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Autore: Francesco Cartei

Diritti delle persone con disabilità, un cammino da continuare

Negli ultimi anni molte luci si sono accese sulla condizione delle persone con disabilità in Tanzania, ma la sensibilizzazione – che ha finora riguardato soprattutto le città e le località in cui maggiore è stata l’azione delle organizzazioni civili – è ancora lontana dal raggiungere tanti villaggi nei quali non si conoscono ancora oggi le opportunità di cura e di sostegno. E’ quanto mai importante allora proseguire quel prezioso lavoro di informazione e di coscientizzazione dei diritti che ormai in Tanzania ha anche un suo cardine normativo: il Disability Act.

Don Tarcisio Moreschi, prete fidei donum della Diocesi di Brescia, è nel Paese da oltre 30 anni: a lui si deve la richiesta di intervenire per rispondere ai bisogni delle persone con disabilità. “Tu hai l’esperienza di una vita con Capodarco” – disse senza mezzi termini al nostro presidente Michelangelo Chiurchiù nel 2002 quando si sono conosciuti nel corso della prima missione in Tanzania; “Mettila a disposizione della nostra gente perché qui non c’è niente! E la Comunità cristiana ha il dovere di dare una risposta a quelli che sono gli ultimi degli ultimi!”. Qualche giorno dopo, la visita ai villaggi della parrocchia di Wanging’ombe insieme al capovillaggio, ci diede la tragica conferma della drammatica situazione vissuta dai bambini con disabilità e le loro famiglie: bambine e bambini nascosti e senza diritti!

Comunità Solidali nel Mondo – ComSol –  nasce nel 2007 per dare una risposta articolata e organizzata a questi bisogni. Grazie all’aiuto di donatori pubblici e tante amiche e amici che hanno aderito all’appello di solidarietà, ComSol ha promosso 3 Centri in Tanzania: il primo, INUKA, a Wanging’ombe quel primo villaggio visitato; poi a Mbeya e da ultimo a Dar Es Salaam.

“Negli ultimi decenni – ha raccontato a Elisa Pedrazzi, Marta D’Ascanio, Sonia Blandizzi e  Maria Teresa Vicari, il nostro gruppo di civiliste impegnate nel servizio civile universale nel villaggio di Wanging’ombe – ho visto un notevole cambiamento da parte delle famiglie e della società: la nostra azione di sensibilizzazione ha fatto sì che raramente oggi le persone disabili vengano nascoste in casa, come qui avveniva un tempo e come ancora avviene altrove. La gente ora sa che possono essere curate e che c’è la possibilità che vadano a scuola”.

Ma sono conoscenze che vanno ancora diffuse: “Nelle città – spiega don Tarcisio – la consapevolezza è maggiore, ma in moltissimi villaggi c’è ancora la convinzione che non ci sia alcuna possibilità di terapia: le persone disabili sono rinchiuse in casa o al più restano nel cortile delle abitazioni, senza andare mai in nessun luogo, senza occasioni di incontro, relazione, socialità. Un bambino con una malformazione ha la vita segnata. Il modo migliore per diffondere la conoscenza è recarsi nei villaggi, uno ad uno, e lì accordarsi con l’autorità, radunare la gente, parlare alla comunità e al tempo stesso farsi indicare dove sono i disabili, andare da loro e iniziare da lì un percorso”.

C’è anche, dove non è arrivata una formazione adeguata, un problema di percezione comune: “La disabilità, e più in generale qualsiasi fattore che procuri un disagio, è vista in modo molto negativo: secondo la mentalità del posto è il frutto o di qualche peccato o di qualche maleficio, e in ogni caso non è qualcosa di curabile ma qualcosa di cui vergognarsi”. “Il concetto di ‘inclusività’ – precisa il sacerdote – è ancora molto lontano dall’essere percepito e compreso a livello generale, come pure molto lunga è ancora la strada che possa portare le persone con disabilità a poter rivendicare in prima persona i loro diritti”.

Certamente il tempo e l’azione compiuta anche da Comunità Solidali nel Mondo ha portato negli anni a risultati fondamentali, con una sensibilizzazione che a livello istituzionale si traduce in un’attenzione maggiore che in passato verso le persone con disabilità: “La possibilità per loro di frequentare la scuola – dice don Tarcisio – è uno di questi risultati ma, per fare due esempi, le persone disabili non possono contare su cure sanitarie gratuite e le loro famiglie non ricevono supporti economici di alcun tipo. Molto dunque deve ancora essere fatto”.

A proposito di promozione della consapevolezza collettiva dei diritti umani e civili delle persone con disabilità in Tanzania ricordiamo che proprio questo è l’ambito di azione del progetto sulla “coscientizzazione ai diritti negati delle persone con disabilità in Tanzania”, che vedrà impegnati a Dar es Salaam 4 volontari nell’ambito del terzo biennio di sperimentazione (2023/24) dei Corpi Civili di Pace. E’ possibile candidarsi entro il 30 giugno 2023.

I primi passi di Danieli e l’importanza del tuo aiuto

Tre anni fa, quando è arrivato per la prima volta al centro di Iyunga, pronunciava appena qualche parola, aveva uno scarso equilibrio da seduto ed era completamente incapace di stare in piedi da solo e di gattonare correttamente. Oggi Danieli va a scuola, sorride spesso, cammina con l’aiuto di un bastone e ha iniziato a fare qualche passo anche senza. La sua vita è diversa, è migliore.

Quando ci viene chiesta ragione del perché organizzare impegnative e faticose visite domiciliari da parte degli operatori dei centri di riabilitazione ai bambini con disabilità e alle loro famiglie che per le più svariate ragioni non possono frequentare le strutture riabilitative, la risposta è molto semplice: lo si fa perché i bambini come Danieli senza quelle visite non potrebbero ricevere cura e assistenza. E non avrebbero l’opportunità di vivere meglio. Ecco allora perché è importante sostenere le visite domiciliari attuate dal personale dei centri Simama di Mbeya e del centro A. Verna Kila Siku di Dar es Salaam: perché servono, perché sono indispensabili, perché cambiano la vita.

Danieli Furaha oggi ha 7 anni e mezzo. Vive da solo con la mamma. Il padre, come spesso avviene in Tanzania per casi simili, ha rifiutato di crescere un bambino con disabilità e ha abbandonato la famiglia. La mamma, che oggi ha poco più di 30 anni, ne aveva 23 quando ha partorito. Vivono nel quartiere di Isanga, dal quale il Centro Socio riabilitativo di Iyunga (parte del Progetto Simama) dista 1 ora e 40 minuti di percorso a piedi. Un tempo che con l’uso dei mezzi pubblici di trasporto si ridurrebbe a 40 minuti ma che comunque la mamma di Danieli non può permettersi per almeno un paio di ragioni: la prima è economica (il biglietto di andata e ritorno costa troppo), la seconda è logistica (nel corso della giornata vende frutta e verdura vicino casa, nel negozio di una sua conoscente, nella quantità sufficiente a garantire il cibo giornaliero per sé e per il suo bambino). Inoltre Danieli frequenta la scuola e le visite frequenti al Centro Iyunga impatterebbero sulla sua continuità scolastica.

Questi sono i motivi per cui Danieli è uno dei bambini per i quali vengono organizzate le visite domiciliari. Il piano di riabilitazione individuale pensato per lui al momento del suo primo incontro con il Centro Simama prevedeva azioni mirate nelle aree relative alle funzioni sensoriali e motorie, agli aspetti comunicativi e cognitivi, agli aspetti relazionali e comportamentali, alla cura di sé, all’autonomia sociale, oltre che all’uso di dispositivi sanitari e di supporto. Le attività mirate puntavano anzitutto a renderlo capace di ridurre la tensione, per poi riuscire a utilizzare bene le mani per le attività quotidiane, ad alzarsi in modo corretto, a pronunciare bene le parole e ad identificare i colori.

Le visite nelle abitazioni dei pazienti sono compiute da una delle due operatrici del Centro che, di volta in volta, si alternano: a turno, insieme alle operatrici, frequentano la casa di Danieli anche il fisioterapista, il terapista occupazionale, la psicologa e l’assistente sociale, oltre ai volontari e alle volontarie italiane che vivono l’esperienza del Servizio Civile Universale. La relazione che nel corso del tempo si è creata tra la mamma e lo staff di Simama è molto bella: la donna accoglie lo staff sempre con grande gioia, e oltre agli esercizi per il bambino si trova sempre il tempo di parlare dei problemi che la mamma affronta ogni giorno.

I miglioramenti di Danieli sono evidenti. “Ultimamente – raccontano i nostri volontari – gli abbiamo visto fare grandi progressi: lui solitamente camminava intorno al tavolino di casa sorreggendosi con due mani. In occasione della penultima visita lo abbiamo trovato che era in grado di camminare con il supporto di un bastone, ma senza tenersi al tavolino. E l’ultima volta, invece, è riuscito a fare due passi anche senza il supporto del bastone. E’ stata una bellissima sorpresa”.

Sono tanti, in Tanzania, i bambini e le bambine con disabilità che vivono segregati in casa, privati di ogni diritto, inclusa l’assistenza medico-sanitaria. Gli staff dei centri Simama (nella città di Mbeya) e del Centro A. Verna Kila Siku (nella città di Dar es Salaam) effettuano visite domiciliari programmate alle famiglie che non riescono a raggiungere le strutture sanitarie. Ogni bimbo, nell’arco dell’anno, riceve in media fra le 24 e le 30 visite domiciliari. Per i nostri Centri ogni visita domiciliare può costare tra gli 8.000 e i 12.000 scellini tanzaniani (dai 4€ ai 6€ circa), un costo che varia in funzione della lontananza della casa del bimbo. Ogni donazione ci consente di raggiungere più bambini: con una donazione di 5 euro al mese puoi garantire in un anno circa 16 visite domiciliari, con una donazione di 25 euro al mese puoi garantire le visite domiciliari per un anno a due bimbi con disabilità. Puoi farlo in modo semplice anche attraverso la piattaforma Wishraiser.

Corpi Civili di Pace, al via le selezioni: partecipa con noi

Pubblicato il bando, c’è spazio per 4 volontari impegnati per un anno per le persone con disabilità in Tanzania 

Candidati entro il 30 giugno!

ROMA – Il Bando dei Corpi Civili di Pace è ufficialmente aperto e c’è tempo fino al 30 giugno 2023 per inviare la propria candidatura. Il Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale ha pubblicato sul proprio sito web il bando per la selezione di 153 volontari da impiegare nei progetti per i Corpi Civili di Pace in Italia e all’estero: si tratta della terza fase della sperimentazione prevista dalla legge 147/2013. Fra i progetti disponibili, anche quello curato da Comunità Solidali nel Mondo per la coscientizzazione ai diritti negati delle persone con disabilità in Tanzania, che vedrà impiegati 4 volontari a Dar es Salaam, la principale città del paese. Ciascun giovane può presentare una sola domanda di partecipazione al bando e per un solo progetto. Per candidarti accedi al sito del dipartimento tramite Spid: prima di farlo chiamaci al numero 06.0190.5858 oppure contattaci attraverso il modulo della pagina dedicata ai Corpi Civili di Pace. La scadenza per la presentazione delle domanda è fissata per le ore 14:00 del 30 giugno 2023. L’opportunità, indirizzata a tutti i ragazzi e le ragazze tra i 18 e i 28 anni, coinvolgerà i volontari per la durata di 12 mesi. E’ previsto un periodo di formazione prima di partire per la Tanzania e poi un costante supporto e accompagnamento sul campo. 

Entrare a far parte dei Corpi Civili di Pace (CCP) è un’esperienza unica, che ti permette di impegnarti concretamente in un progetto ma che ti rende parte di una più ampia comunità costituita dai giovani volontari e volontarie impegnate in azioni civili, non armate e non violente: un’attività che mira a sostenere le popolazioni locali nella prevenzione dei conflitti, promuovendo una pace che non sia solo assenza di violenza ma anche affermazione positiva dei diritti umani e del benessere sociale.

Il nostro progetto per le persone con disabilità in Tanzania

In Tanzania le persone con disabilità sono costantemente escluse dalla vita sociale, culturale, economica e politica del Paese, e sono soggette a forme continue di discriminazione e violenza. Di fatto, sono svantaggiate, emarginate e relegate a rappresentare un vero e proprio “fardello” per le loro famiglie, sulle quali viene interamente scaricato il peso della loro cura. Il diritto alla salute, allo studio, al lavoro, all’inclusione sociale e comunitaria di queste persone è nel concreto negato, con una evidente violazione del loro diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione.

L’azione dei Corpi Civili di Pace dovrà perseguire l’obiettivo di promuovere la consapevolezza collettiva dei diritti umani e civili delle persone con disabilità, favorendo il rispetto e la loro piena integrazione nel sistema sociale tanzaniano. Il progetto che i 4 volontari saranno chiamati a realizzare servirà dunque, attraverso azioni di monitoraggio, diffusione delle informazioni e sensibilizzazione comunitaria, a supportare la popolazione con disabilità, cambiando nel concreto la percezione sociale verso di essa e orientando al meglio anche le decisioni politiche che la riguardano.

Il lavoro durerà un anno e si svilupperà naturalmente per fasi successive: il primo passo ci permetterà di fotografare la situazione esistente nei distretti periferici di Dar es Salaam e di comprendere l’attuale livello di consapevolezza, entrando in contatto con le persone. Il secondo passaggio sarà quello di supportare la creazione di gruppi comunitari con la predisposizione di spazi e di incontri dedicati al tema dei diritti, con un’attività di comunicazione anche on line. Sarà poi il momento di promuovere più direttamente un’azione di sensibilizzazione sulle istituzioni locali, condividendo le informazioni ricavate (il monitoraggio diventerà un vero e proprio Dossier sulla condizione delle persone disabili in Tanzania) e di intraprendere una decisa azione di sensibilizzazione comunitaria con incontri, coinvolgimento dei mass media, ingaggio di testimonial locali, coinvolgimento dei leader religiosi e politici, per allargare il più possibile la consapevolezza comune del rispetto dei diritti. E’ un compito non semplice, ma affascinante ed estremamente concreto, perché si tratta di lavorare per un miglioramento evidente della vita di tantissime persone.

Puntiamo ad aiutare 1.000 bambini e ragazzi, e con essi anche le loro madri e i loro nonni, ampliando il raggio d’azione anche ad altre famiglie fino a includere 2.500 donne con carichi familiari pesantissimi e 3.100 anziani molto fragili, che in larga misura non riescono a badare a se stessi e alla propria salute e spesso soffrono di malnutrizione insieme ai propri nipoti. Consulta qui la scheda di progetto per avere maggiori dettagli.

I Corpi Civili di Pace e il Dipartimento per le Politiche giovanili 

Ti ricordiamo che I progetti hanno una durata di dodici mesi, con un orario di servizio non inferiore a 30 ore settimanali o a 1400 ore annue, e che ciascun volontario selezionato dovrà sottoscrivere con il Dipartimento per le politiche giovanili e il servizio civile universale un contratto che prevede un assegno mensile di € 444,30 per lo svolgimento del servizio, al quale viene aggiunta un’indennità estera giornaliera. Per i volontari è prevista inoltre un’assicurazione relativa ai rischi connessi allo svolgimento del servizio stipulata dal Dipartimento. Per tutte le informazioni di dettaglio puoi leggere la nostra pagina dedicata ai Corpi Civili di Pace e contattarci. Ti aspettiamo!

