando l’attività per “studenti speciali con disabilità multiple”, condotta da professionisti certificati con esperienza pregressa nell’educazione speciale. Le attività proposte nella struttura sono così volte a toccare tutti gli aspetti dell’educazione con specifiche attività in gruppo per lavorare sulle abilità sociali, in modo tale da includere appieno i bambini con disabilità. Viene fornita al tempo stesso anche un’assistenza diurna e i bambini, insieme ai loro genitori, possono essere ospitati nel centro presso degli appositi alloggi a loro destinati. 

Per il Centro di Riabilitazione “A.Verna Kila Siku”, che con la sua presenza fornisce da ormai cinque anni una riabilitazione medico-sanitaria a centinaia di bambini con disabilità, sia direttamente nella struttura centrale provvista di studi medici, palestra, uffici e aule per la formazione, sia tramite gli accordi di collaborazione stretti con altre strutture sul territorio, l’avvio del rapporto con “Ekklesia Special Needs Center” segna un ulteriore rafforzamento della presenza sul territorio per dare risposte concrete e qualificate. È un modo efficace per ampliare la rete e per raggiungere zone più distanti rispetto alla struttura centrale, garantendo a bambini e bambine l’effettivo diritto di ricevere le cure di cui hanno bisogno.

Con questa finalità il “Centro A. Verna Kila Siku” ha già attive collaborazioni con altre strutture del territorio: quella con il St Bernard Centre di Kibamba (una circoscrizione urbana nel distretto di Kinondoni) che permette da quasi due anni di affiancare i servizi riabilitativi a quelli di tipo educativo; quella con il Centro Baba Oreste ubicato nel quartiere di Bunju e gestito dalla Comunità di Papa Giovanni XXIII, che ha migliorato i servizi diurni offerti ai bambini con disabilità che vi abitano; quella con il Centro Salt, che si trova nel quartiere di Mbezi-Kimara, che ha permesso a questa casa famiglia, gestita dalla mamma di un bimbo con sindrome di Down, di offrire i servizi di riabilitazione ai propri ospiti. Nel quartiere di Goba invece, nel distretto di Kinondoni, continuiamo a collaborare con le autorità locali per individuare una struttura che possa diventare un centro satellite di A. Verna Kila Siku. In questa parte della città di Dar es Salaam, ci sono in assoluto più bambini che lo staff del “Centro A. Verna Kila Siku” raggiunge andando direttamente nelle loro case, unica al momento modalità possibile per questi bimbi, di ricevere assistenza e cure.

In quartieri periferici così popolosi, dove è alto il numero di bambini con disabilità e ancora presente il rischio che vengano discriminati e privati di ogni diritto, la presenza del centro “Antonia Verna – Kila Siku” rappresenta un’eccellenza che diventa motivo di speranza e di riscatto per molti. E, come abbiamo già sottolineato di recente, la nostra gioia è curarli per vederli tornare a sorridere.
Per aiutare il Centro “Antonia Verna – Kila Siku” è possibile fare una donazione (qui la pagina dedicata). Inoltre, al momento della presentazione della propria dichiarazione dei redditi, è possibile destinare il proprio 5×1000 a Comunità Solidali nel Mondo, indicando il codice fiscale 97483180580 nel riquadro dedicato al “sostegno al volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale” (qui tutti i dettagli).

Sanità e istruzione, voci dalla Tanzania

La lontananza dell’ospedale dalla propria abitazione, la difficoltà a reperire medicinali e a destreggiarsi con le assicurazioni sanitarie, la mancata conoscenza dei propri diritti, la complessità dell’inserimento dei bambini con disabilità nell’ambiente scolastico, le speranze e i timori dei genitori o dei parenti, preoccupati per il futuro dei loro piccoli. E’ uno spaccato ancora difficile, nonostante l’impegno messo in campo dal governo e dalle istituzioni locali, quello che emerge dall’ascolto dei cittadini della Tanzania che abbiamo incontrato nelle tre località in cui operiamo da tempo. Mamme e papà, zie e nonne, semplici famiglie ma anche operatori, giovani lavoratori oltre che alcuni professionisti impegnati nelle attività di riabilitazione: uno spaccato che in larga misura manifesta confusione riguardo alle domande che abbiamo posto (incentrate soprattutto sugli aspetti sanitari e scolastici) e che denota una sostanziale non conoscenza dei propri diritti: molti ignorano di poter usufruire di servizi sanitari gratuiti e alcuni addirittura non sanno se possiedono o meno un’assicurazione medica. E’ un quadro che, pur tenendo conto dei progressi fatti negli ultimi anni, conferma la necessità di impegnarsi a fondo per giungere ad una vera e larga presa di coscienza dei diritti dei cittadini con disabilità: quello che, del resto, è proprio l’obiettivo del progetto che vedrà impegnati in Tanzania 4 volontari e volontarie inserite nel Corpi Civili di Pace. Il bando, cui possono candidarsi ragazzi e ragazze di età compresa fra i 18 e i 28 anni, scadrà alle ore 14:00 del prossimo 30 giugno 2023 (qui trovi i dettagli).

Nelle scorse settimane abbiamo chiesto a una cinquantina di persone di dedicarci qualche minuto del loro tempo per rispondere ad alcune domande: volevamo capire come viene percepita la situazione dei diritti delle persone con disabilità in Tanzania e quali ambiti di azione sembrano prioritari rispetto ad altri. Abbiamo ascoltato soprattutto genitori o parenti di bambini con disabilità che sono entrati in contatto con i centri di riabilitazione, ma abbiamo parlato anche con alcuni singoli pazienti e con una serie di lavoratori (fisioterapisti, tirocinanti, autisti, insegnanti). Dei 50 interlocutori che abbiamo incontrato, 31 vivono a Dar Es Salaam, una dozzina a Mbeya e i restanti 7 a Wanging’ombe. Esperienze ovviamente variegate e punti di vista personali anche differenti, ma con un denominatore comune: c’è ancora assai da lavorare per la coscientizzazione dei diritti delle persone con disabilità in Tanzania.

Alcuni esempi concreti. Se la gran parte dei genitori dei piccoli bambini con disabilità fra i 2 e i 6 anni che abbiamo incontrato ha dichiarato di essere a conoscenza del diritto a ricevere un trattamento sanitario, solo la metà ci dice di avere o di potersi permettere un’assicurazione sanitaria e pochissimi dichiarano di trovare facilmente le medicine di cui il loro bambino ha bisogno. E’ buona la soddisfazione verso i centri di riabilitazione frequentati dai piccoli e l’auspicio di queste donne e di questi uomini è in larga parte comune: vedere il proprio figlio imparare a camminare e avere lo stesso sviluppo di tutti gli altri bimbi della loro età. 

C’è chi riporta l’alto costo delle cure ospedaliere, c’è chi sottolinea il rischio assai diffuso che le famiglie si rivolgano agli stregoni più che ai medici e ai sanitari e c’è chi racconta di aver messo in stand-by l’idea di dotarsi di un’assicurazione sanitaria nella speranza che il governo riveda verso il basso i costi sanitari. Sul versante scolastico c’è chi riporta un’esperienza positiva con insegnanti stimolanti e preparati e chi lamenta invece una scarsa inclusione del proprio figlio con disabilità, con il caso limite di chi a mandare il proprio figlio a scuola ha rinunciato, a causa sia della distanza elevata da casa sia dell’incapacità della scuola di gestire un bambino disabile che, per fare un esempio, non sa andare al bagno da solo. 

“Se le ONG – sottolinea il nostro presidente Michelangelo Chiurchiù – vogliono dare continuità ai servizi e alle attività promosse, credo debbano intensificare l’azione di coscientizzazione dei cittadini a cui questi servizi sono rivolti. Un’educazione conformativa e non attiva, come pure le difficoltà a superare una tradizione autoritaria, orientano i genitori dei bambini con disabilità e gli stessi operatori ad aspettare che siano le autorità e le istituzioni a decidere per loro! In questo contesto – puntualizza – non è facile andare controcorrente e accompagnare i cittadini tanzaniani ad essere consapevoli dei propri diritti in coerenza con quanto è scritto nella loro bellissima Costituzione e nelle loro leggi, ma si sa… la democrazia è un cammino in salita!”.

Diritti delle persone con disabilità, un cammino da continuare

Negli ultimi anni molte luci si sono accese sulla condizione delle persone con disabilità in Tanzania, ma la sensibilizzazione – che ha finora riguardato soprattutto le città e le località in cui maggiore è stata l’azione delle organizzazioni civili – è ancora lontana dal raggiungere tanti villaggi nei quali non si conoscono ancora oggi le opportunità di cura e di sostegno. E’ quanto mai importante allora proseguire quel prezioso lavoro di informazione e di coscientizzazione dei diritti che ormai in Tanzania ha anche un suo cardine normativo: il Disability Act.

Don Tarcisio Moreschi, prete fidei donum della Diocesi di Brescia, è nel Paese da oltre 30 anni: a lui si deve la richiesta di intervenire per rispondere ai bisogni delle persone con disabilità. “Tu hai l’esperienza di una vita con Capodarco” – disse senza mezzi termini al nostro presidente Michelangelo Chiurchiù nel 2002 quando si sono conosciuti nel corso della prima missione in Tanzania; “Mettila a disposizione della nostra gente perché qui non c’è niente! E la Comunità cristiana ha il dovere di dare una risposta a quelli che sono gli ultimi degli ultimi!”. Qualche giorno dopo, la visita ai villaggi della parrocchia di Wanging’ombe insieme al capovillaggio, ci diede la tragica conferma della drammatica situazione vissuta dai bambini con disabilità e le loro famiglie: bambine e bambini nascosti e senza diritti!

