Intervista a Marco Palombi, fotografo in missione.
Fotoreporter romano, dagli anni ’90 viaggia per raccogliere immagini e video per i suoi reportage dal mondo. Le minoranze etniche, i popoli nomadi e i contrasti tra occidente ed oriente diventano il fulcro della sua ricerca fotografica. Dal 2007 pubblica i suoi reportage su La Repubblica e La Stampa”. Tra gli ultimi paesi documentati: Haiti, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Ecuador, Nicaragua, Mali, Burkina Faso, Libano, Iran, Oman, Irak, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Siria, Etiopia e Niger. Per Comunità Solidali nel Mondo ha realizzato i reportage della missione in Tanzania insieme al giornalista Vincenzo Giardina, consultabili qui.
Marco, come hai conosciuto Comunità Solidali nel Mondo?
Quando Vincenzo Giardina, il giornalista che ha condiviso con me l’esperienza in Tanzania, mi ha parlato per la prima volta dell’associazione ancora non conoscevo nulla di voi. Mi è, però, bastato davvero poco per capire: ho approfondito i racconti dei vostri progetti sul sito e sui social, e ho parlato con il vostro Presidente che ha arricchito quei racconti già toccanti, rendendoli impossibili da lasciarseli scivolare addosso. Ho accettato subito la proposta del viaggio perché ho capito che erano cose belle, cose importanti, e insieme a Vincenzo ho deciso di partire per la missione. La cosa che mi ha colpito di più di Comunità Solidali nel Mondo è il lavoro fatto con passione, fatto con il cuore, dedicandosi alle persone più fragili. Avevo già lavorato, molti anni fa, in situazioni simili legate alla disabilità ma ero in Kazakistan e la mia sensazione è che lavorare in questi ambiti nel continente africano sia ancora più complesso.
Cosa ti ha lasciato di diverso l’esperienza in Tanzania rispetto ad altri viaggi reportage a cui hai lavorato? E a livello umano, personale, cosa hai imparato da questa missione?
Come dicevo prima, lavorare in certi contesti in Africa è complicato. Mi è capitato spesso di trovarmi in zone ancora più difficili della Tanzania dal punto di vista della sicurezza, come per esempio la Repubblica Democratica del Congo, la Somalia, il Niger, il Sudan o il Burundi. Immaginavo la Tanzania come un Paese più tranquillo e più stabile dal punto di vista economico, politico e sociale. Tuttavia, trovarmi lì, sul campo, a contatto con realtà di disabilità infantile è stata una grande emozione, un’emozione continua. Il lavoro di un’associazione come Comunità Solidali nel Mondo mi ha impressionato: i fisioterapisti locali con il loro impegno costante e i ragazzi del Servizio Civile con i loro racconti mi hanno regalato un’esperienza che non dimenticherò facilmente. Ricordo, in particolare un episodio: ho visto con i miei occhi la zia di un bambino disabile senza più genitori fare chilometri su chilometri nelle montagne vicine a Mbeya per portare il bambino al centro gestito dall’associazione, e i ragazzi mi hanno raccontato che lo fa da anni.
Episodi come questo mi hanno fatto capire che nulla è impossibile, che tutto si può fare se ci sono forza e volontà. Penso ai nostri giovani che hanno tutto, troppo, e non si accontentano mai e immagino quanto bene potrebbe e può fargli un’esperienza come quella del Servizio Civile.
Secondo te è possibile “utilizzare” la fotografia come mezzo di riscatto, aiutando le persone a recuperare una nuova dimensione di sé?
Per me la fotografia è un mezzo importante di espressione e di comunicazione che può, innanzitutto, essere utile a capire sé stessi. Però credo anche che sia importante testimoniare. o denunciare cose che non sono giuste, che non vanno bene, situazioni di soprusi nei confronti dei più deboli. Questa domanda mi fa tornare in mente un vecchio progetto che avrei voluto realizzare ma che purtroppo non ho ancora organizzato: mi sarebbe piaciuto donare ai bambini una macchinetta fotografica. Sarebbe stato bellissimo mostrare il loro punto di vista tutto particolare sulle cose, e fargli raccontare delle storie. Con la fantasia e la creatività che sono proprie di quella età e di quella visione del mondo.
Quanto conta saper guardare con gli occhi altrui? Ci riferiamo, in particolare, all’esigenza di immaginare le reazioni degli altri dinanzi a scatti rappresentativi di contesti che necessitano di una particolare sensibilità per essere compresi a fondo.
Per me è fondamentale, quando si entra in un contesto di vulnerabilità e difficoltà e bisogna scattare, fare la conoscenza dei luoghi e delle persone che li abitano. Prima di scattare o di girare, la cosa che conta è comprendere la vita di chi sto fotografando, la storia, il passato, quello che vive. Prima di scattare chiedo il permesso, e con voi il processo è stato impeccabile. Ho conosciuto persone dello staff, locale e non, che hanno saputo indirizzarmi, e che erano preparate a creare la giusta situazione per ritrarre volti, storie, sguardi. A volte, in altre situazioni, mi sono sentito spaesato ma questa volta non è successo. Conoscere significa entrare in sintonia, e riuscire a raccontare meglio. Spesso le mie foto non sono foto “semplici”, e a ciò si aggiunge anche la circostanza relativa al fatto che talvolta ritraggo dei bambini. In questi casi le difficoltà si triplicano ed è necessario porvi rimedio subito perché se non si chiariscono alcuni aspetti all’inizio è poi impossibile recuperare in corsa. Cerco di lavorare con rispetto e di riconoscere chi ha voglia o bisogno di raccontarsi. Quello che ricorderò sempre di questo viaggio sono gli sguardi di chi si è conosciuto e riconosciuto nelle mie immagini, perché solo con un lavoro preliminare di questo tipo la fotografia può essere utile a qualcosa e assolvere il suo compito.
Ringraziamo Marco per il tempo dedicato a questa intervista ma ancor più per la grande passione che ha riversato nel suo viaggio in Tanzania e nel racconto di Comunità Solidali nel Mondo.