L’ostello di Wanging’ombe: una casa che include e avvicina

di Sonia Blandizzi e Marta D’Ascanio

WANGING’OMBE (TANZANIA) – E’ uno spazio di condivisione e di inclusività, in cui lo spaesamento e lo sconforto iniziale possono trasformarsi, nel breve volgere di una settimana, in una viva consapevolezza e in una nuova speranza. E’ un luogo dal quale è possibile osservare da vicino l’avvio di un percorso destinato nel tempo a cambiare in meglio la vita dei bambini con disabilità che abitano questa regione della Tanzania e che arrivano in cura al Centro di riabilitazione “Inuka”. L’ospedale offre la terapia e il supporto sanitario necessario, l’ostello offre quelle mura e quell’accoglienza senza le quali tutto ciò non sarebbe possibile. Oggi vi parliamo di questo. Seguiteci nel nostro racconto.

Cura e riabilitazione: il Centro Inuka per bambini e caregiver

A Wanging’ombe, un piccolo villaggio nella regione di Njombe, nel centro della Tanzania, si trova Inuka Southern Highland Rehabilitation Hospital. Questo ospedale è diventato nel corso del tempo un vero e proprio punto di riferimento per famiglie e bambini con disabilità provenienti da ogni angolo della Tanzania. Qui l’approccio utilizzato è quello della CBR (Community Based Rehabititation), strategia che si avvale della collaborazione di familiari, amici, operatori e dell’intera comunità con l’obiettivo di emancipare la persona con disabilità e accrescerne l’autonomia personale. Ciò è possibile attraverso un trasferimento di conoscenze e competenze riabilitative da parte dei terapisti alla comunità e alle persone che si prendono cura quotidianamente del bambino. A Inuka tutto ciò avviene durante la WIT (Week Intensive Treatment), ovvero una settimana di trattamento intensivo, caratterizzato da un approccio globale al paziente il quale può usufruire di più servizi (fisioterapia, counseling, logopedia, terapia occupazionale, consulenza nutrizionale). Durante questi giorni il caregiver ha modo di apprendere le strategie per continuare anche a casa la terapia necessaria al bambino e la sua corretta gestione nel quotidiano.

Tutto ciò non potrebbe avvenire se il bambino, accompagnato dal caregiver, non avesse la possibilità di soggiornare all’interno del centro per il tempo necessario allo svolgimento di tutte le cure. L’ostello di Inuka risponde proprio a questo bisogno.

Una casa per i pazienti: l’ostello Inuka accoglie adulti e bambini

Dalla sua apertura, avvenuta nel 2011, l’ostello ha accolto innumerevoli famiglie. L’esigenza di ospitare anche adulti per la riabilitazione settimanale ha portato nel 2019 all’apertura di un’ulteriore struttura a loro adibita. Quindi ad oggi l’ostello può offrire ospitalità ad un totale di 32 bambini accompagnati e 14 pazienti adulti. L’ostello può accogliere bambini destinatari della WIT, bambini con piede torto congenito che devono effettuare il trattamento nell’apposita clinica presente a Inuka, bambini in attesa del completamento degli ausili realizzati nella falegnameria del centro e pazienti adulti. Gli utenti possono soggiornare per un periodo variabile in base alle loro necessità. Per lo più la struttura ospita bambini che devono effettuare la WIT, della durata di una o due settimane, con possibilità di prolungamento in caso di necessità.

L’ostello dei bambini dispone di un totale di dodici stanze, due delle quali sono singole con bagno all’interno e dieci comuni in grado di ospitare tre bambini ciascuna. Nell’ostello possono essere accolti sia mamme con bambini che papà, i quali alloggiano nelle stanze singole. È inoltre presente una cucina esterna in comune e una grande sala da pranzo.

La gestione amministrativa ed economica dell’ostello avviene secondo precise modalità.  I bambini arrivano anche senza prenotazione a Inuka e, dopo aver effettuato la prima visita, fisioterapisti e terapisti occupazionali orientano la famiglia sulla necessità di un’eventuale permanenza nella struttura per dare inizio alla WIT.

Al termine della settimana di trattamento intensivo viene proposta alla famiglia una data di ritorno al centro per il follow up che generalmente è dopo 3 o 6 mesi, in base all’età e ai bisogni del singolo bambino. In prossimità del loro ritorno la segreteria di Inuka si occupa di contattare le famiglie per avere conferma del loro arrivo.

Una suora gestisce la quotidianità dell’ostello, verificando che le mamme e i loro bambini siano sempre forniti di tutto l’occorrente necessario per la loro permanenza (acqua, luce, coperte, cibo,..). La pulizia degli spazi dell’ostello è affidata a tre operatori, i quali si occupano anche della preparazione della colazione e del pranzo.

Un’accoglienza accessibile a tutti: quanto costa l’ostello Inuka

Per i numerosi servizi offerti è richiesta alle famiglie una quota di soggiorno (accessibile anche alla popolazione con possibilità economiche medio-basse) equivalente a 40.000 tzh (circa 15€) per settimana, comprensivi di colazione per i bambini e pranzo per bambini e caregiver.  Nel caso in cui l’utente abbia l’assicurazione medica il pagamento include solo i pasti (20.000 tzh per settimana – circa 7€). Se il bambino è accompagnato da un’ulteriore figura, quest’ultima paga 7.000 tzh (circa 3€) al giorno per il pranzo e l’alloggio. Inoltre Inuka dispone di un fondo di donazioni al quale attinge per supportare le cure e il soggiorno degli utenti che non hanno possibilità economiche. La tassa di soggiorno dell’ostello serve a sostenere le spese dello stesso ed è gestita dal dipartimento finanziario di Inuka.

Ogni settimana venti bambini: chi sono gli ospiti dell’ostello Inuka

Ad oggi gli utenti sono famiglie provenienti da villaggi limitrofi delle regioni di Njombe, Mbeya e non solo. Infatti grazie alla possibilità di soggiornare all’interno del centro anche le famiglie provenienti da regioni molto distanti dall’ospedale sono incentivate a raggiungere Inuka. Inoltre l’ospedale è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, collocandosi a pochi passi da una delle principali vie di collegamento della Tanzania.

Le famiglie vengono a conoscenza della presenza di Inuka e dei suoi servizi spesso attraverso passaparola. Talvolta l’ospedale viene sponsorizzato anche attraverso servizi di comunicazione come la radio o la televisione e, in passato, sono state svolte delle campagne di informazione nelle chiese dei villaggi limitrofi.

Ad oggi in media l’ostello accoglie circa venti bambini a settimana. Il numero degli utenti varia in base a una serie di fattori non sempre controllabili, come ad esempio il lavoro nei campi delle famiglie o il maltempo.

Abitare nell’ostello: ecco una giornata – tipo

La vita nell’ostello si svolge con ritmi ben scanditi ogni giorno. Dalle 8.30 alle 10.00 è prevista una prima sessione di riabilitazione durante la quale le mamme, affiancate dalle operatrici, imparano la corretta esecuzione degli esercizi terapeutici necessari ai propri bambini. Dalle 10.00 alle 11.00 mamme e bambini tornano nell’ostello, dove viene loro servita la colazione che consiste nell’uji, una specie di porridge a base di farina di mais, acqua, latte e zucchero, nella cultura tanzaniana ritenuto particolarmente adatto a neonati e bambini. Alle 11.00 inizia una seconda sessione di riabilitazione fino alle 12.30, ora del pranzo. Successivamente dalle 13.30 alle 14.30 le mamme partecipano a degli incontri formativi tenuti dai terapisti di Inuka, riguardanti la corretta gestione e cura del bambino. Dalle 14.30 alle 15.00 mamme e bambini si ritrovano con le operatrici per un momento di condivisione in cui si canta e si balla tutti insieme a chiusura della giornata riabilitativa. Da questo momento in poi le mamme possono tornare nell’ostello, dove riposano, si occupano del bambino e hanno la possibilità di raggiungere facilmente a piedi il villaggio ed eventualmente acquistare il necessario per la cena. Nel tardo pomeriggio si riuniscono nella cucina dell’ostello per cucinare e trascorrere momenti insieme in un clima sereno e di condivisione.

Una dimora umile ma accogliente: le recensioni dell’ostello Inuka

Per rendere il servizio il più efficiente possibile, al termine della permanenza a Inuka viene chiesto alle mamme un feedback circa il loro soggiorno. Talvolta dai commenti emergono alcune criticità sull’ostello che riguardano principalmente la sporadica assenza di acqua e corrente elettrica. Alcune mamme hanno riferito la necessità di migliorare il servizio offerto sostituendo i materassi presenti nelle camere. Secondo il personale locale la ridotta presenza di figure addette esclusivamente alla gestione quotidiana e pulizia dell’ostello rappresenta un punto di debolezza ulteriore e da potenziare.

Nonostante queste piccole criticità tutti gli ospiti di Inuka sono entusiasti della loro permanenza. Infatti la presenza dell’ostello e la ridotta tassa richiesta per soggiornarvi, rende i servizi offerti da Inuka molto inclusivi, in grado di abbattere distanze e difficoltà economiche. La struttura cerca inoltre di essere priva di barriere architettoniche: la presenza di scivoli per le sedie a rotelle, di ausili nei bagni e nella sala da pranzo rende gli spazi accessibili a molti utenti. 

La formazione alla riabilitazione e il senso di comunità

La possibilità di vivere la quotidianità all’interno del centro, grazie alla presenza dell’ostello rappresenta un ulteriore punto di forza. Infatti durante la loro permanenza i caregiver apprendono strategie utili alla gestione quotidiana dei bambini: come rispondere ai loro bisogni, la corretta alimentazione e modalità per renderli autonomi. Ciò che più colpisce è il senso di comunità che si crea tra le mamme all’interno dell’ostello. È consueto vederle portare in spalla nei colorati kitenge (stoffe tradizionali) qualsiasi bambino, come se fosse il proprio. Si aiutano tra di loro, nel fare la spesa, cucinare e in generale gestire la vita quotidiana. Il tutto mentre i bambini più grandi giocano e condividono momenti insieme nel grande spazio antistante l’ostello in un clima sereno, di accettazione e reciprocità. Questa modalità riabilitativa è ben accolta dalle famiglie che frequentano il centro, infatti chiedendo alle mamme cosa ne pensano in molte riferiscono di esserne felici in quanto vedono dei risultati importanti nello sviluppo dei loro bambini.

È impossibile non notare i sorrisi sinceri presenti sui volti delle mamme al termine della settimana di riabilitazione o già dopo pochi giorni di permanenza. La timidezza e lo sconforto iniziale, grazie anche alla possibilità di condividere dubbi, difficoltà, storie, momenti di svago, canti e balli con altre mamme nella loro stessa condizione, sembra svanire e lasciare spazio ad una maggiore consapevolezza e speranza.

Gioia è curarli per vederli sorridere!

Nella fatica e nelle difficoltà quotidiane che, nonostante tutte le accortezze, si incontrano ogni giorno quando si fa cooperazione allo sviluppo, vedere sorridere le persone, soprattutto i bambini, è qualcosa che non ha prezzo. E’ un obiettivo che viene raggiunto e al tempo stesso è il motore che permette di affrontare con energia e determinazione ogni nuova sfida giornaliera. Perché non c’è davvero nulla di così semplice e di così potente come un sorriso.

E proprio un sorriso, quello di una mamma e quello del suo bambino, diventa da oggi l’immagine con la quale promuoviamo il 5×1000 per Comunità Solidali nel Mondo: un modo facile per sostenere le nostre attività in Africa e contribuire alla realizzazione dei tanti progetti in corso. Progetti che parlano il linguaggio dell’attenzione, della presa in carico, della cura, e che portano fiducia e speranza per il futuro. 

L’immagine è accompagnata da una nostra certezza, provata mille volte sul campo: “Gioia è curarli per vederli sorridere”. Fornire supporto, sostegno e cura ai bambini e alle bambine, ai loro genitori, a tutti gli uomini e a tutte le donne della comunità, produce tante conseguenze concrete, una delle quali, difficile forse da misurare ma estremamente reale, è la gioia. Quella gioia che ci dà il coraggio di sperare, sognare, progettare, costruire sulla carta e poi realizzare i progetti che – anche con il tuo contributo – possiamo continuare a rendere concreti.

La condizione di tanti bambini con disabilità in Tanzania può migliorare grazie a te e a quanti scelgono di sostenerci. Insieme alle loro madri, ai loro padri e alla comunità tutta, sapremo fornire loro un valido sostegno, professionalmente valido e culturalmente orientato. La formazione del personale locale ci permette di puntare su una progressiva emancipazione e di allargare a dismisura la platea di bambini e famiglie che trarranno vantaggio dalla nostra opera. I protocolli adottati, la loro condivisione, la collaborazione con il governo e le istituzioni locali, ci permettono di incidere in profondità e di migliorare sensibilmente la vita quotidiana delle persone più deboli. Ci consentono di moltiplicare gli aiuti, partendo dal tuo aiuto.

Lavoriamo nel paese per una corretta gestione dell’epilessia, che in Tanzania risulta spesso non adeguata a causa della mancanza di una formazione medica specialistica nonché di falsi miti e superstizioni sulla sua origine. Ci concentriamo sul contrasto alla malnutrizione, sul sostegno alla disabilità, sulla promozione del ruolo della donna, anche favorendo iniziative imprenditoriali sui mercati locali, Le azioni sono tante – queste sono solo alcune – e tu puoi contribuire alla loro realizzazione.

Sostienici destinando il tuo 5×1000 a Comunità Solidali nel Mondo. E’ un gesto semplice, che a te non costa nulla ma che è ugualmente capace di fare la differenza. E a chi ti chiede un consiglio o un suggerimento, parla di noi e dei nostri progetti. Ricorda: quando presenterai la tua Dichiarazione dei Redditi (modello 730 o modello Unico) ti basterà firmare nel riquadro “Sostegno del volontariato” e indicare il CODICE FISCALE di Comunità Solidali nel Mondo: 97483180580. Non serve fare altro. Tutto estremamente semplice. Come un sorriso.

5×1000

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Estate in Africa, arriva il campo di volontariato

Se coltivi da tempo il desiderio di vivere una bella esperienza di vita in Africa, quel momento potrebbe essere arrivato. Hai la disponibilità di un paio di settimane libere durante la prossima estate e la voglia di metterti in gioco? Il campo di volontariato estivo di Comunità Solidali nel Mondo potrebbe fare al caso tuo! Non serve rivoluzionare la propria esistenza o cambiare tutta la propria vita: basta scegliere di vivere in un modo diverso le tue vacanze e il periodo di tempo lontano dallo studio o dal lavoro ti permetterà di tuffarti in un’esperienza che ti resterà per sempre dentro l’animo. Le date fondamentali da ricordare sono queste: il campo estivo, aperto a tutte le età, si svolgerà in Tanzania dal 1 al 15 agosto 2023. Se pensi che l’opportunità possa fare al caso tuo, CONTATTACI SUBITO: la richiesta non vincola alla partecipazione ma ci permette di conoscerci subito, di sciogliere eventuali dubbi e di organizzare al meglio gli aspetti logistici.