Comunità Solidali nel Mondo – ComSol –  nasce nel 2007 per dare una risposta articolata e organizzata a questi bisogni. Grazie all’aiuto di donatori pubblici e tante amiche e amici che hanno aderito all’appello di solidarietà, ComSol ha promosso 3 Centri in Tanzania: il primo, INUKA, a Wanging’ombe quel primo villaggio visitato; poi a Mbeya e da ultimo a Dar Es Salaam.

“Negli ultimi decenni – ha raccontato a Elisa Pedrazzi, Marta D’Ascanio, Sonia Blandizzi e  Maria Teresa Vicari, il nostro gruppo di civiliste impegnate nel servizio civile universale nel villaggio di Wanging’ombe – ho visto un notevole cambiamento da parte delle famiglie e della società: la nostra azione di sensibilizzazione ha fatto sì che raramente oggi le persone disabili vengano nascoste in casa, come qui avveniva un tempo e come ancora avviene altrove. La gente ora sa che possono essere curate e che c’è la possibilità che vadano a scuola”.

Ma sono conoscenze che vanno ancora diffuse: “Nelle città – spiega don Tarcisio – la consapevolezza è maggiore, ma in moltissimi villaggi c’è ancora la convinzione che non ci sia alcuna possibilità di terapia: le persone disabili sono rinchiuse in casa o al più restano nel cortile delle abitazioni, senza andare mai in nessun luogo, senza occasioni di incontro, relazione, socialità. Un bambino con una malformazione ha la vita segnata. Il modo migliore per diffondere la conoscenza è recarsi nei villaggi, uno ad uno, e lì accordarsi con l’autorità, radunare la gente, parlare alla comunità e al tempo stesso farsi indicare dove sono i disabili, andare da loro e iniziare da lì un percorso”.

C’è anche, dove non è arrivata una formazione adeguata, un problema di percezione comune: “La disabilità, e più in generale qualsiasi fattore che procuri un disagio, è vista in modo molto negativo: secondo la mentalità del posto è il frutto o di qualche peccato o di qualche maleficio, e in ogni caso non è qualcosa di curabile ma qualcosa di cui vergognarsi”. “Il concetto di ‘inclusività’ – precisa il sacerdote – è ancora molto lontano dall’essere percepito e compreso a livello generale, come pure molto lunga è ancora la strada che possa portare le persone con disabilità a poter rivendicare in prima persona i loro diritti”.

Certamente il tempo e l’azione compiuta anche da Comunità Solidali nel Mondo ha portato negli anni a risultati fondamentali, con una sensibilizzazione che a livello istituzionale si traduce in un’attenzione maggiore che in passato verso le persone con disabilità: “La possibilità per loro di frequentare la scuola – dice don Tarcisio – è uno di questi risultati ma, per fare due esempi, le persone disabili non possono contare su cure sanitarie gratuite e le loro famiglie non ricevono supporti economici di alcun tipo. Molto dunque deve ancora essere fatto”.

A proposito di promozione della consapevolezza collettiva dei diritti umani e civili delle persone con disabilità in Tanzania ricordiamo che proprio questo è l’ambito di azione del progetto sulla “coscientizzazione ai diritti negati delle persone con disabilità in Tanzania”, che vedrà impegnati a Dar es Salaam 4 volontari nell’ambito del terzo biennio di sperimentazione (2023/24) dei Corpi Civili di Pace. E’ possibile candidarsi entro il 30 giugno 2023.

I primi passi di Danieli e l’importanza del tuo aiuto

Tre anni fa, quando è arrivato per la prima volta al centro di Iyunga, pronunciava appena qualche parola, aveva uno scarso equilibrio da seduto ed era completamente incapace di stare in piedi da solo e di gattonare correttamente. Oggi Danieli va a scuola, sorride spesso, cammina con l’aiuto di un bastone e ha iniziato a fare qualche passo anche senza. La sua vita è diversa, è migliore.

Quando ci viene chiesta ragione del perché organizzare impegnative e faticose visite domiciliari da parte degli operatori dei centri di riabilitazione ai bambini con disabilità e alle loro famiglie che per le più svariate ragioni non possono frequentare le strutture riabilitative, la risposta è molto semplice: lo si fa perché i bambini come Danieli senza quelle visite non potrebbero ricevere cura e assistenza. E non avrebbero l’opportunità di vivere meglio. Ecco allora perché è importante sostenere le visite domiciliari attuate dal personale dei centri Simama di Mbeya e del centro A. Verna Kila Siku di Dar es Salaam: perché servono, perché sono indispensabili, perché cambiano la vita.

Danieli Furaha oggi ha 7 anni e mezzo. Vive da solo con la mamma. Il padre, come spesso avviene in Tanzania per casi simili, ha rifiutato di crescere un bambino con disabilità e ha abbandonato la famiglia. La mamma, che oggi ha poco più di 30 anni, ne aveva 23 quando ha partorito. Vivono nel quartiere di Isanga, dal quale il Centro Socio riabilitativo di Iyunga (parte del Progetto Simama) dista 1 ora e 40 minuti di percorso a piedi. Un tempo che con l’uso dei mezzi pubblici di trasporto si ridurrebbe a 40 minuti ma che comunque la mamma di Danieli non può permettersi per almeno un paio di ragioni: la prima è economica (il biglietto di andata e ritorno costa troppo), la seconda è logistica (nel corso della giornata vende frutta e verdura vicino casa, nel negozio di una sua conoscente, nella quantità sufficiente a garantire il cibo giornaliero per sé e per il suo bambino). Inoltre Danieli frequenta la scuola e le visite frequenti al Centro Iyunga impatterebbero sulla sua continuità scolastica.

Questi sono i motivi per cui Danieli è uno dei bambini per i quali vengono organizzate le visite domiciliari. Il piano di riabilitazione individuale pensato per lui al momento del suo primo incontro con il Centro Simama prevedeva azioni mirate nelle aree relative alle funzioni sensoriali e motorie, agli aspetti comunicativi e cognitivi, agli aspetti relazionali e comportamentali, alla cura di sé, all’autonomia sociale, oltre che all’uso di dispositivi sanitari e di supporto. Le attività mirate puntavano anzitutto a renderlo capace di ridurre la tensione, per poi riuscire a utilizzare bene le mani per le attività quotidiane, ad alzarsi in modo corretto, a pronunciare bene le parole e ad identificare i colori.

Le visite nelle abitazioni dei pazienti sono compiute da una delle due operatrici del Centro che, di volta in volta, si alternano: a turno, insieme alle operatrici, frequentano la casa di Danieli anche il fisioterapista, il terapista occupazionale, la psicologa e l’assistente sociale, oltre ai volontari e alle volontarie italiane che vivono l’esperienza del Servizio Civile Universale. La relazione che nel corso del tempo si è creata tra la mamma e lo staff di Simama è molto bella: la donna accoglie lo staff sempre con grande gioia, e oltre agli esercizi per il bambino si trova sempre il tempo di parlare dei problemi che la mamma affronta ogni giorno.

I miglioramenti di Danieli sono evidenti. “Ultimamente – raccontano i nostri volontari – gli abbiamo visto fare grandi progressi: lui solitamente camminava intorno al tavolino di casa sorreggendosi con due mani. In occasione della penultima visita lo abbiamo trovato che era in grado di camminare con il supporto di un bastone, ma senza tenersi al tavolino. E l’ultima volta, invece, è riuscito a fare due passi anche senza il supporto del bastone. E’ stata una bellissima sorpresa”.

Sono tanti, in Tanzania, i bambini e le bambine con disabilità che vivono segregati in casa, privati di ogni diritto, inclusa l’assistenza medico-sanitaria. Gli staff dei centri Simama (nella città di Mbeya) e del Centro A. Verna Kila Siku (nella città di Dar es Salaam) effettuano visite domiciliari programmate alle famiglie che non riescono a raggiungere le strutture sanitarie. Ogni bimbo, nell’arco dell’anno, riceve in media fra le 24 e le 30 visite domiciliari. Per i nostri Centri ogni visita domiciliare può costare tra gli 8.000 e i 12.000 scellini tanzaniani (dai 4€ ai 6€ circa), un costo che varia in funzione della lontananza della casa del bimbo. Ogni donazione ci consente di raggiungere più bambini: con una donazione di 5 euro al mese puoi garantire in un anno circa 16 visite domiciliari, con una donazione di 25 euro al mese puoi garantire le visite domiciliari per un anno a due bimbi con disabilità. Puoi farlo in modo semplice anche attraverso la piattaforma Wishraiser.

Corpi Civili di Pace, al via le selezioni: partecipa con noi

Pubblicato il bando, c’è spazio per 4 volontari impegnati per un anno per le persone con disabilità in Tanzania 

Candidati entro il 30 giugno!

ROMA – Il Bando dei Corpi Civili di Pace è ufficialmente aperto e c’è tempo fino al 30 giugno 2023 per inviare la propria candidatura. Il Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale ha pubblicato sul proprio sito web il bando per la selezione di 153 volontari da impiegare nei progetti per i Corpi Civili di Pace in Italia e all’estero: si tratta della terza fase della sperimentazione prevista dalla legge 147/2013. Fra i progetti disponibili, anche quello curato da Comunità Solidali nel Mondo per la coscientizzazione ai diritti negati delle persone con disabilità in Tanzania, che vedrà impiegati 4 volontari a Dar es Salaam, la principale città del paese. Ciascun giovane può presentare una sola domanda di partecipazione al bando e per un solo progetto. Per candidarti accedi al sito del dipartimento tramite Spid: prima di farlo chiamaci al numero 06.0190.5858 oppure contattaci attraverso il modulo della pagina dedicata ai Corpi Civili di Pace. La scadenza per la presentazione delle domanda è fissata per le ore 14:00 del 30 giugno 2023. L’opportunità, indirizzata a tutti i ragazzi e le ragazze tra i 18 e i 28 anni, coinvolgerà i volontari per la durata di 12 mesi. E’ previsto un periodo di formazione prima di partire per la Tanzania e poi un costante supporto e accompagnamento sul campo. 