Comunità Solidali nel Mondo cura da tempo progetti di cooperazione allo sviluppo in Tanzania, nella parte centro-orientale del continente. E’ impegnata stabilmente nella realizzazione e nella messa a regime di numerosi centri di riabilitazione per bambini e per adulti con disabilità; ha attivo un programma per la creazione di un protocollo per la gestione dell’epilessia in tutto il Paese; agisce con azioni di lotta alla malnutrizione e di sostegno alle donne tramite iniziative di auto imprenditorialità. Una ricchezza di interventi tutti attuati con la valorizzazione e il protagonismo delle comunità locali.

Ed è proprio la comunità locale, insieme ai nostri referenti, che accoglierà i partecipanti al campo di volontariato in Tanzania previsto in agosto: il luogo scelto è la città di Mbeya, nell’ovest del paese, a 850 Km dalla principale località del paese, Dar es Salaam. A Mbeya è attivo da dieci anni il programma Simama (significa “In piedi”) che supporta bambini con disabilità e famiglie attraverso la riabilitazione motoria e cognitiva. In questo momento i progetti attivi sono ben quattro, e variano dalla sensibilizzazione sulla cura dell’epilessia al contrasto alla malnutrizione, dalla produzione e commercializzazione di prodotti artigianali locali fino alla formazione professionale, passando per l’attività cruciale del Centro di Riabilitazione “Simama CBR”.

Nei primi 15 giorni di agosto 2023 il gruppo di volontari sarà accolto a Mbeya e potrà vivere in pieno l’atmosfera africana, impegnandosi concretamente in alcune delle varie attività presenti: certamente l’animazione ai tanti bambini che frequentano direttamente i centri di riabilitazione, ma anche le visite domiciliari che vengono effettuate presso le famiglie di altri bambini. Più in generale, rispetto alla popolazione locale, non mancheranno incontri e scambi con associazioni locali e con rappresentanti delle istituzioni, perché la nostra azione è sempre orientata al creare relazioni. Ad accompagnare il gruppo di volontari in questa avventura ci saranno i responsabili di ComSol a Mbeya insieme al gruppo di quattro ragazzi e ragazze impegnati per un intero anno con il Servizio civile universale.

Qualche altra  informazione logistica. Le date del campo di volontariato sono fisse: si parte da Roma il 1° agosto e si ritorna il 15 agosto. Il viaggio aereo, andata e ritorno per Dar Es Salaam, è a carico dei singoli partecipanti, come pure la necessaria assicurazione medica e il visto di ingresso nel paese (quest’ultimo ha un costo orientativo di 50 dollari). Per gli spostamenti interni al paese e per la permanenza a Mbeya è richiesto un contributo di 450 euro, comprensivi di alloggio e vitto.

Se sei interessato dunque lasciaci i tuoi dati tramite QUESTO MODULO. Ti contatteremo e risponderemo a tutte le tue eventuali domande. Se confermerai il tuo interesse, sarai invitato a partecipare ad un incontro conoscitivo e selettivo online durante il mese di giugno.

Noi ti aspettiamo. E la Tanzania aspetta te!

Artigianato solidale, quanta vita dietro un solo oggetto!

Dalla Tanzania all’Italia, il viaggio degli oggetti di artigianato è anche il viaggio delle speranze, delle aspirazioni e delle fatiche delle donne tanzaniane che lavorano per se stesse, per i propri figli e per la propria comunità. Dietro le borse, gli zaini, i grembiuli, i beauty case, i portamonete, gli elastici e tutti gli altri oggetti  che compongono la vetrina che idealmente espone tutto ciò che viene creato a Mbeya e a Dar es Salaam, non ci sono solamente dei semplici tessuti cuciti e assemblati per essere funzionali, funzionanti ed esteticamente eleganti. 

Dietro quegli oggetti ci sono anzitutto le prospettive di vita di donne (e anche di uomini) che scommettono sul proprio futuro, che apprendono un mestiere, che fanno squadra comune, che si pongono un obiettivo, che disegnano un percorso anche imprenditoriale, che maturano una nuova consapevolezza sul proprio ruolo dentro la comunità e dentro la società. Imparare a cucire le stoffe, acquisire col tempo autonomia, sicurezza e anche quell’inventiva utile per ideare nuovi oggetti o usi diversi per quelli già esistenti, mettere in piedi un’attività economica che vive perché trova il suo spazio nell’economia locale, tutto questo saper fare – e saperlo fare bene – porta ad un salto esistenziale che cambia il presente e il futuro.

Persone che con il lavoro riescono a generare reddito per le loro famiglie e a sviluppare l’economia locale, e che al tempo stesso – in qualità di caregivers – possono vivere con maggiore fiducia e serenità il percorso di cure e terapie che i loro figli, bambini con disabilità, ricevono nei Centri di riabilitazione avviati da Comunità Solidali nel Mondo. Percorsi terapeutici fondamentali per la vita di questi piccoli, che richiedono spesso tempi lunghi e rendono necessario un notevole impegno anche da parte delle famiglie. Il servizio offerto dai Centri di riabilitazione, che in generale per tutte le mamme dei bambini coinvolti costituisce un aiuto e un sollievo di capitale importanza, è pienamente integrato, nel caso delle donne coinvolte nelle iniziative imprenditoriali, con le attività specifiche di questi progetti. E infatti, a chiusura del cerchio, il ricavato del lavoro artigianale contribuisce anche al sostegno economico degli stessi Centri riabilitativi. Così vincono tutti, ed è possibile raggiungere un effettivo, autonomo e sostenibile miglioramento della qualità di vita dei minori con disabilità, delle loro madri o caregivers, e in definitiva dell’intera comunità.

A questo circolo virtuoso possiamo collaborare e partecipare tutti con l’acquisto dei prodotti dell’artigianato, regalandoli agli altri o a noi stessi, e dando in questo modo ulteriore linfa e slancio al progetto. Fra gli oggetti che proponiamo, e che potete vedere nella pagina Artigianato Solidale, ci sono beauty case, pencil case, porta laptop, pochette, agende e quaderni, borse, portamonete, elastici, sacchettini, zaini e grembiuli. Oggetti adatti anche al confezionamento di bomboniere da distribuire in occasione di matrimoni, battesimi e ogni altro momento importante della nostra vita personale e familiare. Un modo tradizionale ma ancora estremamente significativo per diffondere un messaggio positivo e testimoniare la forza della generosità e della solidarietà.

Per tutte le informazioni o per ordinare subito i prodotti dell’artigianato solidale potete inviare una richiesta tramite il form visibile alla pagina dedicata o inviare una email all’indirizzo solidarieta@solidalinelmondo.org. Sarete ricontattati al più presto per ricevere tutti i dettagli utili alla vostra richiesta, comprese disponibilità, tempistiche e indicazioni operative. E ricordate: poiché l’artigianato solidale è un modo per sostenere l’azione e i progetti di Comunità Solidali nel Mondo, l’importo della donazione relativa agli oggetti scelti sarà fiscalmente detraibile in caso di pagamento con strumenti tracciabili. Un piccolo vantaggio in più per chi sceglie di aiutarci.

Progetti in corso. Ecco il nostro 2023

Uno sguardo a tutto quello che stiamo facendo insieme

La lotta alla malnutrizione, la diagnosi e la cura dell’epilessia con una campagna di formazione e di sensibilizzazione contro lo stigma, l’accesso delle persone con disabilità al mercato del lavoro, la riabilitazione dei bambini con disabilità e il sostegno alle loro madri con iniziative di auto imprenditorialità in grado di garantire un effettivo e autonomo miglioramento della qualità di vita. C’è tutto questo nel 2023 di Comunità Solidali nel Mondo, che continua le sue attività in Tanzania con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le azioni e le iniziative già intraprese per ampliarle nel numero e nella portata, favorendo sempre più la piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale del paese. Un cammino sempre coerente con il percorso finora compiuto e reso possibile grazie al sostegno dei nostri donatori e degli enti che hanno scelto di finanziare i nostri progetti, rendendoli possibili. Andiamo a scoprirli, in quello che si rivela un complesso di attività che si intersecano le une con le altre, disegnando un quadro particolarmente ambizioso ma al tempo stesso concreto e a portata di mano.

I programmi di intervento principali restano quelli storici che i nostri amici e sostenitori hanno ormai imparato a conoscere: con il programma “Daima Mbele!” (Sempre avanti) si lavora per creare un protocollo per la gestione dell’epilessia in Tanzania; con il programma “Simama!” (In piedi) si sono avviati dei centri socio riabilitativi nella città di Mbeya; con il programma “Inuka!” (Alza la testa) e il centro di riabilitazione Inuka CBR nel villaggio di Wanging’ombe si dà sostegno a bambini e adulti con disabilità; con il programma “Kila Siku” (Ogni giorno) è sorto nella popolosa periferia di Dar es Salaam un moderno centro di riabilitazione. I progetti in corso mirano a rafforzare, arricchire e perfezionare le iniziative già in essere. Vediamoli uno per uno.

Beati i misericordiosi

Il progetto “Beati i misericordiosi – Heri walio na huruma” è iniziato a marzo 2022 con il finanziamento della Conferenza Episcopale Italiana, attraverso i fondi dell’otto per mille, e opera sui versanti della cura e contrasto all’epilessia e alla malnutrizione. Il primo obiettivo specifico è quello di avviare due ambulatori per la diagnosi e cura dell’epilessia al centro Simama di Mbeya e all’ospedale St. Francis di Ifakara, accompagnando il tutto da un lato con un’attività formativa rivolta a dirigenti medici per l’acquisizione di protocolli e metodologie utili alla diagnosi e alla cura, e dall’altro con una campagna di sensibilizzazione per un’informazione corretta sulla malattia e lotta contro lo stigma. Ad oggi, è stato avviato l’ambulatorio presso l’ospedale St. Francis di Ifakara ed è stata creata e avviata la campagna di sensibilizzazione We-ASET (We’are Against Stigma Epilepsy in Tanzania).

Il secondo obiettivo specifico è quello di rendere i centri “Simama CBR” di Mbeya e “Antonia Verna –  Kila Siku” di Dar Es Salaam delle strutture idonee per l’individuazione e il trattamento della malnutrizione ai diversi livelli di gravità: si punta dunque a trasferire quelle competenze specialistiche che consentano al personale dei due centri di acquisire piena autonomia nella diagnosi e nella gestione della parte più consistente dei casi accolti. A supporto di tutto ciò, si prevede di fare formazione alle madri al fine di sensibilizzarle in almeno tre ambiti: le buone pratiche per il controllo e monitoraggio dei bambini in cura, la corretta alimentazione per se stesse e per i propri figli, la corretta igiene personale. E quanto ai numeri, l’obiettivo è quello di raggiungere con servizi specialistici di riabilitazione, nel corso dei 2 anni di progetto, almeno 250 bambini dei territori più disagiati della Regione di Mbeya e dei quartieri periferici della metropoli di Dar Es Salaam.

Shine – Sostenere la salute, l’inclusione sociale, l’alimentazione e l’occupazione

Il progetto “Shine”, con il finanziamento dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), si pone l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale delle persone con disabilità in Tanzania, in particolare attraverso il loro inserimento lavorativo, il miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari, il potenziamento dei programmi di alimentazione e in definitiva la loro piena partecipazione, come cittadini, alla vita delle proprie comunità.

Nei 24 mesi di attività si prevedono una molteplicità di attività, indirizzate anche ai bambini con disabilità: dal potenziamento degli ambulatori per la cura dell’epilessia a Mbeya e a Ifataka allo screening sanitario per la malnutrizione nei centri di Mbeya e Dar es Salaam con supporto nutrizionale intensivo con farine e preparati per i bambini che ne avessero necessità. Sono previste azioni di formazione per i caregiver sui temi della malnutrizione e dell’epilessia, e saranno formati alla diagnosi e cura dell’epilessia 20 dirigenti medici provenienti da 10 diverse regioni della Tanzania, che a loro volta formeranno nei rispettivi territori di origine altri 320 medici e operatori sanitari. I protocolli e i modelli di diagnosi e cura dell’epilessia e della malnutrizione saranno anche proposti alle Istituzioni governative competenti per essere replicati sul territorio di tutto il Paese, in modo da ampliare l’impatto concreto. Al contempo, una strategia di formazione e sensibilizzazione contro lo stigma in riferimento a epilessia e disabilità coinvolgerà almeno due milioni di cittadini tanzaniani.

E a proposito di collaborazione con le istituzioni locali, le attività più strettamente legate all’inclusione lavorativa di giovani e adulti con disabilità (affidate al partner CEFA – Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura) coinvolgeranno l’autorità governativa tanzaniana responsabile per la formazione professionale (VETA – Vocational Education and Training Authority) e il Centro formativo Yombo, specializzato nella formazione professionale di soli ragazzi con disabilità: nel concreto si attuano interventi pilota volti a migliorare l’accessibilità al sistema di formazione professionale a Dar es Salaam e Mbeya per le persone con disabilità. Inoltre, l’iniziativa sosterrà attivamente la formazione degli insegnanti, fornendo loro le competenze per promuovere l’inclusione nel sistema educativo, personalizzerà i corsi di formazione professionale e prevederà un servizio di avviamento alla carriera, specifico per ogni studente con disabilità, offrendo corsi di orientamento al lavoro e un periodo di apprendistato in azienda.

Dando qualche numero, parliamo di azioni che toccano 800 minori e giovani adulti con disabilità e in particolare quelli con problemi di epilessia e malnutrizione, residenti nei territori delle Regioni di Mbeya, Morogoro e Dar Es Salaam; 280 caregiver di bambini con disabilità; 28 operatori sanitari della riabilitazione; 340 medici e operatori sanitari; 173 studenti con disabilità presso i centri Yombo e VETA), 215 tra insegnanti e staff dei centri di formazione, 30 datori di lavoro che verranno sensibilizzati sull’inclusione lavorativa e che accoglieranno in apprendistato i ragazzi formati dai centri, 120 funzionari e rappresentanti delle Istituzioni -governative e non- tanzaniane.

Kitenge – I colori dell’inclusione

Si focalizza invece sul supporto all’imprenditorialità femminile e alla riabilitazione su base comunitaria il progetto “Kitenge. I colori dell’inclusione”, realizzato con il finanziamento dalla Provincia Autonoma di Bolzano, in partenariato con “Gondwana Bewusstsein und Solidarität”, e del quale Comunità Solidali nel Mondo ha la gestione e il coordinamento operativo sul territorio. Per migliorare la situazione socio-economica delle famiglie dei minori con disabilità assistiti presso i Centri di riabilitazione “Simama CBR” di Mbeya e “Antonia Verna – Kila Siku” di Dar Es Salaam si agisce per favorire la creazione di gruppi di donne impegnate nella  produzione e commercializzazione di prodotti artigianali locali, anche con la creazione di gruppi di risparmio e di un brand comunitario. Il progetto nasce dall’esperienza del progetto Mikono Yetu a Wanging’ombe e del progetto Ujamaa a Mbeya, in un contesto di coinvolgimento attivo e cooperativo delle comunità coinvolte (sistema della Community Based Rehabilitation), puntando ad un generale miglioramento della qualità di vita dei minori, delle madri, dei caregivers e di tutta la comunità.

Wanawake – Dignità e diritti per le donne

E alla figura della donna guarda anche il progetto “Wanawake – Dignità e diritti per le donne”, realizzato con il finanziamento dell’8 per mille della Chiesa Valdese. Il luogo operativo è il centro “Simama CBR” di Mbeya e le protagoniste sono 15 donne, madri di minori con disabilità assistiti dal Centro. Vengono attivati percorsi di formazione imprenditoriale e viene promossa la creazione di un gruppo di risparmio che permetta alle donne di accedere ai mercati locali: per raggiungere l’obiettivo, si prevede un supporto tecnico-legale per la creazione e la registrazione del gruppo di donne, e poi attività di formazione, acquisto materiali e supporto alla commercializzazione. Sullo sfondo, c’è un’attività di promozione del ruolo della donna nella comunità: una consapevolezza favorita anche dall’attività del Centro Simama nel garantire il benessere sanitario dei minori con disabilità dei quali le donne si prendono cura.

Ma perché dovrei fare un’esperienza in Africa?

Un campo di volontariato, un anno di servizio civile universale, l’opportunità dei corpi civili di pace. Le occasioni per prendere parte all’azione di Comunità Solidali nel Mondo non mancano, ma perché diciamo sempre ai giovani che incontriamo che una fra queste esperienze andrebbe fatta? Perché la consigliamo? E perché, dal suo punto di vista, una ragazza o un ragazzo di 20, 25 o 30 anni dovrebbe imbarcarsi in un’avventura come questa? Quali sono le motivazioni, quali sono gli obiettivi, quali sono anche i vantaggi di una scelta del genere? Insomma, semplicemente: “Ma perché?”.

Ognuno ha le sue risposte personali ma noi proviamo a metterne in fila qualcuna fra quelle che ci sembra possano essere più valide. Quella che consigliamo è un’esperienza che andrebbe fatta perché:

  • Perché ciascuno di noi, anche e forse soprattutto quando ha 20 o 30 anni, sta e vive dentro un sistema di valori e non può sottrarsi alla costruzione di una società che non discrimini e non emargini il più debole;
  • Perché è una risposta concreta alla “globalizzazione” che ci rende più vicini fra noi e ci dà la consapevolezza che nessuno è estraneo al nostro sguardo. Rispetto a 50 anni fa nessuno può dire di non vedere il bisogno, che ci viene messo davanti in ogni momento: e oggi ad avere bisogno sono i due terzi dell’umanità, non una ristretta minoranza.
  • Perché siamo cittadini italiani e l’art. 2 della nostra Costituzione afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo … e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Costituzione non è un testo vecchio utile per qualche discorso del Capo dello Stato: è il patto che unisce noi cittadini. La solidarietà allora non è un affare di pochi. E’ un elemento costitutivo della nostra identità di cittadine e cittadini.
  • Perché è un’occasione per cercare una crescita umana e personale. La relazione fonda l’identità del soggetto, quindi di ciascuno di noi. E’ un elemento essenziale del nostro essere. Quando si vive in un contesto culturale differente dal proprio, quando si fa un’esperienza “esterna”, la relazione è sempre più ricca e sfidante e l’identità personale ne risulta rafforzata. E’ il sentirsi e l’essere “cittadini del mondo”.
  • Perché in molti casi è coerente con la scelta professionale che è stata fatta, e in ogni caso sempre e comunque permette l’acquisizione di competenze personali che sono sicuramente utili nel mondo del lavoro, quale che sia il mestiere e il campo scelto. Ad esempio, per un ragazzo che intende diventare fisioterapista, o già lo è diventato, la scelta professionale di fondo è stata quella di rispondere a chi ha bisogno o a chi non trova risposte al bisogno. Farlo in un’esperienza internazionale rafforza volontà e competenze.

Abbiamo presentato questi cinque punti nel corso di un incontro avuto il 13 marzo 2023 alla Fondazione Santa Lucia di Roma con un gruppo di ragazzi e ragazze del corso di laurea in fisioterapia dell’Università di Tor Vergata: un’occasione preziosa che ci ha permesso di presentare le attività compiute in Africa e il senso profondo del nostro agire. In quella circostanza, grazie ad un collegamento in videoconferenza, abbiamo ascoltato alcune testimonianze da Dar es Salaam e da Mbeya. Fra queste, prendiamo in prestito qui le parole con le quali Valerio Topazio, Project Manager nel programma SIMAMA a Mbeya, si è rivolto alle studentesse e agli studenti del corso di fisioterapia:

“Il consiglio che vorrei darvi è di non perdere l’occasione di fare un’esperienza come questa, particolare, bella, unica nel suo genere, capace di essere rivoluzionaria nel vostro percorso professionale e personale. Noi giovani spesso usciamo dal percorso universitario con l’idea di cercare al più presto il nostro sbocco professionale, di dover per forza conquistare una posizione nella nostra società, e concentrati su questo ci limitiamo, impedendoci di partecipare ad altri programmi ed esperienze. Ma in realtà abbiamo una vita davanti per fare quelle cose, per pensare al lavoro, alla famiglia, ai soldi. Prima di tutto questo, non negatevi un’esperienza di vita come quelle che Comunità Solidali nel Mondo propone”.

E anche il nostro presidente, Michelangelo Chiurchiù, non manca di sottolineare questo aspetto: “Ragazzi, ragazze: avrete tempo per sistemarvi, per lavorare, per inserirvi all’interno della vita professionale. Fare, prima di tutto questo, un’esperienza in Africa vi aiuterà ad avere uno sguardo diverso e vi arricchirà sia dal punto di vista umano sia professionale. Vi aspettiamo!”.

L’8 marzo di Lois fra forza e dolcezza.

Auguri alle donne (oggi e kila siku)

La Festa della Donna ha mille volti. Festeggiata l’8 marzo ad ogni latitudine assume diversi significati: celebrazione, rivendicazione, affermazione ma anche la serena consapevolezza del proprio valore e del proprio contributo all’agire comune di un popolo, di una società e di un luogo. A darci la sua testimonianza in occasione di questa ricorrenza è Lois. Lei ha 27 anni e lavora nel Centro A. Verna Kila Siku da quasi tre anni. E’ una fisioterapista, vive a Dar Es Salaam ma il suo paese di nascita è a quasi 500 chilometri dal centro urbano in cui vive attualmente. Si è spostata per occuparsi dei suoi fratelli più piccoli che studiano all’università e alla scuola superiore e per realizzare il suo obiettivo: diventare fisioterapista. 

Ecco come Lois ha risposto alle nostre domande.

Che cosa ti ha spinto, oltre la prospettiva di un impiego stabile, a fare proprio questo lavoro? 

Ho scelto questo lavoro perché il mio desiderio è quello di dare il mio contributo per migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità che vivono all’interno della mia comunità. In questo modo posso dare un supporto concreto alle loro famiglie, nel mio piccolo mi sembra di dare un contributo importante.

Quali aspettative e quali timori avevi prima di iniziare?

Le aspettative che avevo erano alte: la mia speranza era che le persone che avrei trattato al centro potessero migliorare, acquistando un certo livello di autonomia attraverso gli strumenti e le capacità acquisite con il tempo e l’esercizio e riuscendo così a sentirsi attivi all’interno della comunità. La mia paura principale invece era che fossi una ragazza troppo giovane, fresca di studi all’interno di un ambiente, quello fisioterapico, ancora troppo “maschile”.

Qual è il tuo giorno preferito della settimana? 

Il giorno che preferisco è quello in cui si fanno le valutazioni dei pazienti del centro: è un bel momento di raccoglimento, collaborazione e di confronto. Insieme ci rendiamo conto di quanta strada si è fatta con ogni singola persona e si condividono con genitori e i caregivers gli eventuali progressi e miglioramenti. Non è solo un lavoro clinico ma diventa una valutazione a tutto tondo, si considerano infatti tutti gli aspetti, quello fisioterapico, clinico, psicologico, cognitivo, quello che ne esce è un quadro complessivo della persona accolta in ogni suo aspetto.

Qual è l’aspetto più bello e quale il più difficile nel tuo lavoro?

L’aspetto più bello del mio lavoro è quello di avere a che fare con una moltitudine di persone, soprattutto bambini, ognuno con le proprie necessità e bisogni, e vedere nel piccolo il buono anche nei cambiamenti che sembrano minuscoli. La parte difficile consiste invece nel far capire a genitori e caregivers che è importante continuare la terapia tanto al centro quanto a casa se si vogliono ottenere dei risultati duraturi. È difficile anche fare comprendere come i tempi non vanno per forza accelerati, anzi i progressi richiedono invece molto tempo e costanza, è difficile conquistare la fiducia dei familiari, ma quando si ottiene si arriva a grandi risultati. 

Cosa significa per te essere donna nel tuo paese?

Essere donna è un dono, per quanto ancora sia difficile far riconoscere i propri diritti, libertà e capacità nei diversi contesti, da quello familiare a quello scolastico o lavorativo.  

Quale augurio fai alle donne del tuo paese o alle donne del mondo?

Auguro a tutte le donne tanzaniane e nel mondo di essere e restare sicure di sé, di quello che sono e fanno, di avere il coraggio di rischiare e giocare con la vita senza paura di nulla e nessuno. Oggi le donne possono governare il mondo grazie alla loro forza, determinazione e dolcezza.  

Nelle sue parole ci sono lucidità, consapevolezza, impegno e anche tanta gratitudine. Come quella che dobbiamo a lei e a tutte le donne impegnate a portare avanti, “ogni giorno”, le attività del Centro. Auguri a tutte le donne, oggi e “kila siku”: non solo l’8 marzo, ma ogni giorno.

Il senso moderno di un’istituzione antica: il Servizio Civile.

Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Bisogna custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”.

Papa Francesco

A volte le attività quotidiane proseguono e vanno avanti senza sosta, ed è difficile fermarsi a pensare, a riflettere. Noi, invece, una riflessione vogliamo farla, perché è indispensabile, ed è necessaria. 

La citazione di Papa Francesco con cui abbiamo aperto questo articolo contiene al suo interno molte verità, e una parola potente: servizio. Sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri si legge: “Il servizio civile è impegnarsi in un progetto finalizzato alla difesa non armata e nonviolenta della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, con azioni per le comunità e per il territorio”. 

È solo questo?

Il servizio civile è nato nel 1972 come diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, ed essendo alternativo a questo era obbligatorio. Nel 2001, poi, è stato istituito il servizio civile nazionale su base volontaria, aperto dunque anche alle donne. A seguito dell’eliminazione della leva obbligatoria, il servizio civile è diventato quindi volontario prima e universale poi, con una grande estensione della base a cui l’istituzione è rivolta. 1,2 milioni sono stati i ragazzi e le ragazze che dal 1972 hanno dedicato un anno della loro vita al Servizio civile.

Oggi, dopo cinquant’anni esatti, cosa resta di quel diritto e di quell’esperienza?

È recente la notizia per cui le richieste dei giovani per il bando in corso sono complessivamente superiori ai posti disponibili ma con delle criticità molto visibili. Intanto si registra che alcuni progetti non hanno ricevuto domande e che c’è uno squilibrio di queste ultime verso il Sud Italia, mentre nelle sedi del Nord si fa fatica a coprire i posti disponibili. Inoltre, si teme un fenomeno che si è già verificato in passato e cioè che molti giovani, pur avendo fatto domanda, non si presentino alle selezioni lasciando del tutto scoperte le sedi di servizio (lo scorso anno il fenomeno ha interessato il 15% delle sedi).

Sul punto, riportiamo la riflessione del nostro Presidente, Michelangelo Chiurchiù: “Credo sia necessario fare un passo indietro per poterne fare uno in avanti. Lavorare con impegno e di concerto con il Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile a una campagna capillare di informazione sul servizio civile: molti giovani degli ultimi anni delle superiori e universitari semplicemente non conoscono questa opportunità. Occorre poi cercare di riprendere il senso profondo dell’istituzione. Non molto tempo fa, considerazioni e indicazioni politiche hanno messo l’accento sui concetti di occupabilità e di approccio al mondo del lavoro, mettendoli in relazione con i giovani che sceglievano di fare un’esperienza di servizio civile: questo è fuorviante!

Noi siamo certi che questo non può e non deve essere il punto focale del quadro d’insieme: occorre che l’Istituzione statale di riferimento per il Servizio Civile Universale metta in condizione gli Enti gestori di orientare i giovani nella scelta, anche mettendo in campo risorse economiche adeguate.  Se un giovane sarà aiutato a fare scelte coerenti con le proprie conoscenze, le proprie aspirazioni, i propri valori di riferimento svolgerà un servizio più adeguato per la collettività e ne uscirà arricchito”.  

Noi aggiungiamo che scegliere di proporsi per il Servizio civile universale significa tendere una mano, aprirsi a mondi sconosciuti, spesso difficili, e uscirne migliori, nell’animo e nella mente. Significa ricevere indietro più di quanto si è dato, fare il massimo con le risorse di cui si dispone, essere parte di un grande cambiamento.

Significa, per dirla con le parole di una nostra ex civilista e Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva, Valentina Collina, avere un grande privilegio. Un privilegio che non si può scrivere su un curriculum ma che insegna a vivere, un privilegio fatto di accoglienza, cura, rispetto, ascolto, crescita.

Un privilegio fatto di amore.

Intervista a Vincenzo Giardina: le parole al servizio degli altri.

Giornalista professionista, ha lavorato in Russia e viaggiato in giro per il mondo, soprattutto in Africa. Coordina il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire e tra le sue collaborazioni ci sono Il Venerdì di Repubblica, Internazionale, l’Espresso, Oltremare e Nigrizia. Specializzato sull’Africa e sulla cooperazione allo sviluppo, nei suoi lavori riserva un’attenzione particolare ai temi dei diritti umani, dello sviluppo sostenibile e della lotta contro le disuguaglianze. In Tanzania ha viaggiato con il fotoreporter Marco Palombi e Comunità Solidali nel Mondo, realizzando un reportage consultabile qui.

Vincenzo, come hai conosciuto Comunità Solidali nel Mondo?

Dal 2016 coordino il notiziario internazionale dell’agenzia di stampa Dire e come agenzia di stampa ci è capitato di organizzare alcuni incontri pubblici spesso dedicati all’attualità o comunque a temi di rilievo legati a Paesi dell’Africa o ai Paesi emergenti in generale. Ricordo un appuntamento in particolare che si è tenuto nel mese di settembre del 2020: era un incontro dedicato alla Repubblica democratica del Congo, in occasione dell’anniversario della pubblicazione di un rapporto di riferimento per questioni di carattere umanitario nelle regioni dell’est. In quell’occasione incontrammo e conoscemmo Michelangelo Chiurchiù, il presidente di Comunità Solidali nel Mondo e ci capitò di parlare, di confrontarci. Da allora, appunto, Michelangelo ha condiviso diverse esperienze dell’associazione con noi e anche la rivista INUKA!, così abbiamo iniziato a conoscerci e ad approfondire le varie attività. 