Entrare a far parte dei Corpi Civili di Pace (CCP) è un’esperienza unica, che ti permette di impegnarti concretamente in un progetto ma che ti rende parte di una più ampia comunità costituita dai giovani volontari e volontarie impegnate in azioni civili, non armate e non violente: un’attività che mira a sostenere le popolazioni locali nella prevenzione dei conflitti, promuovendo una pace che non sia solo assenza di violenza ma anche affermazione positiva dei diritti umani e del benessere sociale.

Il nostro progetto per le persone con disabilità in Tanzania

In Tanzania le persone con disabilità sono costantemente escluse dalla vita sociale, culturale, economica e politica del Paese, e sono soggette a forme continue di discriminazione e violenza. Di fatto, sono svantaggiate, emarginate e relegate a rappresentare un vero e proprio “fardello” per le loro famiglie, sulle quali viene interamente scaricato il peso della loro cura. Il diritto alla salute, allo studio, al lavoro, all’inclusione sociale e comunitaria di queste persone è nel concreto negato, con una evidente violazione del loro diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione.

L’azione dei Corpi Civili di Pace dovrà perseguire l’obiettivo di promuovere la consapevolezza collettiva dei diritti umani e civili delle persone con disabilità, favorendo il rispetto e la loro piena integrazione nel sistema sociale tanzaniano. Il progetto che i 4 volontari saranno chiamati a realizzare servirà dunque, attraverso azioni di monitoraggio, diffusione delle informazioni e sensibilizzazione comunitaria, a supportare la popolazione con disabilità, cambiando nel concreto la percezione sociale verso di essa e orientando al meglio anche le decisioni politiche che la riguardano.

Il lavoro durerà un anno e si svilupperà naturalmente per fasi successive: il primo passo ci permetterà di fotografare la situazione esistente nei distretti periferici di Dar es Salaam e di comprendere l’attuale livello di consapevolezza, entrando in contatto con le persone. Il secondo passaggio sarà quello di supportare la creazione di gruppi comunitari con la predisposizione di spazi e di incontri dedicati al tema dei diritti, con un’attività di comunicazione anche on line. Sarà poi il momento di promuovere più direttamente un’azione di sensibilizzazione sulle istituzioni locali, condividendo le informazioni ricavate (il monitoraggio diventerà un vero e proprio Dossier sulla condizione delle persone disabili in Tanzania) e di intraprendere una decisa azione di sensibilizzazione comunitaria con incontri, coinvolgimento dei mass media, ingaggio di testimonial locali, coinvolgimento dei leader religiosi e politici, per allargare il più possibile la consapevolezza comune del rispetto dei diritti. E’ un compito non semplice, ma affascinante ed estremamente concreto, perché si tratta di lavorare per un miglioramento evidente della vita di tantissime persone.

Puntiamo ad aiutare 1.000 bambini e ragazzi, e con essi anche le loro madri e i loro nonni, ampliando il raggio d’azione anche ad altre famiglie fino a includere 2.500 donne con carichi familiari pesantissimi e 3.100 anziani molto fragili, che in larga misura non riescono a badare a se stessi e alla propria salute e spesso soffrono di malnutrizione insieme ai propri nipoti. Consulta qui la scheda di progetto per avere maggiori dettagli.

I Corpi Civili di Pace e il Dipartimento per le Politiche giovanili 

Ti ricordiamo che I progetti hanno una durata di dodici mesi, con un orario di servizio non inferiore a 30 ore settimanali o a 1400 ore annue, e che ciascun volontario selezionato dovrà sottoscrivere con il Dipartimento per le politiche giovanili e il servizio civile universale un contratto che prevede un assegno mensile di € 444,30 per lo svolgimento del servizio, al quale viene aggiunta un’indennità estera giornaliera. Per i volontari è prevista inoltre un’assicurazione relativa ai rischi connessi allo svolgimento del servizio stipulata dal Dipartimento. Per tutte le informazioni di dettaglio puoi leggere la nostra pagina dedicata ai Corpi Civili di Pace e contattarci. Ti aspettiamo!

L’ostello di Wanging’ombe: una casa che include e avvicina

di Sonia Blandizzi e Marta D’Ascanio

WANGING’OMBE (TANZANIA) – E’ uno spazio di condivisione e di inclusività, in cui lo spaesamento e lo sconforto iniziale possono trasformarsi, nel breve volgere di una settimana, in una viva consapevolezza e in una nuova speranza. E’ un luogo dal quale è possibile osservare da vicino l’avvio di un percorso destinato nel tempo a cambiare in meglio la vita dei bambini con disabilità che abitano questa regione della Tanzania e che arrivano in cura al Centro di riabilitazione “Inuka”. L’ospedale offre la terapia e il supporto sanitario necessario, l’ostello offre quelle mura e quell’accoglienza senza le quali tutto ciò non sarebbe possibile. Oggi vi parliamo di questo. Seguiteci nel nostro racconto.

Cura e riabilitazione: il Centro Inuka per bambini e caregiver

A Wanging’ombe, un piccolo villaggio nella regione di Njombe, nel centro della Tanzania, si trova Inuka Southern Highland Rehabilitation Hospital. Questo ospedale è diventato nel corso del tempo un vero e proprio punto di riferimento per famiglie e bambini con disabilità provenienti da ogni angolo della Tanzania. Qui l’approccio utilizzato è quello della CBR (Community Based Rehabititation), strategia che si avvale della collaborazione di familiari, amici, operatori e dell’intera comunità con l’obiettivo di emancipare la persona con disabilità e accrescerne l’autonomia personale. Ciò è possibile attraverso un trasferimento di conoscenze e competenze riabilitative da parte dei terapisti alla comunità e alle persone che si prendono cura quotidianamente del bambino. A Inuka tutto ciò avviene durante la WIT (Week Intensive Treatment), ovvero una settimana di trattamento intensivo, caratterizzato da un approccio globale al paziente il quale può usufruire di più servizi (fisioterapia, counseling, logopedia, terapia occupazionale, consulenza nutrizionale). Durante questi giorni il caregiver ha modo di apprendere le strategie per continuare anche a casa la terapia necessaria al bambino e la sua corretta gestione nel quotidiano.

Tutto ciò non potrebbe avvenire se il bambino, accompagnato dal caregiver, non avesse la possibilità di soggiornare all’interno del centro per il tempo necessario allo svolgimento di tutte le cure. L’ostello di Inuka risponde proprio a questo bisogno.

Una casa per i pazienti: l’ostello Inuka accoglie adulti e bambini

Dalla sua apertura, avvenuta nel 2011, l’ostello ha accolto innumerevoli famiglie. L’esigenza di ospitare anche adulti per la riabilitazione settimanale ha portato nel 2019 all’apertura di un’ulteriore struttura a loro adibita. Quindi ad oggi l’ostello può offrire ospitalità ad un totale di 32 bambini accompagnati e 14 pazienti adulti. L’ostello può accogliere bambini destinatari della WIT, bambini con piede torto congenito che devono effettuare il trattamento nell’apposita clinica presente a Inuka, bambini in attesa del completamento degli ausili realizzati nella falegnameria del centro e pazienti adulti. Gli utenti possono soggiornare per un periodo variabile in base alle loro necessità. Per lo più la struttura ospita bambini che devono effettuare la WIT, della durata di una o due settimane, con possibilità di prolungamento in caso di necessità.

L’ostello dei bambini dispone di un totale di dodici stanze, due delle quali sono singole con bagno all’interno e dieci comuni in grado di ospitare tre bambini ciascuna. Nell’ostello possono essere accolti sia mamme con bambini che papà, i quali alloggiano nelle stanze singole. È inoltre presente una cucina esterna in comune e una grande sala da pranzo.

La gestione amministrativa ed economica dell’ostello avviene secondo precise modalità.  I bambini arrivano anche senza prenotazione a Inuka e, dopo aver effettuato la prima visita, fisioterapisti e terapisti occupazionali orientano la famiglia sulla necessità di un’eventuale permanenza nella struttura per dare inizio alla WIT.

Al termine della settimana di trattamento intensivo viene proposta alla famiglia una data di ritorno al centro per il follow up che generalmente è dopo 3 o 6 mesi, in base all’età e ai bisogni del singolo bambino. In prossimità del loro ritorno la segreteria di Inuka si occupa di contattare le famiglie per avere conferma del loro arrivo.

Una suora gestisce la quotidianità dell’ostello, verificando che le mamme e i loro bambini siano sempre forniti di tutto l’occorrente necessario per la loro permanenza (acqua, luce, coperte, cibo,..). La pulizia degli spazi dell’ostello è affidata a tre operatori, i quali si occupano anche della preparazione della colazione e del pranzo.