Successivamente, l’interesse che già avevamo verso l’associazione si è amplificato in occasione del riconoscimento del lavoro di Comunità Solidali nel Mondo da parte dell’Accademia dei Lincei, con l’assegnazione del Premio Feltrinelli. Infine, la possibilità di vedere sul campo quello che l’associazione fa ogni giorno e i temi di cui si occupa ci ha consentito un racconto più corretto, più attento rispetto alla condivisione delle motivazioni alla base del riconoscimento dell’Accademia dei Lincei. 

Quella condivisa con la nostra associazione non è stata la tua prima missione in Africa: a livello personale come affronti solitamente i giorni che precedono la partenza per il continente africano? E come vivi quelli successivi, invece?

Ci sono diversi livelli di “preparazione”: uno dei primi è quello molto pratico, organizzativo e riguarda procedure burocratiche come per esempio la richiesta di un visto o la verifica di alcune vaccinazioni o comunque il controllo che tutti i documenti siano in ordine. Poi c’è la definizione di un piano di lavoro legato a un piano di spostamenti che deve essere garantito. Spesso, infatti, muovendosi in Paesi in cui non si risiede è importante avere riferimenti anche da un punto di vista logistico, per essere sicuri di tutti gli spostamenti. Il piano puramente organizzativo si lega, poi, a un piano giornalistico: bisogna fare in modo che queste tappe, questi spostamenti, siano non soltanto sicuri ma anche ragionevoli e sensati dal punto di vista dell’utilizzo del proprio tempo, e che consentano di avvicinarsi a situazioni e interlocutori funzionali agli obiettivi che ci si dà. La valutazione di un piano di missione è sicuramente parte della preparazione. 

Dal punto di vista emotivo, invece, il viaggio di per sé, soprattutto in luoghi che non si conoscono, è un’esperienza in particolare per tutti, che si faccia il giornalista o che si faccia altro. E quindi ci sono viaggi che riescono meglio, altri peggio anche da un punto di vista della partecipazione e della propria apertura rispetto, per esempio, a ciò che si incontra. Non tutti i viaggi sono uguali e non in tutti i viaggi si riesce a essere così aperti e avere anche la capacità di essere più profondi nello sguardo e nella partecipazione. Sicuramente ci sono anche degli elementi personali che si riflettono in tutte le esperienze che si vivono: c’è un vissuto che si esprime nei vari momenti e nel modo di viverli. 

Cosa ha caratterizzato in modo particolare la missione in Africa con la nostra associazione? Che cosa ti ha sorpreso in questa esperienza?

Una delle cose che ci ha colpito di più e che abbiamo anche raccontato in un articolo, è stata la partecipazione e la grande motivazione dei giovani, soprattutto dei ragazzi che stanno svolgendo l’esperienza del Servizio Civile Universale. Sono persone molto motivate, molto determinate e capaci poi di cogliere anche ciò che, egoisticamente e individualmente, si può trarre da un’esperienza del genere. È una cosa bella perché non si tratta soltanto di aiutare qualcuno, ma è chiaro che da quel contesto si prende e si riceve, in termini di esperienza e di arricchimento personale.

Ho notato subito questa consapevolezza: sono ragazzi che lavorano lontani da casa e spesso si confrontano con alcune difficoltà oggettive, dalla corrente elettrica al clima che magari può non essere semplice da sopportare. La sensazione e la consapevolezza, però, sono quelle di vivere un’esperienza preziosa, da cui imparare molto, un’esperienza, oserei dire, in qualche misura da privilegiati. Ho avvertito chiara questa sensazione, di non limitarsi a dare ma ricevere, ricevere molto. E se consideriamo questi ragazzi, di età compresa tra i venti e i trenta, e consideriamo questa loro consapevolezza, beh è qualcosa che incoraggia e fa ben sperare per il futuro.

Si parla di “altra Africa”: è l’Africa che non si conosce, che le persone ignorano, che non viene raccontata in modo adeguato. Nei tuoi reportage, invece, si percepiscono le storie e tutte le sfumature di un continente tanto complesso quanto affascinante. Come ci riesci?

La premessa è che tutti abbiamo delle idee, dei preconcetti, dei pregiudizi o dei modi in cui ci aspettiamo che gli altri o le altre cose appaiano. A questo bisogna aggiungere che il periodo particolare che viviamo e le difficoltà di un settore in sofferenza come quello dell’editoria determinano tempi brevi e il fatto che meno persone devono occuparsi di più cose: tutti questi fattori possono favorire una “semplificazione” o il fatto di seguire sentieri già battuti di cui si conosce già la destinazione. Ho spesso riflettuto con chi si occupa anche di progetti innovativi sui “modi dell’informazione”, e sul fatto che spesso si privilegino le hard news, notizie o fatti in cui a dominare sono gli aspetti negativi: crisi, conflitti, disastri. 

Sicuramente ognuno ha una sua modalità di racconto e sfuggirvi non è semplice. C’è chi sostiene che la notizia è qualcosa che deve sorprendere e stare al di fuori di un tracciato già noto e che altrimenti non è nemmeno notizia. È importante essere critici col proprio lavoro però l’idea di raccontare ciò che si intuisce avere un valore e un significato e che è meno raccontato oppure ignorato, fa pensare che quel tipo di notizia, quel tipo di testimonianza, quella storia possa e debba essere condivisa.

Nel mondo le notizie sono un’infinità, quindi la scelta è già di per sé un arbitrio: bisogna essere molto attenti nella scelta e procedere con occhi attenti e curiosi. 

In un tuo recente articolo hai parlato del ruolo dei media e di come siano capaci di influenzare la “macchina” degli aiuti umanitari. Anche per questo il tuo impegno è spesso a favore di realtà che, non essendo giganti della cooperazione, fanno fatica a ritagliarsi uno spazio per raccontare e comunicare al grande pubblico?

Ogni giornalista ha il compito di verificare, di garantire la completezza, l’equilibrio, l’onestà e l’accuratezza della notizia. Penso che sia giusto provare a concentrarsi su aspetti di rilievo, aspetti che meritano attenzione rispetto a temi che magari per un lettore possono essere divertenti però non hanno la capacità di sollevare temi rilevanti. C’è tanta attenzione su realtà associative di grosse dimensioni e quindi naturalmente la stampa o la televisione ne parlano e le raccontano. C’è, però, anche una miriade di piccole e medie associazioni che soffrono una scarsa visibilità, non intesa come visibilità per dar lustro all’associazione, ma semplicemente perché parlando dell’associazione e di quello che fa, l’associazione può poi avere più strumenti per farlo meglio. Nel racconto giornalistico l’attenzione può e deve essere posta anche su queste realtà in modo da favorire la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e aprire la strada anche a un intervento da parte dei decisori politici, facendo conoscere a più persone possibili queste attività fondamentali e tanto importanti.

Ringraziamo Vincenzo per il tempo dedicato a questa intervista e per descritto volti, luoghi, emozioni e speranze della grande famiglia di Comunità Solidali nel Mondo con parole tanto delicate quanto forti e dense di significato, restituendo un ritratto della Tanzania che porteremo nel cuore per molto tempo.

Sempre avanti con il Programma Epilessia

La particolare rilevanza del modo di concepire la cooperazione e la solidarietà internazionale, rispondendo ai bisogni sanitari più urgenti dei Paesi del sud del Mondo, partecipando così al raggiungimento di un importante obiettivo dei Millennium Development Goals: assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età”

Con queste parole il Presidente dell’Accademia dei Lincei, il Prof. Roberto Antonelli, motivava l’assegnazione avvenuta lo scorso anno del Premio Antonio Feltrinelli 2021 al nostro progetto ‘L’epilessia: la speranza della normalità’. Parole, queste, che non potevano lasciarci indifferenti perché toccavano il senso profondo del nostro impegno quotidiano. 

Un senso e un metodo che sono comuni a tutto il nostro percorso: grazie ai risultati ottenuti con i programmi Inuka, Simama e Kila Siku, grazie alla presenza continua e costante della nostra associazione sul territorio, nel contesto tanzaniano, e grazie al tipo di approccio utilizzato in tutti questi anni (community-based rehabilitation – CBR), è stato per noi possibile arrivare a strutturare un programma di gestione dell’epilessia tanto valido da permetterci di ricevere un premio importante ma soprattutto di veder riconosciuto il ruolo svolto nei programmi di cooperazione internazionale e l’importanza che riveste.

Nell’Africa subsahariana, la Tanzania mostra una delle più alte prevalenze di epilessia (430-480 casi / 100.000 persone) e nelle aree rurali del Paese il numero di persone colpite da questa malattia può essere addirittura da due a otto volte superiore. Particolarmente preoccupante è, poi, il divario di trattamento che nelle zone rurali si stima tra il 40% e il 90%.

Le cause di una situazione così difficile da gestire sono molte, e di varia natura: si va dalla capacità limitata di affrontare il problema da parte dei sistemi sanitari fragili e della distribuzione ineguale delle risorse, alla mancanza o grave carenza di operatori sanitari adeguatamente formati, allo stigma che marchia queste famiglie, per arrivare alla povertà e all’accesso inadeguato ai farmaci.

Il programma di cooperazione internazionale Daima Mbele! – Sempre Avanti si propone proprio di creare un protocollo per la gestione dell’epilessia in Tanzania in grado di costituire un punto di riferimento per l’elaborazione del Piano Strategico Nazionale della Salute e lavora su tre aree di intervento:

a) clinica

b) di formazione 

c) di sensibilizzazione.

Il programma prevede l’apertura di tre cliniche per il trattamento dell’epilessia di bambini con disabilità in Tanzania all’interno dell’Ospedale di riferimento regionale di Ifakara presso il St. Francis Regional Referral Hospital, quello di Wanging’Ombe dell’Inuka Rehabilitation Hospital e di Mbeya presso i Simama Rehabilitation Centers. Nello stesso tempo, è prevista anche la formazione e qualificazione del personale sia per la diagnosi e cura dell’epilessia che per l’adozione di strategie efficaci per combattere lo stigma.

Uno sforzo condiviso, uno slancio d’amore e di cura per farsi carico di situazioni complesse, da gestire con i giusti mezzi e con le giuste capacità: per scoprire tutti i dettagli del programma è possibile visitare la pagina dedicata qui.

Grazie di cuore!

Intervista a Marco Palombi, fotografo in missione.

Fotoreporter romano, dagli anni ’90 viaggia per raccogliere immagini e video per i suoi reportage dal mondo. Le minoranze etniche, i popoli nomadi e i contrasti tra occidente ed oriente diventano il fulcro della sua ricerca fotografica. Dal 2007 pubblica i suoi reportage su La Repubblica e La Stampa”. Tra gli ultimi paesi documentati: Haiti, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Ecuador, Nicaragua, Mali, Burkina Faso, Libano, Iran, Oman, Irak, Kazakistan,  Kirghizistan, Tagikistan, Siria, Etiopia e Niger. Per Comunità Solidali nel Mondo ha realizzato i reportage della missione in Tanzania insieme al giornalista Vincenzo Giardina, consultabili qui.

Marco, come hai conosciuto Comunità Solidali nel Mondo?

Quando Vincenzo Giardina, il giornalista che ha condiviso con me l’esperienza in Tanzania, mi ha parlato per la prima volta dell’associazione ancora non conoscevo nulla di voi. Mi è, però, bastato davvero poco per capire: ho approfondito i racconti dei vostri progetti sul sito e sui social, e ho parlato con il vostro Presidente che ha arricchito quei racconti già toccanti, rendendoli impossibili da lasciarseli scivolare addosso. Ho accettato subito la proposta del viaggio perché ho capito che erano cose belle, cose importanti, e insieme a Vincenzo ho deciso di partire per la missione. La cosa che mi ha colpito di più di Comunità Solidali nel Mondo è il lavoro fatto con passione, fatto con il cuore, dedicandosi alle persone più fragili. Avevo già lavorato, molti anni fa, in situazioni simili legate alla disabilità ma ero in Kazakistan e la mia sensazione è che lavorare in questi ambiti nel continente africano sia ancora più complesso. 

Cosa ti ha lasciato di diverso l’esperienza in Tanzania rispetto ad  altri viaggi reportage a cui hai lavorato? E a livello umano, personale, cosa hai imparato da questa missione?

Come dicevo prima, lavorare in certi contesti in Africa è complicato. Mi è capitato spesso di trovarmi in zone ancora più difficili della Tanzania dal punto di vista della sicurezza, come per esempio la Repubblica Democratica del Congo, la Somalia, il Niger, il Sudan o il Burundi. Immaginavo la Tanzania come un Paese più tranquillo e più stabile dal punto di vista economico, politico e sociale. Tuttavia, trovarmi lì, sul campo, a contatto con realtà di disabilità infantile è stata una grande emozione, un’emozione continua. Il lavoro di un’associazione come Comunità Solidali nel Mondo mi ha impressionato: i fisioterapisti locali con il loro impegno costante e i ragazzi del Servizio Civile con i loro racconti mi hanno regalato un’esperienza che non dimenticherò facilmente. Ricordo, in particolare un episodio: ho visto con i miei occhi la zia di un bambino disabile senza più genitori fare chilometri su chilometri nelle montagne vicine a Mbeya per portare il bambino al centro gestito dall’associazione, e i ragazzi mi hanno raccontato che lo fa da anni.

Episodi come questo mi hanno fatto capire che nulla è impossibile, che tutto si può fare se ci sono forza e volontà. Penso ai nostri giovani che hanno tutto, troppo, e non si accontentano mai e immagino quanto bene potrebbe e può fargli un’esperienza come quella del Servizio Civile.

Secondo te è possibile “utilizzare” la fotografia come mezzo di riscatto, aiutando le persone a recuperare una nuova dimensione di sé?

Per me la fotografia è un mezzo importante di espressione e di comunicazione che può, innanzitutto, essere utile a capire sé stessi. Però credo anche che sia importante testimoniare. o denunciare cose che non sono giuste, che non vanno bene, situazioni di soprusi nei confronti dei più deboli. Questa domanda mi fa tornare in mente un vecchio progetto che avrei voluto realizzare ma che purtroppo non ho ancora organizzato: mi sarebbe piaciuto donare ai bambini una macchinetta fotografica. Sarebbe stato bellissimo mostrare il loro punto di vista tutto particolare sulle cose, e fargli raccontare delle storie. Con la fantasia e la creatività che sono proprie di quella età e di quella visione del mondo. 

Quanto conta saper guardare con gli occhi altrui? Ci riferiamo, in particolare, all’esigenza di immaginare le reazioni degli altri dinanzi a scatti rappresentativi di contesti che necessitano di una particolare sensibilità per essere compresi a fondo.

Per me è fondamentale, quando si entra in un contesto di vulnerabilità e difficoltà e bisogna scattare, fare la conoscenza dei luoghi e delle persone che li abitano. Prima di scattare o di girare, la cosa che conta è comprendere la vita di chi sto fotografando, la storia, il passato, quello che vive. Prima di scattare chiedo il permesso, e con voi il processo è stato impeccabile. Ho conosciuto persone dello staff, locale e non, che hanno saputo indirizzarmi, e che erano preparate a creare la giusta situazione per ritrarre volti, storie, sguardi. A volte, in altre situazioni, mi sono sentito spaesato ma questa volta non è successo. Conoscere significa entrare in sintonia, e riuscire a raccontare meglio. Spesso le mie foto non sono foto “semplici”, e a ciò si aggiunge anche la circostanza relativa al fatto che talvolta ritraggo dei bambini. In questi casi le difficoltà si triplicano ed è necessario porvi rimedio subito perché se non si chiariscono alcuni aspetti all’inizio è poi impossibile recuperare in corsa. Cerco di lavorare con rispetto e di riconoscere chi ha voglia o bisogno di raccontarsi. Quello che ricorderò sempre di questo viaggio sono gli sguardi di chi si è conosciuto e riconosciuto nelle mie immagini, perché solo con un lavoro preliminare di questo tipo la fotografia può essere utile a qualcosa e assolvere il suo compito.

Ringraziamo Marco per il tempo dedicato a questa intervista ma ancor più per la grande passione che ha riversato nel suo viaggio in Tanzania e nel racconto di Comunità Solidali nel Mondo.

Cooperazione internazionale: programmi e progetti solidali.

Cosa significa portare avanti un programma di cooperazione internazionale?

Sappiamo bene che a volte è complesso comprendere fino in fondo le tante attività di cui si occupano i nostri centri in Tanzania, per questo abbiamo pensato di riunirle tutte in un racconto trasparente delle nostre visioni di cura e supporto.

Partiamo dalla fine ovvero dall’ultimo programma nato in ordine di tempo.

Daima Mbele! – Sempre Avanti

Programma Epilessia

È un programma di cooperazione internazionale che si propone di creare un protocollo per la gestione dell’epilessia in Tanzania capace di costituire un punto di riferimento per l’elaborazione del Piano Strategico Nazionale della Salute.

Il programma lavora su tre aree di intervento (clinica, di formazione e di sensibilizzazione), prevedendo l’avvio di tre ambulatori a Ifakara, Wangin’gombe e Mbeya per il trattamento dell’epilessia. Lo scopo è formare a vari livelli tutti coloro che nel Paese dovranno occuparsi di epilessia e combattere lo stigma e i pregiudizi sulla malattia. Il progetto in corso Beati i Misericordiosi, con due dei tre ambulatori, si prefigge di fornire gli strumenti necessari alla cura dei pazienti epilettici, portando avanti una strategia formativa in 10 regioni della Tanzania, in partenariato con la ST. Francis University College of Health and Allied Sciences di Ifakara.

Programma Kila Siku

Ogni giorno

Si occupa di bambini e adolescenti con disabilità nella regione di Dar Es Salaam, nella zona orientale della Tanzania (Africa), attraverso percorsi di riabilitazione medico-sanitaria. Abbiamo raccontato molte volte le storie dal centro Kila Siku, perché sono centinaia i bambini che nel corso degli anni hanno visto migliorare la propria situazione grazie alla permanenza nel centro e alla cura degli operatori e dei cooperanti. Una palestra, studi medici, uffici e aule: tutto quello che è all’interno del centro è dedicato non solo alla cura dei piccoli pazienti ma anche alla formazione del personale, per garantire un’assistenza sempre più qualificata. 

All’interno del programma Kila Siku è in corso il progetto “La strada insieme”, incentrato sulla malnutrizione e sulla necessità di combatterla ed eliminarla. Sappiamo quanto sia importante il ruolo della nutrizione soprattutto per bambini che soffrono di disabilità ed è per questo che ce ne occupiamo nel Centro grazie a screening nutrizionali e sanitari mirati a identificarla sin dai primi stadi.

Programma Simama

In piedi

Il programma, operativo nella regione di Mbeya, a sud-ovest della Tanzania si fonda sulla riabilitazione motoria e cognitiva per bambini con disabilità. Ha come obiettivo quello di supportarli, insieme alle loro famiglie, grazie all’inclusione scolastica, al supporto psicologico e alla formazione sulla disabilità. Dal 2013, anno in cui è stato avviato, Simama ha preso in carico circa 550 bambini. “Un pane buono” e “Beati i Misericordiosi” sono i due progetti in corso di Simama che mirano, rispettivamente, a offrire un supporto ai centri SIMAMA nella regione di Mbeya (incrementando le attività formative e sostenendo le attività domiciliari per le famiglie) e a rendere i Centri Simama CBR strutture idonee per l’individuazione e il trattamento della malnutrizione a diversi livelli di gravità. 

Programma INUKA

Alza la Testa

INUKA, da cui tutto è iniziato nel 2007 e da cui prende il nome anche la nostra rivista semestrale, è un programma a favore di bambini e adolescenti con disabilità che si ispira alla Riabilitazione su Base Comunitaria, in partenariato con la Diocesi di Njombe e il Governo Tanzaniano. INUKA rappresenta la nostra “prima pietra”, con i primi passi mossi in un centro diurno a Wanging’ombe, un villaggio rurale nella regione di Njombe. Oggi possiamo dire con orgoglio e commozione che INUKA è, per tutti, il centro di Riabilitazione di riferimento, tanto da essere riconosciuto dalla Tanzania come struttura sanitaria a tutti gli effetti.

Formazione, sensibilizzazione, riabilitazione, inclusione: sono tanti i principi che ci guidano nel percorso costante di cura e assistenza ai bambini con disabilità e alle loro famiglie. Programmi e progetti che, seppure con delle differenze, hanno in comune due tratti distintivi: l’utilizzo del modello CBR – Community Based Rehabilitation che pone l’accento su uno sviluppo inclusivo basato sulla comunità di appartenenza per considerare la persona sempre come una risorsa e l’amore per chi si fida di noi e a noi si affida.

La metà di un anno da ricordare.

Quando si pensa ai resoconti e ai bilanci solitamente si aspetta la fine dell’anno: noi, però, in questi primi sei mesi del 2022 abbiamo vissuto talmente tante emozioni che abbiamo pensato di fare una pausa per raccontarle e per ripercorrerle insieme.

È stato un anno che si è aperto sulla scia del Premio Feltrinelli, assegnato alla fine del 2021 con una cerimonia che ci ha fatto commuovere e che ha visto valorizzato l’impegno di tanti collaboratori nel corso di molti mesi. Il progetto “L’epilessia: la speranza della normalità” è stato premiato per la capacità di rispondere ai bisogni sanitari più urgenti dei Paesi del sud del Mondo. Ed è proprio questo l’obiettivo che ci poniamo con Daima Mbele! – Sempre Avanti, il programma di cooperazione internazionale che si propone di creare un protocollo per la gestione dell’epilessia in Tanzania. 

Un progetto a cui si lega anche la nostra campagna del 5×1000, ancora in corso, “Diamo un nome al tuo 5×1000”. È una campagna che ha alle spalle nomi e storie di bambini e famiglie che ogni giorno si trovano a dover fronteggiare situazioni più grandi delle capacità dei singoli, situazioni che possiamo gestire e migliorare solo insieme.

Così come facciamo nel centro A. Verna Kila Siku di Daar Es Salaam, che da gennaio a giugno ha registrato 78 nuovi bambini, portando così il totale a 588. Non sono solo i numeri a fare la differenza ma vanno ricordati quando è necessario misurare il percorso fatto, capire quali traguardi sono stati raggiunti e tracciare la strada ancora da compiere.

Una strada che quest’anno ha avuto due compagni di viaggio davvero speciali, il giornalista Vincenzo Giardina e il fotoreporter Marco Palombi, che nel mese di maggio hanno attraversato luoghi, volti e storie della nostra Tanzania, dando poi vita a un reportage straordinario consultabile qui.

È stato un anno che ha salutato da pochi giorni il gruppo di ragazzi e ragazze impegnati nel Servizio Civile Universale, al termine di un’esperienza di grande valore personale e professionale. Un’esperienza che farà da traino anche al nuovo gruppo, in arrivo tra qualche settimana e che presto impareremo a conoscere. Un team che cresce e si arricchisce di nuove professionalità, come è successo al programma Simama di Mbeya, che nel 2022 ha registrato l’arrivo in organico di un nuovo coordinatore e di un nuovo fisioterapista, due figure professionali che hanno consentito di organizzare e incrementare la qualità del servizio offerto alla comunità.

Prima della pausa estiva il nostro pensiero va a tutti questi avvenimenti e a queste buone notizie, e ci dà la spinta per raccogliere idee e pensieri per un mese di settembre che sarà un nuovo inizio, tutto da scrivere.

Foto di copertina: Pietro Masturzo.

Intervista a Francesco Di Rosa.

Francesco Di Rosa ricopre il ruolo di primo oboe solista nell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È considerato uno dei migliori oboisti del panorama internazionale ed è stato Primo oboe solista dell’Orchestra del Teatro alla Scala e Vice Presidente della Filarmonica della Scala, ha suonato nelle sale da concerto più prestigiose del mondo ed è stato diretto dai più celebri direttori d’orchestra (tra gli altri Abbado, Muti, Barenboim,Giulini). Insegna oboe ai corsi di perfezionamento dell’Accademia di Santa Cecilia e All’Accademia Filarmonica di Bologna.

Quest’anno abbiamo condiviso con lui un percorso di collaborazione e di conoscenza, che lo ha portato a sostenere la nostra campagna “Diamo un nome al tuo 5×1000” e in generale tutte le nostre attività. Lo abbiamo intervistato e quello che emerge è il ritratto di un artista e di un uomo di grande sensibilità e partecipazione.

Francesco, cosa significa per te la parola “solidarietà”?

Per me la parola solidarietà ha un senso profondo che racchiuderei in questo: esprimere solidarietà significa riuscire a comprendere i bisogni altrui e dare un aiuto concreto a chi ne ha bisogno. Si tratta di un principio fondamentale per una serena e giusta convivenza all’interno di una collettività.

Sei socio fondatore del movimento Musicians for Human Rights e della Human Rights Orchestra: qual è il ruolo della musica nell’aiutare chi ha più bisogno?

La musica con il suo linguaggio universale comunica grandi emozioni, non fa distinzioni, arriva a tutti nelle sue più svariate forme, e diventa uno strumento eccezionale per sensibilizzare le coscienze e portare messaggi di alto profilo sociale politico e umanitario.

I concerti della Human Rights Orchestra, per esempio, oltre a raccogliere fondi per scopi benefici sensibilizzano il pubblico verso la difesa dei diritti di tutte quelle persone che sono ai margini della società. In questo senso, dunque, la musica svolge un ruolo che riesce davvero ad andare oltre ogni confine e barriera.

Come insegnante di oboe ai corsi di perfezionamento dell’Accademia di Santa Cecilia e dell’Accademia Filarmonica di Bologna hai modo di confrontarti con le generazioni più giovani. In cosa si differenzia, per quella che è la tua esperienza, l’impegno a favore degli altri tra ragazzi e adulti?

La maggior parte dei miei giovani studenti ha un grande cuore e una grande sensibilità. È un tratto che li distingue subito e me ne sono accorto in tanti modi: per esempio, ogni volta che li ho coinvolti in progetti di natura sociale si sono sempre fatti in quattro. Per loro essere solidali è spontaneo e naturale, non è mai un gesto forzato o ragionato.

Come hai conosciuto Comunità Solidali nel Mondo e cosa ti ha spinto a supportare la nostra campagna 5×1000 del 2022 e in generale tutte le attività della nostra associazione?

Conosco benissimo il Fondatore e Presidente dell’associazione, siamo entrambi originari di Montegranaro, un piccolo paese nelle Marche. Grazie a lui ho avuto modo nel corso del tempo di approfondire da vicino l’attività dell’associazione, e tutti i progetti che ha realizzato e che porta avanti. Conoscerla dall’interno mi ha, inoltre, mostrato con chiarezza quanto sia seria e trasparente, e per tutte queste ragioni ho accettato con grande gioia di supportare le attività di Comunità Solidali nel Mondo.

Ringraziamo Francesco per il supporto, per il tempo, per la partecipazione, e per essersi messo al servizio dei nostri progetti di solidarietà. 

Raccontare la Tanzania: la storia di Federica.

Nelle ultime settimane abbiamo imparato a conoscere il Paese che ci ospita, la Tanzania, percorrendo un percorso fatto di storia, politica, società. Siamo partiti dalle origini e arrivati ai tempi moderni, esplorando popoli e personaggi che hanno reso la Tanzania il luogo che è oggi. Per concludere questo viaggio, però, abbiamo pensato che non poteva mancare un racconto più intimo, tutto nostro: ecco perché oggi vi presentiamo la terza tappa, una tappa finale che non si può trovare sui libri di storia, con orgoglio e commozione. 

È la Tanzania che ci racconta Federica, nostra cooperante a Mbeya, che pochi giorni fa ha concluso la sua esperienza lavorativa con la nostra associazione. È lei che ringraziamo per tutto il supporto e l’amore di questi anni, e per averci restituito un’immagine viva, colorata e bellissima di questo Paese.

“Sono arrivata in Tanzania per la prima volta nel 2016. Qui tutto si amplifica: emozioni, paesaggi, saluti come le strette di mano, un vero rituale, con i movimenti in su e in giù e le mani che rimangono lì a stringersi fino a quando non si finisce di parlare, come a cercare una connessione maggiore. Al termine del Servizio Civile, nel 2017, lessi Ebano di Kapuscinski: la sua descrizione della percezione del tempo mi fece tornare sul Daladala o bus, aspettando di arrivare a destinazione, senza sapere quando sarei partita o quando sarei arrivata. Qui l’attesa è passiva solo apparentemente, ma attiva in modo diverso da quello che siamo abituati a vivere e a sperimentare.

Il nostro approccio, quello europeo ma in generale quello occidentale, è legato al tempo impiegato per fare qualcosa di concreto, di produttivo: restare due ore al centro per aspettare i bambini con le loro mamme a volte è così difficile perché il pensiero è che stiamo “perdendo” tempo, qualsiasi cosa perdere tempo significhi. Invece qui si aspetta, si chiacchiera, ci si conosce e l’attesa diventa un momento significativo anche senza fare nulla di concreto. Questa è, per me, una delle cose più belle e anche una di quelle che dimentico più facilmente: sono sempre in movimento, sempre di fretta. Poi, però, mi ricordo di godermi l’attesa, di conoscere la persona che fa la fila con me, di parlare con la bibi (nonna) al mercato.

Una delle cose che mi piace di più, e che tutte le persone della mia famiglia che sono venute a trovarmi hanno notato con positiva meraviglia, è che qui quando incroci qualcuno per strada lo saluti. E non lo saluti perché lo conosci o perché si tratta di un amico o di un vicino di casa. Ci si guarda, ci si sorride, ci si saluta, ci si augura buona giornata. Le strade si incrociano e i legami, le connessioni, si creano e durano l’attimo del saluto, dello sguardo, del sorriso. 