Un’accoglienza accessibile a tutti: quanto costa l’ostello Inuka

Per i numerosi servizi offerti è richiesta alle famiglie una quota di soggiorno (accessibile anche alla popolazione con possibilità economiche medio-basse) equivalente a 40.000 tzh (circa 15€) per settimana, comprensivi di colazione per i bambini e pranzo per bambini e caregiver.  Nel caso in cui l’utente abbia l’assicurazione medica il pagamento include solo i pasti (20.000 tzh per settimana – circa 7€). Se il bambino è accompagnato da un’ulteriore figura, quest’ultima paga 7.000 tzh (circa 3€) al giorno per il pranzo e l’alloggio. Inoltre Inuka dispone di un fondo di donazioni al quale attinge per supportare le cure e il soggiorno degli utenti che non hanno possibilità economiche. La tassa di soggiorno dell’ostello serve a sostenere le spese dello stesso ed è gestita dal dipartimento finanziario di Inuka.

Ogni settimana venti bambini: chi sono gli ospiti dell’ostello Inuka

Ad oggi gli utenti sono famiglie provenienti da villaggi limitrofi delle regioni di Njombe, Mbeya e non solo. Infatti grazie alla possibilità di soggiornare all’interno del centro anche le famiglie provenienti da regioni molto distanti dall’ospedale sono incentivate a raggiungere Inuka. Inoltre l’ospedale è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, collocandosi a pochi passi da una delle principali vie di collegamento della Tanzania.

Le famiglie vengono a conoscenza della presenza di Inuka e dei suoi servizi spesso attraverso passaparola. Talvolta l’ospedale viene sponsorizzato anche attraverso servizi di comunicazione come la radio o la televisione e, in passato, sono state svolte delle campagne di informazione nelle chiese dei villaggi limitrofi.

Ad oggi in media l’ostello accoglie circa venti bambini a settimana. Il numero degli utenti varia in base a una serie di fattori non sempre controllabili, come ad esempio il lavoro nei campi delle famiglie o il maltempo.

Abitare nell’ostello: ecco una giornata – tipo

La vita nell’ostello si svolge con ritmi ben scanditi ogni giorno. Dalle 8.30 alle 10.00 è prevista una prima sessione di riabilitazione durante la quale le mamme, affiancate dalle operatrici, imparano la corretta esecuzione degli esercizi terapeutici necessari ai propri bambini. Dalle 10.00 alle 11.00 mamme e bambini tornano nell’ostello, dove viene loro servita la colazione che consiste nell’uji, una specie di porridge a base di farina di mais, acqua, latte e zucchero, nella cultura tanzaniana ritenuto particolarmente adatto a neonati e bambini. Alle 11.00 inizia una seconda sessione di riabilitazione fino alle 12.30, ora del pranzo. Successivamente dalle 13.30 alle 14.30 le mamme partecipano a degli incontri formativi tenuti dai terapisti di Inuka, riguardanti la corretta gestione e cura del bambino. Dalle 14.30 alle 15.00 mamme e bambini si ritrovano con le operatrici per un momento di condivisione in cui si canta e si balla tutti insieme a chiusura della giornata riabilitativa. Da questo momento in poi le mamme possono tornare nell’ostello, dove riposano, si occupano del bambino e hanno la possibilità di raggiungere facilmente a piedi il villaggio ed eventualmente acquistare il necessario per la cena. Nel tardo pomeriggio si riuniscono nella cucina dell’ostello per cucinare e trascorrere momenti insieme in un clima sereno e di condivisione.

Una dimora umile ma accogliente: le recensioni dell’ostello Inuka

Per rendere il servizio il più efficiente possibile, al termine della permanenza a Inuka viene chiesto alle mamme un feedback circa il loro soggiorno. Talvolta dai commenti emergono alcune criticità sull’ostello che riguardano principalmente la sporadica assenza di acqua e corrente elettrica. Alcune mamme hanno riferito la necessità di migliorare il servizio offerto sostituendo i materassi presenti nelle camere. Secondo il personale locale la ridotta presenza di figure addette esclusivamente alla gestione quotidiana e pulizia dell’ostello rappresenta un punto di debolezza ulteriore e da potenziare.

Nonostante queste piccole criticità tutti gli ospiti di Inuka sono entusiasti della loro permanenza. Infatti la presenza dell’ostello e la ridotta tassa richiesta per soggiornarvi, rende i servizi offerti da Inuka molto inclusivi, in grado di abbattere distanze e difficoltà economiche. La struttura cerca inoltre di essere priva di barriere architettoniche: la presenza di scivoli per le sedie a rotelle, di ausili nei bagni e nella sala da pranzo rende gli spazi accessibili a molti utenti. 

La formazione alla riabilitazione e il senso di comunità

La possibilità di vivere la quotidianità all’interno del centro, grazie alla presenza dell’ostello rappresenta un ulteriore punto di forza. Infatti durante la loro permanenza i caregiver apprendono strategie utili alla gestione quotidiana dei bambini: come rispondere ai loro bisogni, la corretta alimentazione e modalità per renderli autonomi. Ciò che più colpisce è il senso di comunità che si crea tra le mamme all’interno dell’ostello. È consueto vederle portare in spalla nei colorati kitenge (stoffe tradizionali) qualsiasi bambino, come se fosse il proprio. Si aiutano tra di loro, nel fare la spesa, cucinare e in generale gestire la vita quotidiana. Il tutto mentre i bambini più grandi giocano e condividono momenti insieme nel grande spazio antistante l’ostello in un clima sereno, di accettazione e reciprocità. Questa modalità riabilitativa è ben accolta dalle famiglie che frequentano il centro, infatti chiedendo alle mamme cosa ne pensano in molte riferiscono di esserne felici in quanto vedono dei risultati importanti nello sviluppo dei loro bambini.

È impossibile non notare i sorrisi sinceri presenti sui volti delle mamme al termine della settimana di riabilitazione o già dopo pochi giorni di permanenza. La timidezza e lo sconforto iniziale, grazie anche alla possibilità di condividere dubbi, difficoltà, storie, momenti di svago, canti e balli con altre mamme nella loro stessa condizione, sembra svanire e lasciare spazio ad una maggiore consapevolezza e speranza.

Gioia è curarli per vederli sorridere!

Nella fatica e nelle difficoltà quotidiane che, nonostante tutte le accortezze, si incontrano ogni giorno quando si fa cooperazione allo sviluppo, vedere sorridere le persone, soprattutto i bambini, è qualcosa che non ha prezzo. E’ un obiettivo che viene raggiunto e al tempo stesso è il motore che permette di affrontare con energia e determinazione ogni nuova sfida giornaliera. Perché non c’è davvero nulla di così semplice e di così potente come un sorriso.

E proprio un sorriso, quello di una mamma e quello del suo bambino, diventa da oggi l’immagine con la quale promuoviamo il 5×1000 per Comunità Solidali nel Mondo: un modo facile per sostenere le nostre attività in Africa e contribuire alla realizzazione dei tanti progetti in corso. Progetti che parlano il linguaggio dell’attenzione, della presa in carico, della cura, e che portano fiducia e speranza per il futuro. 

L’immagine è accompagnata da una nostra certezza, provata mille volte sul campo: “Gioia è curarli per vederli sorridere”. Fornire supporto, sostegno e cura ai bambini e alle bambine, ai loro genitori, a tutti gli uomini e a tutte le donne della comunità, produce tante conseguenze concrete, una delle quali, difficile forse da misurare ma estremamente reale, è la gioia. Quella gioia che ci dà il coraggio di sperare, sognare, progettare, costruire sulla carta e poi realizzare i progetti che – anche con il tuo contributo – possiamo continuare a rendere concreti.

La condizione di tanti bambini con disabilità in Tanzania può migliorare grazie a te e a quanti scelgono di sostenerci. Insieme alle loro madri, ai loro padri e alla comunità tutta, sapremo fornire loro un valido sostegno, professionalmente valido e culturalmente orientato. La formazione del personale locale ci permette di puntare su una progressiva emancipazione e di allargare a dismisura la platea di bambini e famiglie che trarranno vantaggio dalla nostra opera. I protocolli adottati, la loro condivisione, la collaborazione con il governo e le istituzioni locali, ci permettono di incidere in profondità e di migliorare sensibilmente la vita quotidiana delle persone più deboli. Ci consentono di moltiplicare gli aiuti, partendo dal tuo aiuto.

Lavoriamo nel paese per una corretta gestione dell’epilessia, che in Tanzania risulta spesso non adeguata a causa della mancanza di una formazione medica specialistica nonché di falsi miti e superstizioni sulla sua origine. Ci concentriamo sul contrasto alla malnutrizione, sul sostegno alla disabilità, sulla promozione del ruolo della donna, anche favorendo iniziative imprenditoriali sui mercati locali, Le azioni sono tante – queste sono solo alcune – e tu puoi contribuire alla loro realizzazione.

Sostienici destinando il tuo 5×1000 a Comunità Solidali nel Mondo. E’ un gesto semplice, che a te non costa nulla ma che è ugualmente capace di fare la differenza. E a chi ti chiede un consiglio o un suggerimento, parla di noi e dei nostri progetti. Ricorda: quando presenterai la tua Dichiarazione dei Redditi (modello 730 o modello Unico) ti basterà firmare nel riquadro “Sostegno del volontariato” e indicare il CODICE FISCALE di Comunità Solidali nel Mondo: 97483180580. Non serve fare altro. Tutto estremamente semplice. Come un sorriso.