Per me la Tanzania è casa. E in tutti questi anni ho avuto la fortuna di conoscere tante realtà, sia del continente africano (anche se in piccola parte) che, soprattutto, della Tanzania. Lo stereotipo vuole che il continente africano sia e debba essere povero, con villaggi senz’acqua e senza trasporti e bambini abbandonati per strada. Invece, la Tanzania è tanto altro: in alcuni luoghi il progresso corre veloce e si sviluppa, continuando a crescere in maniera esponenziale. I villaggi, certo, ci sono ancora, così come le strade non asfaltate, l’acqua corrente pulita non presente nella maggior parte delle case, e le difficoltà economiche, comprese quelle legate a un sistema sanitario basato sulle assicurazioni che rende difficile l’accessibilità ai servizi primari. 

D’altro canto, però, la palestra che frequentavo era piena di attrezzi, esattamente come quelle italiane, e il corso di step coreografico delle 18 era preso d’assalto da tanta gente che aveva bisogno di fare movimento dopo una giornata in ufficio. 

Lo smartphone è sempre presente, in tutti i momenti della giornata e Instagram è uno dei social più utilizzati per conoscersi e scambiarsi informazioni, tanto da essere usato addirittura dal Ministero della Salute Tanzaniana per diffondere comunicazioni e consigli sulla salute. 

In Tanzania, il turismo locale sta diventando una parte sempre più importante della vita quotidiana e il fine settimana o i giorni di festa diventano un’opportunità per conoscere il proprio Paese e visitare nuovi luoghi.  E se da un lato in alcuni aspetti si pone l’attenzione sul “copiare” l’occidente, o si segue il modello americano, a mio parere in tanti altri la Tanzania si sta sviluppando seguendo la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria personalità, così come accade in tanti altri Paesi nel mondo. 

Per esempio, in Tanzania il cibo delle feste, paragonabile alla nostra lasagna, è il pilau, il riso speziato. E quando è festa il pilau è il piatto di tutte le famiglie, indipendentemente dalla classe sociale a cui appartengono. 

Quando si entra in un ufficio governativo, o si partecipa a un incontro con una figura istituzionale, la cosa più importante è sempre dare la mano e salutare almeno per i primi cinque minuti (non importa se tu sia il Presidente della Regione o una persona qualunque, è importante, prima di una qualsiasi conversazione o prima di comprare una banana, chiedere come va la giornata, il lavoro, la salute, la famiglia). 

Inoltre, la conoscenza e l’amicizia con persone locali sviluppate negli anni scorsi mi ha permesso di poter prendere parte a eventi per cui mi sono sentita molto fortunata. Una coppia di miei amici, di una classe sociale medio-alta/alta, lo scorso anno è riuscita a organizzare il loro engagement party, dopo ben sei anni di fidanzamento. Hanno atteso così tanto perché lui non aveva avuto prima la possibilità di pagare la dote di lei alla famiglia. Mi hanno invitata a partecipare a questo incontro, a cui erano presenti i familiari maschi di lei, lo zio di lui, la mamma, le sorelle e la zia. Eravamo tutti seduti nel salone di casa e non solo ero l’unica “mzungu“(straniera), ma ero l’unica persona che non faceva parte della famiglia.

Ci siamo tutti presentati, e poi lo zio di Cosmas lo ha presentato ufficialmente alla famiglia di Stella. Tutti si conoscevano già da anni ma da tradizione quando c’è l’ufficialità del pagamento della dote e quindi del matrimonio le presentazioni devono essere ufficiali e i discorsi abbastanza lunghi da sottolinearne l’importanza.  

Infine, come la tradizione Kienyekyusa vuole (kienyekyusa è una delle etnie della regione di Mbeya), abbiamo tutti mangiato insieme, tanto pilau appunto, carne (non può mancare nei giorni importanti) e ovviamente kachumbali, perché pomodori, cipolle e cetrioli sono sempre buonissimi!”

Ringraziamo Federica per averci fatto viaggiare con la fantasia, per averci raccontato e permesso di vivere la “vera” Tanzania, e per tutto quello che ha dato a Comunità Solidali nel Mondo e alle persone incontrate nel tempo.

Grazie Federica!

Raccontare la Tanzania: seconda parte.

Nello scorso appuntamento con il nostro viaggio nel meraviglioso Paese che ci ospita, la Tanzania, abbiamo affrontato tutte le tappe di un lungo excursus nella storia e nella politica tanzaniana, dalle origini fino al secondo conflitto mondiale. Oggi facciamo qualche passo in più, per scoprire cosa è successo fino ai giorni nostri.

Abbiamo lasciato la Tanzania sotto il controllo della Gran Bretagna: la svolta avviene nel 1954 quando Julius Nyerere, un istitutore cattolico, crea la TANU (Tanganyika African National Union). 

Qualche anno dopo, nel 1960, vince le elezioni e diventa Primo Ministro: la Tanzania conquista la sua indipendenza l’anno seguente e Nyerere diventa la personalità più famosa e importante del Paese in questa sua nuova veste. 

Parallelamente, Zanzibar è al centro di grossi sconvolgimenti: ottiene l’indipendenza due anni dopo, nel 1963, scoppiano molti tumulti e il sultano deve fuggire. Così, nel 1964 Tanganica e Zanzibar si uniscono e formano la Repubblica Unita di Tanzania.

Nyerere ebbe tra i suoi obiettivi quello di riformare la società tanzaniana nel suo profondo, cercando di sganciarne abitudini e impostazioni legate agli effetti del colonialismo: il suo progetto di rinnovamento, che interessava tutte le sfere della vita pubblica, da quella culturale alla politica, prese il nome di Ujamaa che in swahili significa “famiglia estesa”. 

Il Presidente sosteneva, infatti, che l’urbanizzazione, figlia del colonialismo, aveva influenzato negativamente la tradizionale società rurale africana ed ebbe come obiettivo primario, da perseguire con lui al potere, quello di ristabilire comunità agricole e tradizionali, per recuperare un approccio di rispetto reciproco e il ritorno a una vita stabile, ponendo il villaggio rurale come unità fondamentale della società e dell’economia del Paese. 

Il desiderio più forte di Nyerere era, infatti, quello di portare la Tanzania all’autosufficienza, posizionandola come esempio di socialismo africano in contrapposizione con il vicino stato del Kenya, che invece correva veloce verso la logica del capitalismo internazionale.

Julius Nyerere, oltre a essere stato il Primo presidente, fu un teorico del socialismo africano e la Tanzania sotto la guida ebbe appunto un impostazione socialista. Decise di ritirarsi in occasione delle elezioni presidenziali del 1985 ma continuò comunque a esercitare una forte influenza sulla vita politica tanzaniana fino alla sua morte, avvenuta nel 1999.

Oggi il Presidente della Tanzania è una donna, Samia Suluhu Hassan, esponente politico del Partito della Rivoluzione: ha sostituito il precedente presidente, John Magufuli, scomparso il 17 marzo 2021.

Nel prossimo e ultimo racconto della Tanzania avremo una testimonianza davvero speciale, che di questo straordinario Paese ci farà scoprire tante cose da ricordare.

Essere un fisioterapista in Tanzania.

La nostra associazione, con i suoi progetti, i centri, le persone, ha tante anime diverse. Conoscerle è sempre molto stimolante perché restituisce la grande passione che ognuno dei collaboratori o dei cooperanti mette nel lavoro di ogni giorno.

Per questo siamo felici di ospitare sulle pagine del nostro blog l’intervista che Martina, cooperante del Centro Antonia Verna Kila SIku, ha fatto a Joseph Msaka, fisioterapista e responsabile del dipartimento di Outreach del centro: un’intervista che fotografa la situazione attuale in tema di riabilitazione e diritti delle persone con disabilità in Tanzania.

Ciao Joseph, innanzitutto grazie per aver accettato di prendere parte a quest’intervista. Iniziamo subito con una curiosità: quando e perché hai deciso di diventare fisioterapista? La domanda nasce dal fatto che, contrariamente a quanto si possa credere, la tua non è una scelta convenzionale nel contesto tanzaniano. Secondo le ricerche, infatti, l’unico centro di formazione con percorso universitario presente in Tanzania si trova a Moshi, nel nord del Paese, e riesce a preparare non più di 35/40 fisioterapisti e terapisti occupazionali ogni anno, un numero davvero irrisorio per le necessità del territorio.

Nell’ultimo anno di liceo ho partecipato a un progetto di ricerca sul tema della malaria: grazie a quella esperienza, nel corso del tirocinio all’interno dell’ospedale ho conosciuto un fisioterapista, ed è stato uno di quegli incontri che ti cambiano la vita per sempre. Mi sono appassionato e ho iniziato a seguirlo, a osservarlo sul lavoro ogni volta che potevo. Mi è stato da subito chiaro che questa sarebbe stata la mia professione e così, quando mi ritrovai a scegliere l’ università a cui iscrivermi, non ho avuto dubbi. 

Prima di venire a lavorare nel centro Verna hai fatto parte del team di fisioterapisti della squadra di calcio Simba, una delle più titolate del Paese. Perché hai deciso di lasciare l’incarico e intraprendere il percorso per diventare fisioterapista pediatrico?

Ho lavorato con la squadra per circa un anno ed è stata un’esperienza molto gratificante e arricchente che mi rende ancora oggi orgoglioso e che mi ha permesso di crescere e raggiungere un traguardo importante per la mia carriera. Tuttavia, non era abbastanza e non mi sentivo pienamente realizzato, poiché da sempre nutrivo il sogno e il desiderio di lavorare con i bambini. La relazione che si instaura con loro va ben al di là del rapporto fisioterapista-paziente e vedere gli enormi risultati che si possono raggiungere insieme con la riabilitazione mi rigenera e allo stesso tempo rappresenta per me una grande spinta motivazionale a migliorare sempre di più le mie competenze, dandomi prova che la scelta di cambiare è stata quella giusta.

Nel Centro Verna ci confrontiamo ogni giorno con moltissime tipologie di disabilità per le quali la fisioterapia gioca un ruolo chiave, soprattutto nella gestione di patologie complesse che se non trattate in modo opportuno e corretto tendono a cronicizzare. In un contesto difficile come il nostro, in cui spesso ci si scontra con la mancanza di risorse e di sensibilizzazione sul tema della disabilità, cosa significa per te praticare, diffondere ed educare all’importanza della fisioterapia? 

Molti medici e professionisti sanitari del settore non riconoscono ancora il ruolo della fisioterapia nella prevenzione, cura e riabilitazione del paziente per il recupero funzionale di molte disabilità. Tale lacuna nell’assistenza e nel trattamento di determinate patologie favorisce il cronicizzarsi di alcune condizioni cliniche altrimenti curabili, soprattutto in ambito pediatrico.

Credo che in un Paese dove il servizio sanitario è carente e rimane accessibile solo a pochi eletti, la fisioterapia e la tempestiva presa in carico dell’individuo con disabilità a opera di strutture come la nostra sia fondamentale, anche per ragioni economiche. Sostenere le spese per la riabilitazione dei figli in ambito ospedaliero, infatti, può essere molto oneroso ed è inevitabile che le famiglie si trovino costrette a compiere un’amara scelta, preferendo garantire le terapie ritenute “essenziali”, a discapito della fisioterapia.

Aumentare la consapevolezza sull’importanza del nostro ruolo sanitario e comunitario è un elemento essenziale del mio lavoro e in futuro mi auguro, nel mio piccolo, di poter favorire e contribuire a quei processi di cambiamento necessari a colmare l’attuale gap.

Proprio a proposito della questione economica di cui parlavi, non possiamo non ricordare che questo è uno degli aspetti cardine della CBR, la riabilitazione su base comunitaria le cui linee guida sono alla base della metodologia adottata dal nostro centro.

La disabilità è una condizione che non riguarda solo l’individuo, ma coinvolge e interessa la comunità nel suo insieme. L’approccio CBR è in questo senso una risorsa chiave per attuare efficacemente il Disability Act del 2010 e dare potere alle persone con disabilità nella creazione di società inclusive. Purtroppo in Tanzania siamo ancora molto lontani dal raggiungimento di tale obiettivo. Nel nostro centro però, quando accogliamo un bambino nuovo, cerchiamo di avvicinarci a lui valutandolo nella sua interezza e adottando uno sguardo multidisciplinare, allo scopo di elaborare piani individuali capaci di offrire soluzioni e terapie che lavorino a tutti i livelli e che possano al contempo contribuire al reinserimento sociale delle persone con disabilità all’interno delle comunità di appartenenza. Personalmente abbraccio e condivido nel profondo l’approccio della CBR, in quanto posso testimoniarne l’efficacia così come i risultati tangibili ottenuti dai nostri pazienti.

Nell’ultimo decennio i governi hanno dimostrato sempre più il loro impegno per i diritti delle persone con disabilità attraverso la promulgazione di politiche sociali specifiche. Tra questi, la Repubblica Unita di Tanzania, oltre a essere firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD), ha preso un impegno pubblico attraverso una serie di meccanismi politici e piani governativi, come quelli previsti per esempio dal Disability Act che hai citato tu poco fa. A volte, però, i principi e le promesse fatte nei documenti politici non si riflettono in azioni dirette per i beneficiari e a oggi, quando parliamo di disabilità resta il divario tra gli ideali politici e la realtà dei fatti. Cosa ne pensi?

La maggior parte delle persone con disabilità, le loro famiglie, i caregiver, non sono a conoscenza di questa legge e di come lo Stato si sia da tempo formalmente impegnato per promuovere i diritti delle persone con disabilità che di fatto si ritrovano ancora a essere sottorappresentate, emarginate ed escluse dalla società. Per questo il lavoro di sensibilizzazione, educazione e promozione dei diritti inizia dalle famiglie, dai bambini, dagli utenti del centro, e prosegue nelle scuole, negli ospedali, durante gli eventi comunitari. Da anni, per esempio, organizziamo incontri e formazioni rivolti a docenti, personale sanitario, cittadini, ma soprattutto a studenti e studentesse di tutte le età. È importante che le future generazioni siano parte attiva del cambiamento e diventino insieme a noi promotori di giustizia sociale, nel tentativo di costruire scuole, contesti urbani e società sempre più capaci di saper includere anziché emarginare.

Cosa ti auguri per il futuro del Centro Antonia Verna?

Spero semplicemente che riusciremo a portare avanti il lavoro iniziato tre anni fa. Continueremo a promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, cercando di migliorarci, offrendo un servizio riabilitativo sempre più specializzato e di qualità, e contribuendo a costruire un mondo in cui le persone con disabilità siano viste non più come un limite o un ostacolo ma come fonte di arricchimento e crescita. Mi auguro, infine, che il nostro centro possa diventare un punto di riferimento non solo per la città di Dar es Salaam, ma anche per tutto il Paese. Colgo l’occasione per ringraziarvi per aver raccolto la mia testimonianza, di fisioterapista e di cittadino tanzaniano.

Siamo noi a dover ringraziare Joseph per aver speso del tempo con noi e per il lavoro quotidiano al Centro Antonia Verna, e Martina, che ha voluto raccontare una storia di passione, capacità e consapevolezza. 

Foto copertina: Valerio Topazio.

Una storia di famiglia.

Il primo giugno si celebra la Giornata Internazionale del Bambino. È stata istituita a Ginevra nel 1925, durante la Conferenza Mondiale sul benessere dei bambini, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione sulle tante situazioni di dolore che i bambini subiscono nel corso della loro infanzia.

Lo scopo di una celebrazione di questo tipo è quello di sollecitare risposte dal mondo degli adulti, da coloro che hanno la capacità e la possibilità di alleviare o mettere fine a quelle sofferenze. Le prime persone a cui un bambino si rivolge sono i genitori e non è una coincidenza che proprio oggi si celebri anche un’altra ricorrenza fondamentale: la Giornata mondiale dei genitori. È stata istituita dalle Nazioni Unite nel 2012, per sottolineare proprio il ruolo imprescindibile dei genitori in quel percorso di cura e protezione dei bambini che si chiama crescita.

Per ricordare queste due celebrazioni così significative e tanto strettamente legate, abbiamo deciso di raccontarvi la storia di Faraja, Nicolina e Rosemary. 

Faraja è una bambina di dieci anni di Mbeya, il cui nome significa letteralmente “alleviamento, consolazione” che purtroppo inizia sin da subito a scoprire le brutture del mondo: dopo l’abbandono della madre, a soli tre mesi è vittima di un episodio di violenza perpetrato da alcuni giovani della città. 

La piccola sopravvive per miracolo e viene soccorsa da una vicina di casa, Rosemary, che decide di prendersene carico facendo subito partire le pratiche per l’affido e diventando così, a tutti gli effetti, la sua caregiver/madre adottiva. A Faraja poco dopo viene amputata una gamba a causa di un’infezione e così inizia il suo lungo percorso riabilitativo, che si affianca all’applicazione della protesi.   

Dopo qualche anno, Rosemary viene a conoscenza di un’altra situazione difficile tra i bambini del suo vicinato: la piccola Nicolina, figlia di una coppia giovane che la rifiuta a causa di un importante problema di salute della bambina, che è affetta da una tetraplegia spastica, probabilmente conseguente a una paralisi cerebrale. Nicolina non cresce come i suoi coetanei, non è in grado di controllare il capo né di stare seduta, non riesce a mangiare da sola o parlare. Per la maggior parte del tempo, Nicolina resta sola in casa, a letto, senza potersi muovere poiché da sola non è in grado di farlo. 

La piccola Nicolina presenta piaghe da decubito causate dalla prolungata immobilità e ha retrazioni muscolari importanti che rendono difficile trasportarla sulla schiena come solitamente si usa fare in Tanzania. Rosemary non può restare indifferente: chiede ai genitori di potersi prendere cura della bambina, di poterle far fare gli esercizi, e racconta dell’esperienza con Faraja. I genitori naturali della piccola Nicolina accettano, nominando Rosemary tutrice al cento per cento della bimba. 

Dopo pochi anni e nuove situazioni di violenza subite, Rosemary capisce che è il momento di lasciare Mbeya e parte con le figlie alla volta di Dar es Salaam, una città ricca di servizi e più adatta a seguire due bambine particolarmente bisognose di cure e attenzioni come Nicolina e Faraja.

Oggi la famiglia vive nel quartiere di Kawe, nei pressi del nostro centro, ed è proprio da noi che la “nonna” si reca quotidianamente sia per la fisioterapia di Nicolina sia per un progetto di inserimento di Faraja che sta imparando alcune attività della vita quotidiana come cucinare, creare oggetti di artigianato, pulire e riordinare. 

A questa straordinaria famiglia stiamo dando tutto il sostegno che possiamo, e i risultati sono davvero ottimi: la piccola Nicolina è cresciuta di più di due chili in un mese grazie ai counseling e agli aiuti alimentari, le retrazioni muscolari sono diminuite ed è molto più interattiva rispetto all’inizio del percorso riabilitativo. Faraja è stata inserita nell’ambiente del centro ed è autonoma anche nella preparazione di pasti, il che la rende un supporto concreto alla nonna che si prende cura da sola di tutto il nucleo familiare.  

Un proverbio africano dice che per educare un bambino serve un intero villaggio, evidenziando la profonda importanza rivestita dalla comunità non solo in contesti rurali ma anche in aree urbane.

Raccontare una storia come quella di Faraja e Nicolina ci ricorda che la vita può essere crudele e ingiusta ma poi può ripagarci donandoci la presenza di veri e propri angeli custodi come Rosemary.

Se Faraja e Nicolina rappresentano i bambini da proteggere e tutelare e Rosemary rappresenta il genitore che si fa famiglia, e riporta alla vita chi, altrimenti, sarebbe stato dimenticato.

Ringraziamo il nostro centro Antonia Verna Kila Siku per aver raccolto e raccontato con rispetto e devozione una storia così delicata, che ci ricorda quanto è importante non distogliere mai lo sguardo dal nostro prossimo e imparare a prendercene cura con il mezzo più importante di cui disponiamo: l’amore.

Le tappe di una missione.

Asante.

Ci sono tante parole che potremmo usare per iniziare un racconto complesso e affascinante come quello che vogliamo condividere oggi con voi.

Asante, però, ci sembra la più adatta. Significa “grazie” in swahili, e l’abbiamo scelta per esprimere la nostra riconoscenza per una missione un po’ diversa da quelle che organizziamo nel corso dell’anno. Ogni volta che viviamo la Tanzania, ogni volta che tutto il nostro staff si ritrova insieme, la sensazione è sempre quella di non riuscire a contenere tutto.

Questa volta, invece, abbiamo avuto uno strumento in più per non perdere neppure un attimo di giorni significativi, da ricordare. Insieme a noi, infatti, c’era Vincenzo Giardina, giornalista di Dire Italia, un amico e un compagno di strada che con il suo reportage ha contribuito a rendere indelebile ogni momento vissuto insieme.

Con Vincenzo e parte dei nostri cooperanti abbiamo incontrato nuovamente Marco Lombardi, Ambasciatore italiano in Tanzania, che ha sottolineato e ribadito con fermezza la presenza “corale” dell’Italia sul territorio. Una presenza in grado di creare opportunità economiche e sostenibilità  sociale, una presenza che rappresenta il risultato di mondi che si intersecano in armonia, lavorando insieme per costruire.

Così come fa don Tarcisio Moreschi, sacerdote italiano in Tanzania dal 1993 che ha raccontato con amore e devozione uno dei nostri progetti di cui è fondatore, inaugurato nel 2011 con la diocesi di Njombe e il governo della Tanzania. Un progetto, Inuka, a cui Don Tarcisio associa la solidarietà come parola chiave. Una parola che guida l’agire di tutti gli operatori e i cooperanti, e che qui fa da collante per una comunità che è, ancora prima di ogni altra cosa, una comunità di bambini. Tanti bambini che si sostengono l’uno con l’altro e che insieme affrontano le difficoltà  di ogni giorno.

Quando pensiamo a luoghi così lontani da noi, anche solo geograficamente, spesso ci soffermiamo solo su alcuni aspetti e solo alcune notizie prendono il sopravvento. Lo ha sottolineato nel corso del nostro viaggio padre Furaha, a capo del dipartimento di Caritas per gli Aiuti umanitari e l’emergenza, che a Vincenzo ha raccontato gli sforzi concentrati sul Covid-19 e la noncuranza nei confronti di altre patologie, come l’Aids e le malattie legate all’acqua. Padre Furaha ha mostrato anche le nuove strutture in costruzione che sono parte del progetto Simama, e che serviranno ad ampliare l’impegno nei servizi di riabilitazione, nel progetto sull’epilessia e nel lavoro di sensibilizzazione e culturale.

E poi ancora, sempre in viaggio, in un cammino che prosegue e arriva a Kila Siku, il centro di riabilitazione su base comunitaria di Dar es Salaam, realizzato da Comunità  solidali nel mondo e gestito dalle Suore di Carità  dell’Immacolata concezione d’Ivrea. Un centro in cui tutti si impegnano per trasmettere fiducia ai bambini e alle loro famiglie, dai fisioterapisti ai terapisti locali, dai giovani del Servizio civile ai nostri cooperanti.

Asante, kila siku, simama, ujamaa: quello di Vincenzo Giardina è un racconto che si snoda attraverso parole lontane che pian piano diventano familiari, e che evocano sensazioni ed emozioni di coraggio, determinazione, forza di volontà. Un racconto che continueremo ad arricchire di storie, volti, e nomi, affinchè si possa testimoniare ancora l’impegno per il futuro e la strada percorsa nel passato, per ritrovarsi in un presente di grande speranza.

Diamo un nome al tuo 5×1000.

Kevin è un ragazzo che compirà 13 anni tra pochi mesi: soffre di epilessia.

Abbiamo deciso di nominare Kevin ma potremmo citare tanti altri nomi, perché tanti sono i bambini che Comunità Solidali nel Mondo potrà curare in uno dei tre ambulatori che saranno dedicati proprio a questa malattia.

Kevin non è un numero, è un ragazzo che può migliorare le proprie condizioni di vita grazie al supporto di chi compie una scelta di cuore. 

Scegliere di destinare il 5×1000 a Comunità Solidali nel Mondo, infatti, significa destinarlo a Kevin e agli oltre cinquemila bambini con disabilità presi in carico negli anni dalla nostra associazione, con un supporto costante che si estende anche alle loro famiglie. 

“Non è illimitata la nostra potenza, ma non è neanche nulla”. 

Questa frase ci colpì molto quando la leggemmo un paio di anni fa: a scriverla fu Sofia, neuropsichiatra, in una riflessione legata al senso di sconforto che talvolta può sopraggiungere quando ci si trova di fronte a situazioni che vorremmo gestire in modo diverso da quello che poi ci è consentito. Sofia non aveva potuto garantire a uno dei nostri bambini un ricovero ospedaliero ma la sua determinazione nel prendersene cura l’aveva comunque portata a non abbattersi e a cercare di intervenire intanto modificando la terapia antiepilettica del bambino per curarlo in modo più adeguato e poi istruendo la famiglia su come intervenire nel trattamento domiciliare. Oggi Sofia coordina l’avvio dei tre ambulatori specializzati nella cura dell’epilessia nelle nostre sedi in Tanzania.

Come lei, anche tutti noi, nella nostra attività quotidiana in Tanzania, spesso ci fermiamo a riflettere su quanto vorremmo fare, sulle risorse economiche e umane che vorremmo impiegare nei nostri progetti. Lo facciamo perché i bambini con disabilità, i bambini malnutriti, e i bambini che soffrono di epilessia che assistiamo, hanno bisogno di tanto, hanno bisogno di tutto. A volte ci sembra di non fare abbastanza perché non abbiamo abbastanza tempo e disponibilità ma poi ci rimbocchiamo le maniche e i nostri volontari, i nostri cooperanti e tutti coloro che lavorano nei nostri centri riescono a dare più del loro massimo, più del loro meglio. 

Per poter dare ancora di più ai nostri bambini e alle nostre famiglie abbiamo bisogno anche di te.

Scegliere di destinare il 5×1000 a Comunità Solidali nel Mondo a te non costa nulla ma per Kevin, Joela, Samir e tanti altri bimbi è tuttoÈ una scelta che fa la differenza, soprattutto se non la si compie. 

Scegli di fare la differenza: scopri qui come

Raccontare la Tanzania: prima parte.

A volte, quando ci confrontiamo con realtà anche solo geograficamente molto distanti da noi, possiamo avere qualche difficoltà nel comprendere gesti e comportamenti delle persone, così come le caratteristiche del luogo in cui vivono.

È per questo, per portarvi in modo consapevole nella realtà che i nostri cooperanti si trovano a dover vivere e gestire quotidianamente, che abbiamo deciso di farvi fare un viaggio con noi in Tanzania. Sarà un’avventura a tappe, in cui affronteremo tanti aspetti del meraviglioso Paese in cui operiamo e in cui scopriremo date importanti, curiosità, luoghi e avvenimenti.

Partiamo da un excursus storico che ci restituisce il quadro di una terra occupata e colonizzata per diverso tempo da diversi popoli: tra i primi ci furono arabi e persiani, dediti al commercio e molto interessati alle merci reperibili nel continente africano. La permanenza araba, che si protrasse per molto tempo, ebbe diversi effetti nel corso dei secoli: uno fra tutti fu la lingua, il kiswahili, nato proprio dalla commistione di lingua di origine bantu (usata dalle etnie locali), araba e indiana.

Alla fine del XV secolo, invece, furono i portoghesi ad arrivare in Tanzania: si stabilirono sulla costa perché i loro interessi erano legati alla ricerca e all’individuazione di basi logistiche da usare agevolmente nel commercio con le Indie. Furono diverse le basi portoghesi lungo la costa e restarono in opera fino alla fine del XV secolo: poco dopo, infatti, sia la costa che le isole passarono sotto il controllo del Sultano dell’Oman. A dare ancora più forza a questo controllo arrivò l’appoggio britannico: la Gran Bretagna, infatti, concesse il suo sostegno all’Oman, ricevendo in cambio l’abolizione della schiavitù in Africa Orientale. 

Sempre grazie al supporto della Gran Bretagna, il controllo sul territorio del Sultano dell’Oman si ampliò, arrivando per la prima volta nell’entroterra tanzaniano e non fermandosi alla costa e alle isole come era accaduto inizialmente.

L’Ottocento fu il secolo delle grandi spedizioni: la Tanzania fu oggetto, come tutti i territori del continente africano, di spedizioni di scoperta compiute dagli europei. Se in passato erano stati i portoghesi, come abbiamo scritto poc’anzi, a colonizzare costa e isole tanzaniane, in questo periodo fu la Germania a essere protagonista di un’esplorazione significativa del territorio tanzaniano. In questo clima e nonostante le proteste del Sultano dell’Oman, la Tanzania continentale, denominata Tanganica, venne definitivamente assoggettata alla Germania. I tedeschi ne mantennero il controllo fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, unitamente a Ruanda e Burundi: nel 1885 era nata, infatti, l’Africa Orientale Tedesca. Un aspetto importante della dominazione tedesca fu quello legato allo sviluppo del Paese: l’influenza della Germania in questo caso fu importante perché contribuì al miglioramento delle infrastrutture e delle tecniche di coltivazione.

Con il secondo conflitto mondiale e la sconfitta tedesca, tuttavia, venne meno anche la sovranità della Germania sulle colonie africane e, mentre il Rwanda passò al Belgio, la Tanzania vide tornare la sovranità britannica che aveva accompagnato il periodo legato all’Oman.

Cosa sarà successo dopo?

Per continuare questo avvincente viaggio attraverso storia, cultura, tradizioni e territorio restate con noi: nel prossimo episodio parleremo di tutti quegli accadimenti che hanno portato la Tanzania a diventare il Paese che conosciamo oggi.

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