5×1000

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Estate in Africa, arriva il campo di volontariato

Se coltivi da tempo il desiderio di vivere una bella esperienza di vita in Africa, quel momento potrebbe essere arrivato. Hai la disponibilità di un paio di settimane libere durante la prossima estate e la voglia di metterti in gioco? Il campo di volontariato estivo di Comunità Solidali nel Mondo potrebbe fare al caso tuo! Non serve rivoluzionare la propria esistenza o cambiare tutta la propria vita: basta scegliere di vivere in un modo diverso le tue vacanze e il periodo di tempo lontano dallo studio o dal lavoro ti permetterà di tuffarti in un’esperienza che ti resterà per sempre dentro l’animo. Le date fondamentali da ricordare sono queste: il campo estivo, aperto a tutte le età, si svolgerà in Tanzania dal 1 al 15 agosto 2023. Se pensi che l’opportunità possa fare al caso tuo, CONTATTACI SUBITO: la richiesta non vincola alla partecipazione ma ci permette di conoscerci subito, di sciogliere eventuali dubbi e di organizzare al meglio gli aspetti logistici.

Comunità Solidali nel Mondo cura da tempo progetti di cooperazione allo sviluppo in Tanzania, nella parte centro-orientale del continente. E’ impegnata stabilmente nella realizzazione e nella messa a regime di numerosi centri di riabilitazione per bambini e per adulti con disabilità; ha attivo un programma per la creazione di un protocollo per la gestione dell’epilessia in tutto il Paese; agisce con azioni di lotta alla malnutrizione e di sostegno alle donne tramite iniziative di auto imprenditorialità. Una ricchezza di interventi tutti attuati con la valorizzazione e il protagonismo delle comunità locali.

Ed è proprio la comunità locale, insieme ai nostri referenti, che accoglierà i partecipanti al campo di volontariato in Tanzania previsto in agosto: il luogo scelto è la città di Mbeya, nell’ovest del paese, a 850 Km dalla principale località del paese, Dar es Salaam. A Mbeya è attivo da dieci anni il programma Simama (significa “In piedi”) che supporta bambini con disabilità e famiglie attraverso la riabilitazione motoria e cognitiva. In questo momento i progetti attivi sono ben quattro, e variano dalla sensibilizzazione sulla cura dell’epilessia al contrasto alla malnutrizione, dalla produzione e commercializzazione di prodotti artigianali locali fino alla formazione professionale, passando per l’attività cruciale del Centro di Riabilitazione “Simama CBR”.

Nei primi 15 giorni di agosto 2023 il gruppo di volontari sarà accolto a Mbeya e potrà vivere in pieno l’atmosfera africana, impegnandosi concretamente in alcune delle varie attività presenti: certamente l’animazione ai tanti bambini che frequentano direttamente i centri di riabilitazione, ma anche le visite domiciliari che vengono effettuate presso le famiglie di altri bambini. Più in generale, rispetto alla popolazione locale, non mancheranno incontri e scambi con associazioni locali e con rappresentanti delle istituzioni, perché la nostra azione è sempre orientata al creare relazioni. Ad accompagnare il gruppo di volontari in questa avventura ci saranno i responsabili di ComSol a Mbeya insieme al gruppo di quattro ragazzi e ragazze impegnati per un intero anno con il Servizio civile universale.

Qualche altra  informazione logistica. Le date del campo di volontariato sono fisse: si parte da Roma il 1° agosto e si ritorna il 15 agosto. Il viaggio aereo, andata e ritorno per Dar Es Salaam, è a carico dei singoli partecipanti, come pure la necessaria assicurazione medica e il visto di ingresso nel paese (quest’ultimo ha un costo orientativo di 50 dollari). Per gli spostamenti interni al paese e per la permanenza a Mbeya è richiesto un contributo di 450 euro, comprensivi di alloggio e vitto.

Se sei interessato dunque lasciaci i tuoi dati tramite QUESTO MODULO. Ti contatteremo e risponderemo a tutte le tue eventuali domande. Se confermerai il tuo interesse, sarai invitato a partecipare ad un incontro conoscitivo e selettivo online durante il mese di giugno.

Noi ti aspettiamo. E la Tanzania aspetta te!

Artigianato solidale, quanta vita dietro un solo oggetto!

Dalla Tanzania all’Italia, il viaggio degli oggetti di artigianato è anche il viaggio delle speranze, delle aspirazioni e delle fatiche delle donne tanzaniane che lavorano per se stesse, per i propri figli e per la propria comunità. Dietro le borse, gli zaini, i grembiuli, i beauty case, i portamonete, gli elastici e tutti gli altri oggetti  che compongono la vetrina che idealmente espone tutto ciò che viene creato a Mbeya e a Dar es Salaam, non ci sono solamente dei semplici tessuti cuciti e assemblati per essere funzionali, funzionanti ed esteticamente eleganti. 

Dietro quegli oggetti ci sono anzitutto le prospettive di vita di donne (e anche di uomini) che scommettono sul proprio futuro, che apprendono un mestiere, che fanno squadra comune, che si pongono un obiettivo, che disegnano un percorso anche imprenditoriale, che maturano una nuova consapevolezza sul proprio ruolo dentro la comunità e dentro la società. Imparare a cucire le stoffe, acquisire col tempo autonomia, sicurezza e anche quell’inventiva utile per ideare nuovi oggetti o usi diversi per quelli già esistenti, mettere in piedi un’attività economica che vive perché trova il suo spazio nell’economia locale, tutto questo saper fare – e saperlo fare bene – porta ad un salto esistenziale che cambia il presente e il futuro.

Persone che con il lavoro riescono a generare reddito per le loro famiglie e a sviluppare l’economia locale, e che al tempo stesso – in qualità di caregivers – possono vivere con maggiore fiducia e serenità il percorso di cure e terapie che i loro figli, bambini con disabilità, ricevono nei Centri di riabilitazione avviati da Comunità Solidali nel Mondo. Percorsi terapeutici fondamentali per la vita di questi piccoli, che richiedono spesso tempi lunghi e rendono necessario un notevole impegno anche da parte delle famiglie. Il servizio offerto dai Centri di riabilitazione, che in generale per tutte le mamme dei bambini coinvolti costituisce un aiuto e un sollievo di capitale importanza, è pienamente integrato, nel caso delle donne coinvolte nelle iniziative imprenditoriali, con le attività specifiche di questi progetti. E infatti, a chiusura del cerchio, il ricavato del lavoro artigianale contribuisce anche al sostegno economico degli stessi Centri riabilitativi. Così vincono tutti, ed è possibile raggiungere un effettivo, autonomo e sostenibile miglioramento della qualità di vita dei minori con disabilità, delle loro madri o caregivers, e in definitiva dell’intera comunità.

A questo circolo virtuoso possiamo collaborare e partecipare tutti con l’acquisto dei prodotti dell’artigianato, regalandoli agli altri o a noi stessi, e dando in questo modo ulteriore linfa e slancio al progetto. Fra gli oggetti che proponiamo, e che potete vedere nella pagina Artigianato Solidale, ci sono beauty case, pencil case, porta laptop, pochette, agende e quaderni, borse, portamonete, elastici, sacchettini, zaini e grembiuli. Oggetti adatti anche al confezionamento di bomboniere da distribuire in occasione di matrimoni, battesimi e ogni altro momento importante della nostra vita personale e familiare. Un modo tradizionale ma ancora estremamente significativo per diffondere un messaggio positivo e testimoniare la forza della generosità e della solidarietà.

Per tutte le informazioni o per ordinare subito i prodotti dell’artigianato solidale potete inviare una richiesta tramite il form visibile alla pagina dedicata o inviare una email all’indirizzo solidarieta@solidalinelmondo.org. Sarete ricontattati al più presto per ricevere tutti i dettagli utili alla vostra richiesta, comprese disponibilità, tempistiche e indicazioni operative. E ricordate: poiché l’artigianato solidale è un modo per sostenere l’azione e i progetti di Comunità Solidali nel Mondo, l’importo della donazione relativa agli oggetti scelti sarà fiscalmente detraibile in caso di pagamento con strumenti tracciabili. Un piccolo vantaggio in più per chi sceglie di aiutarci.

Progetti in corso. Ecco il nostro 2023

Uno sguardo a tutto quello che stiamo facendo insieme

La lotta alla malnutrizione, la diagnosi e la cura dell’epilessia con una campagna di formazione e di sensibilizzazione contro lo stigma, l’accesso delle persone con disabilità al mercato del lavoro, la riabilitazione dei bambini con disabilità e il sostegno alle loro madri con iniziative di auto imprenditorialità in grado di garantire un effettivo e autonomo miglioramento della qualità di vita. C’è tutto questo nel 2023 di Comunità Solidali nel Mondo, che continua le sue attività in Tanzania con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le azioni e le iniziative già intraprese per ampliarle nel numero e nella portata, favorendo sempre più la piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale del paese. Un cammino sempre coerente con il percorso finora compiuto e reso possibile grazie al sostegno dei nostri donatori e degli enti che hanno scelto di finanziare i nostri progetti, rendendoli possibili. Andiamo a scoprirli, in quello che si rivela un complesso di attività che si intersecano le une con le altre, disegnando un quadro particolarmente ambizioso ma al tempo stesso concreto e a portata di mano.

I programmi di intervento principali restano quelli storici che i nostri amici e sostenitori hanno ormai imparato a conoscere: con il programma “Daima Mbele!” (Sempre avanti) si lavora per creare un protocollo per la gestione dell’epilessia in Tanzania; con il programma “Simama!” (In piedi) si sono avviati dei centri socio riabilitativi nella città di Mbeya; con il programma “Inuka!” (Alza la testa) e il centro di riabilitazione Inuka CBR nel villaggio di Wanging’ombe si dà sostegno a bambini e adulti con disabilità; con il programma “Kila Siku” (Ogni giorno) è sorto nella popolosa periferia di Dar es Salaam un moderno centro di riabilitazione. I progetti in corso mirano a rafforzare, arricchire e perfezionare le iniziative già in essere. Vediamoli uno per uno.

Beati i misericordiosi

Il progetto “Beati i misericordiosi – Heri walio na huruma” è iniziato a marzo 2022 con il finanziamento della Conferenza Episcopale Italiana, attraverso i fondi dell’otto per mille, e opera sui versanti della cura e contrasto all’epilessia e alla malnutrizione. Il primo obiettivo specifico è quello di avviare due ambulatori per la diagnosi e cura dell’epilessia al centro Simama di Mbeya e all’ospedale St. Francis di Ifakara, accompagnando il tutto da un lato con un’attività formativa rivolta a dirigenti medici per l’acquisizione di protocolli e metodologie utili alla diagnosi e alla cura, e dall’altro con una campagna di sensibilizzazione per un’informazione corretta sulla malattia e lotta contro lo stigma. Ad oggi, è stato avviato l’ambulatorio presso l’ospedale St. Francis di Ifakara ed è stata creata e avviata la campagna di sensibilizzazione We-ASET (We’are Against Stigma Epilepsy in Tanzania).

Il secondo obiettivo specifico è quello di rendere i centri “Simama CBR” di Mbeya e “Antonia Verna –  Kila Siku” di Dar Es Salaam delle strutture idonee per l’individuazione e il trattamento della malnutrizione ai diversi livelli di gravità: si punta dunque a trasferire quelle competenze specialistiche che consentano al personale dei due centri di acquisire piena autonomia nella diagnosi e nella gestione della parte più consistente dei casi accolti. A supporto di tutto ciò, si prevede di fare formazione alle madri al fine di sensibilizzarle in almeno tre ambiti: le buone pratiche per il controllo e monitoraggio dei bambini in cura, la corretta alimentazione per se stesse e per i propri figli, la corretta igiene personale. E quanto ai numeri, l’obiettivo è quello di raggiungere con servizi specialistici di riabilitazione, nel corso dei 2 anni di progetto, almeno 250 bambini dei territori più disagiati della Regione di Mbeya e dei quartieri periferici della metropoli di Dar Es Salaam.

Shine – Sostenere la salute, l’inclusione sociale, l’alimentazione e l’occupazione

Il progetto “Shine”, con il finanziamento dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), si pone l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale delle persone con disabilità in Tanzania, in particolare attraverso il loro inserimento lavorativo, il miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari, il potenziamento dei programmi di alimentazione e in definitiva la loro piena partecipazione, come cittadini, alla vita delle proprie comunità.

Nei 24 mesi di attività si prevedono una molteplicità di attività, indirizzate anche ai bambini con disabilità: dal potenziamento degli ambulatori per la cura dell’epilessia a Mbeya e a Ifataka allo screening sanitario per la malnutrizione nei centri di Mbeya e Dar es Salaam con supporto nutrizionale intensivo con farine e preparati per i bambini che ne avessero necessità. Sono previste azioni di formazione per i caregiver sui temi della malnutrizione e dell’epilessia, e saranno formati alla diagnosi e cura dell’epilessia 20 dirigenti medici provenienti da 10 diverse regioni della Tanzania, che a loro volta formeranno nei rispettivi territori di origine altri 320 medici e operatori sanitari. I protocolli e i modelli di diagnosi e cura dell’epilessia e della malnutrizione saranno anche proposti alle Istituzioni governative competenti per essere replicati sul territorio di tutto il Paese, in modo da ampliare l’impatto concreto. Al contempo, una strategia di formazione e sensibilizzazione contro lo stigma in riferimento a epilessia e disabilità coinvolgerà almeno due milioni di cittadini tanzaniani.

E a proposito di collaborazione con le istituzioni locali, le attività più strettamente legate all’inclusione lavorativa di giovani e adulti con disabilità (affidate al partner CEFA – Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura) coinvolgeranno l’autorità governativa tanzaniana responsabile per la formazione professionale (VETA – Vocational Education and Training Authority) e il Centro formativo Yombo, specializzato nella formazione professionale di soli ragazzi con disabilità: nel concreto si attuano interventi pilota volti a migliorare l’accessibilità al sistema di formazione professionale a Dar es Salaam e Mbeya per le persone con disabilità. Inoltre, l’iniziativa sosterrà attivamente la formazione degli insegnanti, fornendo loro le competenze per promuovere l’inclusione nel sistema educativo, personalizzerà i corsi di formazione professionale e prevederà un servizio di avviamento alla carriera, specifico per ogni studente con disabilità, offrendo corsi di orientamento al lavoro e un periodo di apprendistato in azienda.

Dando qualche numero, parliamo di azioni che toccano 800 minori e giovani adulti con disabilità e in particolare quelli con problemi di epilessia e malnutrizione, residenti nei territori delle Regioni di Mbeya, Morogoro e Dar Es Salaam; 280 caregiver di bambini con disabilità; 28 operatori sanitari della riabilitazione; 340 medici e operatori sanitari; 173 studenti con disabilità presso i centri Yombo e VETA), 215 tra insegnanti e staff dei centri di formazione, 30 datori di lavoro che verranno sensibilizzati sull’inclusione lavorativa e che accoglieranno in apprendistato i ragazzi formati dai centri, 120 funzionari e rappresentanti delle Istituzioni -governative e non- tanzaniane.

Kitenge – I colori dell’inclusione

Si focalizza invece sul supporto all’imprenditorialità femminile e alla riabilitazione su base comunitaria il progetto “Kitenge. I colori dell’inclusione”, realizzato con il finanziamento dalla Provincia Autonoma di Bolzano, in partenariato con “Gondwana Bewusstsein und Solidarität”, e del quale Comunità Solidali nel Mondo ha la gestione e il coordinamento operativo sul territorio. Per migliorare la situazione socio-economica delle famiglie dei minori con disabilità assistiti presso i Centri di riabilitazione “Simama CBR” di Mbeya e “Antonia Verna – Kila Siku” di Dar Es Salaam si agisce per favorire la creazione di gruppi di donne impegnate nella  produzione e commercializzazione di prodotti artigianali locali, anche con la creazione di gruppi di risparmio e di un brand comunitario. Il progetto nasce dall’esperienza del progetto Mikono Yetu a Wanging’ombe e del progetto Ujamaa a Mbeya, in un contesto di coinvolgimento attivo e cooperativo delle comunità coinvolte (sistema della Community Based Rehabilitation), puntando ad un generale miglioramento della qualità di vita dei minori, delle madri, dei caregivers e di tutta la comunità.

Wanawake – Dignità e diritti per le donne

E alla figura della donna guarda anche il progetto “Wanawake – Dignità e diritti per le donne”, realizzato con il finanziamento dell’8 per mille della Chiesa Valdese. Il luogo operativo è il centro “Simama CBR” di Mbeya e le protagoniste sono 15 donne, madri di minori con disabilità assistiti dal Centro. Vengono attivati percorsi di formazione imprenditoriale e viene promossa la creazione di un gruppo di risparmio che permetta alle donne di accedere ai mercati locali: per raggiungere l’obiettivo, si prevede un supporto tecnico-legale per la creazione e la registrazione del gruppo di donne, e poi attività di formazione, acquisto materiali e supporto alla commercializzazione. Sullo sfondo, c’è un’attività di promozione del ruolo della donna nella comunità: una consapevolezza favorita anche dall’attività del Centro Simama nel garantire il benessere sanitario dei minori con disabilità dei quali le donne si prendono cura.

Ma perché dovrei fare un’esperienza in Africa?

Un campo di volontariato, un anno di servizio civile universale, l’opportunità dei corpi civili di pace. Le occasioni per prendere parte all’azione di Comunità Solidali nel Mondo non mancano, ma perché diciamo sempre ai giovani che incontriamo che una fra queste esperienze andrebbe fatta? Perché la consigliamo? E perché, dal suo punto di vista, una ragazza o un ragazzo di 20, 25 o 30 anni dovrebbe imbarcarsi in un’avventura come questa? Quali sono le motivazioni, quali sono gli obiettivi, quali sono anche i vantaggi di una scelta del genere? Insomma, semplicemente: “Ma perché?”.

Ognuno ha le sue risposte personali ma noi proviamo a metterne in fila qualcuna fra quelle che ci sembra possano essere più valide. Quella che consigliamo è un’esperienza che andrebbe fatta perché:

  • Perché ciascuno di noi, anche e forse soprattutto quando ha 20 o 30 anni, sta e vive dentro un sistema di valori e non può sottrarsi alla costruzione di una società che non discrimini e non emargini il più debole;
  • Perché è una risposta concreta alla “globalizzazione” che ci rende più vicini fra noi e ci dà la consapevolezza che nessuno è estraneo al nostro sguardo. Rispetto a 50 anni fa nessuno può dire di non vedere il bisogno, che ci viene messo davanti in ogni momento: e oggi ad avere bisogno sono i due terzi dell’umanità, non una ristretta minoranza.
  • Perché siamo cittadini italiani e l’art. 2 della nostra Costituzione afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo … e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Costituzione non è un testo vecchio utile per qualche discorso del Capo dello Stato: è il patto che unisce noi cittadini. La solidarietà allora non è un affare di pochi. E’ un elemento costitutivo della nostra identità di cittadine e cittadini.
  • Perché è un’occasione per cercare una crescita umana e personale. La relazione fonda l’identità del soggetto, quindi di ciascuno di noi. E’ un elemento essenziale del nostro essere. Quando si vive in un contesto culturale differente dal proprio, quando si fa un’esperienza “esterna”, la relazione è sempre più ricca e sfidante e l’identità personale ne risulta rafforzata. E’ il sentirsi e l’essere “cittadini del mondo”.
  • Perché in molti casi è coerente con la scelta professionale che è stata fatta, e in ogni caso sempre e comunque permette l’acquisizione di competenze personali che sono sicuramente utili nel mondo del lavoro, quale che sia il mestiere e il campo scelto. Ad esempio, per un ragazzo che intende diventare fisioterapista, o già lo è diventato, la scelta professionale di fondo è stata quella di rispondere a chi ha bisogno o a chi non trova risposte al bisogno. Farlo in un’esperienza internazionale rafforza volontà e competenze.

Abbiamo presentato questi cinque punti nel corso di un incontro avuto il 13 marzo 2023 alla Fondazione Santa Lucia di Roma con un gruppo di ragazzi e ragazze del corso di laurea in fisioterapia dell’Università di Tor Vergata: un’occasione preziosa che ci ha permesso di presentare le attività compiute in Africa e il senso profondo del nostro agire. In quella circostanza, grazie ad un collegamento in videoconferenza, abbiamo ascoltato alcune testimonianze da Dar es Salaam e da Mbeya. Fra queste, prendiamo in prestito qui le parole con le quali Valerio Topazio, Project Manager nel programma SIMAMA a Mbeya, si è rivolto alle studentesse e agli studenti del corso di fisioterapia:

“Il consiglio che vorrei darvi è di non perdere l’occasione di fare un’esperienza come questa, particolare, bella, unica nel suo genere, capace di essere rivoluzionaria nel vostro percorso professionale e personale. Noi giovani spesso usciamo dal percorso universitario con l’idea di cercare al più presto il nostro sbocco professionale, di dover per forza conquistare una posizione nella nostra società, e concentrati su questo ci limitiamo, impedendoci di partecipare ad altri programmi ed esperienze. Ma in realtà abbiamo una vita davanti per fare quelle cose, per pensare al lavoro, alla famiglia, ai soldi. Prima di tutto questo, non negatevi un’esperienza di vita come quelle che Comunità Solidali nel Mondo propone”.

E anche il nostro presidente, Michelangelo Chiurchiù, non manca di sottolineare questo aspetto: “Ragazzi, ragazze: avrete tempo per sistemarvi, per lavorare, per inserirvi all’interno della vita professionale. Fare, prima di tutto questo, un’esperienza in Africa vi aiuterà ad avere uno sguardo diverso e vi arricchirà sia dal punto di vista umano sia professionale. Vi aspettiamo!”.

L’8 marzo di Lois fra forza e dolcezza.

Auguri alle donne (oggi e kila siku)

La Festa della Donna ha mille volti. Festeggiata l’8 marzo ad ogni latitudine assume diversi significati: celebrazione, rivendicazione, affermazione ma anche la serena consapevolezza del proprio valore e del proprio contributo all’agire comune di un popolo, di una società e di un luogo. A darci la sua testimonianza in occasione di questa ricorrenza è Lois. Lei ha 27 anni e lavora nel Centro A. Verna Kila Siku da quasi tre anni. E’ una fisioterapista, vive a Dar Es Salaam ma il suo paese di nascita è a quasi 500 chilometri dal centro urbano in cui vive attualmente. Si è spostata per occuparsi dei suoi fratelli più piccoli che studiano all’università e alla scuola superiore e per realizzare il suo obiettivo: diventare fisioterapista. 

Ecco come Lois ha risposto alle nostre domande.

Che cosa ti ha spinto, oltre la prospettiva di un impiego stabile, a fare proprio questo lavoro? 

Ho scelto questo lavoro perché il mio desiderio è quello di dare il mio contributo per migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità che vivono all’interno della mia comunità. In questo modo posso dare un supporto concreto alle loro famiglie, nel mio piccolo mi sembra di dare un contributo importante.

Quali aspettative e quali timori avevi prima di iniziare?

Le aspettative che avevo erano alte: la mia speranza era che le persone che avrei trattato al centro potessero migliorare, acquistando un certo livello di autonomia attraverso gli strumenti e le capacità acquisite con il tempo e l’esercizio e riuscendo così a sentirsi attivi all’interno della comunità. La mia paura principale invece era che fossi una ragazza troppo giovane, fresca di studi all’interno di un ambiente, quello fisioterapico, ancora troppo “maschile”.

Qual è il tuo giorno preferito della settimana? 

Il giorno che preferisco è quello in cui si fanno le valutazioni dei pazienti del centro: è un bel momento di raccoglimento, collaborazione e di confronto. Insieme ci rendiamo conto di quanta strada si è fatta con ogni singola persona e si condividono con genitori e i caregivers gli eventuali progressi e miglioramenti. Non è solo un lavoro clinico ma diventa una valutazione a tutto tondo, si considerano infatti tutti gli aspetti, quello fisioterapico, clinico, psicologico, cognitivo, quello che ne esce è un quadro complessivo della persona accolta in ogni suo aspetto.

Qual è l’aspetto più bello e quale il più difficile nel tuo lavoro?

L’aspetto più bello del mio lavoro è quello di avere a che fare con una moltitudine di persone, soprattutto bambini, ognuno con le proprie necessità e bisogni, e vedere nel piccolo il buono anche nei cambiamenti che sembrano minuscoli. La parte difficile consiste invece nel far capire a genitori e caregivers che è importante continuare la terapia tanto al centro quanto a casa se si vogliono ottenere dei risultati duraturi. È difficile anche fare comprendere come i tempi non vanno per forza accelerati, anzi i progressi richiedono invece molto tempo e costanza, è difficile conquistare la fiducia dei familiari, ma quando si ottiene si arriva a grandi risultati. 

Cosa significa per te essere donna nel tuo paese?

Essere donna è un dono, per quanto ancora sia difficile far riconoscere i propri diritti, libertà e capacità nei diversi contesti, da quello familiare a quello scolastico o lavorativo.  

Quale augurio fai alle donne del tuo paese o alle donne del mondo?

Auguro a tutte le donne tanzaniane e nel mondo di essere e restare sicure di sé, di quello che sono e fanno, di avere il coraggio di rischiare e giocare con la vita senza paura di nulla e nessuno. Oggi le donne possono governare il mondo grazie alla loro forza, determinazione e dolcezza.  

Nelle sue parole ci sono lucidità, consapevolezza, impegno e anche tanta gratitudine. Come quella che dobbiamo a lei e a tutte le donne impegnate a portare avanti, “ogni giorno”, le attività del Centro. Auguri a tutte le donne, oggi e “kila siku”: non solo l’8 marzo, ma ogni giorno.

Il senso moderno di un’istituzione antica: il Servizio Civile.

Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Bisogna custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”.

Papa Francesco

A volte le attività quotidiane proseguono e vanno avanti senza sosta, ed è difficile fermarsi a pensare, a riflettere. Noi, invece, una riflessione vogliamo farla, perché è indispensabile, ed è necessaria. 

La citazione di Papa Francesco con cui abbiamo aperto questo articolo contiene al suo interno molte verità, e una parola potente: servizio. Sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri si legge: “Il servizio civile è impegnarsi in un progetto finalizzato alla difesa non armata e nonviolenta della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, con azioni per le comunità e per il territorio”. 

È solo questo?

Il servizio civile è nato nel 1972 come diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, ed essendo alternativo a questo era obbligatorio. Nel 2001, poi, è stato istituito il servizio civile nazionale su base volontaria, aperto dunque anche alle donne. A seguito dell’eliminazione della leva obbligatoria, il servizio civile è diventato quindi volontario prima e universale poi, con una grande estensione della base a cui l’istituzione è rivolta. 1,2 milioni sono stati i ragazzi e le ragazze che dal 1972 hanno dedicato un anno della loro vita al Servizio civile.

Oggi, dopo cinquant’anni esatti, cosa resta di quel diritto e di quell’esperienza?

È recente la notizia per cui le richieste dei giovani per il bando in corso sono complessivamente superiori ai posti disponibili ma con delle criticità molto visibili. Intanto si registra che alcuni progetti non hanno ricevuto domande e che c’è uno squilibrio di queste ultime verso il Sud Italia, mentre nelle sedi del Nord si fa fatica a coprire i posti disponibili. Inoltre, si teme un fenomeno che si è già verificato in passato e cioè che molti giovani, pur avendo fatto domanda, non si presentino alle selezioni lasciando del tutto scoperte le sedi di servizio (lo scorso anno il fenomeno ha interessato il 15% delle sedi).

Sul punto, riportiamo la riflessione del nostro Presidente, Michelangelo Chiurchiù: “Credo sia necessario fare un passo indietro per poterne fare uno in avanti. Lavorare con impegno e di concerto con il Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile a una campagna capillare di informazione sul servizio civile: molti giovani degli ultimi anni delle superiori e universitari semplicemente non conoscono questa opportunità. Occorre poi cercare di riprendere il senso profondo dell’istituzione. Non molto tempo fa, considerazioni e indicazioni politiche hanno messo l’accento sui concetti di occupabilità e di approccio al mondo del lavoro, mettendoli in relazione con i giovani che sceglievano di fare un’esperienza di servizio civile: questo è fuorviante!

Noi siamo certi che questo non può e non deve essere il punto focale del quadro d’insieme: occorre che l’Istituzione statale di riferimento per il Servizio Civile Universale metta in condizione gli Enti gestori di orientare i giovani nella scelta, anche mettendo in campo risorse economiche adeguate.  Se un giovane sarà aiutato a fare scelte coerenti con le proprie conoscenze, le proprie aspirazioni, i propri valori di riferimento svolgerà un servizio più adeguato per la collettività e ne uscirà arricchito”.  

Noi aggiungiamo che scegliere di proporsi per il Servizio civile universale significa tendere una mano, aprirsi a mondi sconosciuti, spesso difficili, e uscirne migliori, nell’animo e nella mente. Significa ricevere indietro più di quanto si è dato, fare il massimo con le risorse di cui si dispone, essere parte di un grande cambiamento.

Significa, per dirla con le parole di una nostra ex civilista e Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva, Valentina Collina, avere un grande privilegio. Un privilegio che non si può scrivere su un curriculum ma che insegna a vivere, un privilegio fatto di accoglienza, cura, rispetto, ascolto, crescita.

Un privilegio fatto di amore.

Intervista a Vincenzo Giardina: le parole al servizio degli altri.

Giornalista professionista, ha lavorato in Russia e viaggiato in giro per il mondo, soprattutto in Africa. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire e tra le sue collaborazioni ci sono Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso, Oltremare e Nigrizia. Specializzato sull’Africa e sulla cooperazione allo sviluppo, nei suoi lavori riserva un’attenzione particolare ai temi dei diritti umani, dello sviluppo sostenibile e della lotta contro le disuguaglianze. In Tanzania ha viaggiato con il fotoreporter Marco Palombi e Comunità Solidali nel Mondo, realizzando un reportage consultabile qui.

Vincenzo, come hai conosciuto Comunità Solidali nel Mondo?

Dal 2016 coordino il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire e come agenzia di stampa ci è capitato di organizzare alcuni incontri pubblici spesso dedicati all’attualità o comunque a temi di rilievo legati a Paesi dell’Africa o ai Paesi emergenti in generale. Ricordo un appuntamento in particolare che si è tenuto nel mese di settembre del 2020: era un incontro dedicato alla Repubblica democratica del Congo, in occasione dell’anniversario della pubblicazione di un rapporto di riferimento per questioni di carattere umanitario nelle regioni dell’est. In quell’occasione incontrammo e conoscemmo Michelangelo Chiurchiù, il presidente di Comunità Solidali nel Mondo e ci capitò di parlare, di confrontarci. Da allora, appunto, Michelangelo ha condiviso diverse esperienze dell’associazione con noi e anche la rivista INUKA!, così abbiamo iniziato a conoscerci e ad approfondire le varie attività. 

Successivamente, l’interesse che già avevamo verso l’associazione si è amplificato in occasione del riconoscimento del lavoro di Comunità Solidali nel Mondo da parte dell’Accademia dei Lincei, con l’assegnazione del Premio Feltrinelli. Infine, la possibilità di vedere sul campo quello che l’associazione fa ogni giorno e i temi di cui si occupa ci ha consentito un racconto più corretto, più attento rispetto alla condivisione delle motivazioni alla base del riconoscimento dell’Accademia dei Lincei. 

Quella condivisa con la nostra associazione non è stata la tua prima missione in Africa: a livello personale come affronti solitamente i giorni che precedono la partenza per il continente africano? E come vivi quelli successivi, invece?

Ci sono diversi livelli di “preparazione”: uno dei primi è quello molto pratico, organizzativo e riguarda procedure burocratiche come per esempio la richiesta di un visto o la verifica di alcune vaccinazioni o comunque il controllo che tutti i documenti siano in ordine. Poi c’è la definizione di un piano di lavoro legato a un piano di spostamenti che deve essere garantito. Spesso, infatti, muovendosi in Paesi in cui non si risiede è importante avere riferimenti anche da un punto di vista logistico, per essere sicuri di tutti gli spostamenti. Il piano puramente organizzativo si lega, poi, a un piano giornalistico: bisogna fare in modo che queste tappe, questi spostamenti, siano non soltanto sicuri ma anche ragionevoli e sensati dal punto di vista dell’utilizzo del proprio tempo, e che consentano di avvicinarsi a situazioni e interlocutori funzionali agli obiettivi che ci si dà. La valutazione di un piano di missione è sicuramente parte della preparazione. 

Dal punto di vista emotivo, invece, il viaggio di per sé, soprattutto in luoghi che non si conoscono, è un’esperienza in particolare per tutti, che si faccia il giornalista o che si faccia altro. E quindi ci sono viaggi che riescono meglio, altri peggio anche da un punto di vista della partecipazione e della propria apertura rispetto, per esempio, a ciò che si incontra. Non tutti i viaggi sono uguali e non in tutti i viaggi si riesce a essere così aperti e avere anche la capacità di essere più profondi nello sguardo e nella partecipazione. Sicuramente ci sono anche degli elementi personali che si riflettono in tutte le esperienze che si vivono: c’è un vissuto che si esprime nei vari momenti e nel modo di viverli. 

Cosa ha caratterizzato in modo particolare la missione in Africa con la nostra associazione? Che cosa ti ha sorpreso in questa esperienza?

Una delle cose che ci ha colpito di più e che abbiamo anche raccontato in un articolo, è stata la partecipazione e la grande motivazione dei giovani, soprattutto dei ragazzi che stanno svolgendo l’esperienza del Servizio Civile Universale. Sono persone molto motivate, molto determinate e capaci poi di cogliere anche ciò che, egoisticamente e individualmente, si può trarre da un’esperienza del genere. È una cosa bella perché non si tratta soltanto di aiutare qualcuno, ma è chiaro che da quel contesto si prende e si riceve, in termini di esperienza e di arricchimento personale.

Ho notato subito questa consapevolezza: sono ragazzi che lavorano lontani da casa e spesso si confrontano con alcune difficoltà oggettive, dalla corrente elettrica al clima che magari può non essere semplice da sopportare. La sensazione e la consapevolezza, però, sono quelle di vivere un’esperienza preziosa, da cui imparare molto, un’esperienza, oserei dire, in qualche misura da privilegiati. Ho avvertito chiara questa sensazione, di non limitarsi a dare ma ricevere, ricevere molto. E se consideriamo questi ragazzi, di età compresa tra i venti e i trenta, e consideriamo questa loro consapevolezza, beh è qualcosa che incoraggia e fa ben sperare per il futuro.

Si parla di “altra Africa”: è l’Africa che non si conosce, che le persone ignorano, che non viene raccontata in modo adeguato. Nei tuoi reportage, invece, si percepiscono le storie e tutte le sfumature di un continente tanto complesso quanto affascinante. Come ci riesci?

La premessa è che tutti abbiamo delle idee, dei preconcetti, dei pregiudizi o dei modi in cui ci aspettiamo che gli altri o le altre cose appaiano. A questo bisogna aggiungere che il periodo particolare che viviamo e le difficoltà di un settore in sofferenza come quello dell’editoria determinano tempi brevi e il fatto che meno persone devono occuparsi di più cose: tutti questi fattori possono favorire una “semplificazione” o il fatto di seguire sentieri già battuti di cui si conosce già la destinazione. Ho spesso riflettuto con chi si occupa anche di progetti innovativi sui “modi dell’informazione”, e sul fatto che spesso si privilegino le hard news, notizie o fatti in cui a dominare sono gli aspetti negativi: crisi, conflitti, disastri. 

Sicuramente ognuno ha una sua modalità di racconto e sfuggirvi non è semplice. C’è chi sostiene che la notizia è qualcosa che deve sorprendere e stare al di fuori di un tracciato già noto e che altrimenti non è nemmeno notizia. È importante essere critici col proprio lavoro però l’idea di raccontare ciò che si intuisce avere un valore e un significato e che è meno raccontato oppure ignorato, fa pensare che quel tipo di notizia, quel tipo di testimonianza, quella storia possa e debba essere condivisa.

Nel mondo le notizie sono un’infinità, quindi la scelta è già di per sé un arbitrio: bisogna essere molto attenti nella scelta e procedere con occhi attenti e curiosi. 

In un tuo recente articolo hai parlato del ruolo dei media e di come siano capaci di influenzare la “macchina” degli aiuti umanitari. Anche per questo il tuo impegno è spesso a favore di realtà che, non essendo giganti della cooperazione, fanno fatica a ritagliarsi uno spazio per raccontare e comunicare al grande pubblico?

Ogni giornalista ha il compito di verificare, di garantire la completezza, l’equilibrio, l’onestà e l’accuratezza della notizia. Penso che sia giusto provare a concentrarsi su aspetti di rilievo, aspetti che meritano attenzione rispetto a temi che magari per un lettore possono essere divertenti però non hanno la capacità di sollevare temi rilevanti. C’è tanta attenzione su realtà associative di grosse dimensioni e quindi naturalmente la stampa o la televisione ne parlano e le raccontano. C’è, però, anche una miriade di piccole e medie associazioni che soffrono una scarsa visibilità, non intesa come visibilità per dar lustro all’associazione, ma semplicemente perché parlando dell’associazione e di quello che fa, l’associazione può poi avere più strumenti per farlo meglio. Nel racconto giornalistico l’attenzione può e deve essere posta anche su queste realtà in modo da favorire la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e aprire la strada anche a un intervento da parte dei decisori politici, facendo conoscere a più persone possibili queste attività fondamentali e tanto importanti.

Ringraziamo Vincenzo per il tempo dedicato a questa intervista e per descritto volti, luoghi, emozioni e speranze della grande famiglia di Comunità Solidali nel Mondo con parole tanto delicate quanto forti e dense di significato, restituendo un ritratto della Tanzania che porteremo nel cuore per molto tempo.

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