
Genitori insieme, un sostegno emotivo per trovare comprensione
Un nuovo supporto per i genitori dei bambini con disabilità che frequentano il Centro A.Verna Kila Siku a Dar es Salaam. Ma anche un perfetto esempio di come la relazione e il confronto reciproco fra i lavoratori locali da un lato e le ragazze e i ragazzi del Servizio Civile Universale dall’altro possa far nascere nel concreto un’esperienza di importanza capitale per quelle madri e per quei padri che vivono tutte le difficoltà che la vita quotidiana in Tanzania riserva ai genitori di bambini con una disabilità.
A raccontarci tutto è Giada, che sta vivendo il suo anno di Servizio Civile Universale all’estero con Comunità Solidali nel Mondo: un racconto, quello che ci presenta, in cui appaiono chiaramente gli ingredienti della sensibilità nell’avvertire una necessità, dell’abilità nella definizione dei modi e tempi giusti per rispondervi, e dell’impegno poi a proseguire e a migliorarsi. Sapendo di essere riusciti a trovare la breccia giusta per toccare le corde dell’emozione e della comprensione.
Group Therapy Wazazi
di Giada Tagliente, operatrice volontaria SCU 2024/25
Sin dal mio arrivo al Centro Antonia Verna a Dar es Salaam, è stato immediatamente chiaro come il focus principale di tutte le attività fossero i bambini disabili, in quanto principali beneficiari dei servizi di riabilitazione offerta dall’equipe multidisciplinare locale. Tuttavia, lavorando a stretto contatto con il dipartimento dei servizi sociali, in particolare con gli psicologi Assadi e Agnes, durante le nostre chiacchierate sono emerse una serie di problematiche rilevanti che i genitori e/o i caregivers sono costretti ad affrontare nella loro quotidianità. Per esempio, procurarsi le risorse economiche per offrire ai propri bambini un servizio di riabilitazione costante ed efficace non è assolutamente una passeggiata, ancor di più se si considera il fatto che molti caregivers non sono altro che genitori – in particolare madri – single, spesso ostracizzate e ripudiate dalle loro famiglie proprio a causa della disabilità della propria prole.
Molti di questi caregivers si trovano a dover affrontare da soli non solo la fatica fisica e psicologica della cura quotidiana, ma anche un peso economico e sociale enorme, spesso privo di riconoscimento e supporto. È stato proprio da queste conversazioni, talvolta informali ma profondamente significative, che è nata l’idea di avviare un progetto di incontri di gruppo rivolto ai genitori e caregivers dei bambini seguiti al centro.
L’obiettivo era creare uno spazio sicuro e accogliente in cui potersi confrontare apertamente, scambiare esperienze, trovare sollievo emotivo e magari, perché no, anche costruire relazioni di amicizia e mutuo aiuto. Tuttavia, fin dall’inizio, è stato evidente come ci fossero approcci e aspettative diverse tra me e gli psicologi del centro. Se da parte mia c’era la volontà di dare priorità al senso di comunità, di condivisione e di vicinanza umana, i colleghi locali avevano un’impostazione più pragmatica, volta a fornire occasioni strutturate di scambio di informazioni pratiche: quali scuole accettano bambini con determinate disabilità, dove trovare materiali riabilitativi a basso costo, come gestire le pratiche amministrative e via dicendo.
Anche la modalità degli incontri ha richiesto una riflessione condivisa. In un primo momento avevo immaginato degli incontri informali, quasi delle chiacchierate spontanee davanti a una tazza di chai, in un’atmosfera rilassata e conviviale. Ma Assadi e Agnes mi hanno fatto notare come, nella cultura tanzaniana, la pausa chai abbia una funzione ben precisa e non venga generalmente mescolata con conversazioni di tipo emotivo o “serio”. È stato un piccolo scarto culturale, ma significativo: ho dovuto fare un passo indietro e lasciare che fossero loro a tradurre i miei spunti nel linguaggio più adatto al contesto. Ne è nata un’interessante sintesi: abbiamo deciso che le sessioni sarebbero state condotte in modo strutturato e professionale, ma al termine si sarebbe comunque offerta una merenda, creando così un momento informale di decompressione e socialità.
Il primo incontro si è svolto nella seconda metà di marzo, in un ambiente intimo e protetto, accessibile solo ai partecipanti e alla psicologa Agnes, che ha svolto il ruolo di guida e facilitatrice, lasciando però ampio spazio ai presenti per raccontarsi e ascoltarsi reciprocamente. Hanno partecipato sei caregivers: cinque madri e un padre, tutti selezionati in base alla condizione specifica dei loro figli, in questo caso bambini con paralisi cerebrale. La scelta di focalizzarsi inizialmente su un gruppo omogeneo è stata strategica, per facilitare l’identificazione reciproca e la condivisione di esperienze simili.
Durante l’incontro, i genitori hanno parlato dei piccoli progressi osservati nei loro figli da quando frequentano con regolarità le sedute al centro e si impegnano a replicare gli esercizi a casa. In generale, è emersa una soddisfazione diffusa, anche se accompagnata da aspettative talvolta molto alte, che necessitano di essere gradualmente ridimensionate per evitare frustrazioni future. Ma il tema dominante, come previsto, è stato quello delle difficoltà economiche: mantenere le terapie, gestire la casa, lavorare e contemporaneamente occuparsi di un bambino con disabilità richiede un’energia straordinaria, che spesso non basta. Due dei genitori presenti erano single, tre avevano un partner coinvolto e presente, mentre una madre ha condiviso la difficile situazione di un compagno che si è completamente disinteressato della condizione del bambino, rifiutandosi di contribuire in qualsiasi modo.
Nonostante le difficoltà, l’incontro ha mostrato quanto forte e tangibile sia il bisogno di uno spazio di condivisione. Le emozioni erano palpabili, ma si percepiva anche un senso di sollievo: finalmente qualcuno con cui parlare, finalmente qualcuno che “capisce davvero”. Per molti di loro, questa è stata la prima occasione per raccontarsi senza sentirsi giudicati o incompresi.
Ora stiamo lavorando, con cautela e pazienza, all’organizzazione del secondo incontro. Gli psicologi del centro hanno numerosi impegni e coordinare iniziative simili richiede tempo e cura. Ma il seme è stato piantato, e c’è fiducia che questo progetto possa crescere e trasformarsi in un appuntamento stabile, magari mensile, capace di fare davvero la differenza nella vita di queste famiglie.
In fondo, ciò che vogliamo costruire non è solo un gruppo di supporto, ma una rete di persone che si riconoscono, si sostengono e si ricordano a vicenda che non sono sole. Che la fatica è reale, sì, ma condivisa è più leggera. E che, a volte, anche una piccola conversazione può essere il primo passo.
Sebbene questa esperienza sia solo agli inizi, ne posso già testimoniare in maniera diretta la densità di significato. Prima di tutto, mi ha insegnato ad ascoltare davvero: non solo le parole, ma anche i silenzi, i gesti, i contesti culturali che danno senso a ciò che viene detto (e a ciò che non viene detto). Ho scoperto anche la bellezza del confronto quando è sincero, rispettoso e orientato a un obiettivo comune. Lavorare fianco a fianco con professionisti come Agnes e Assadi, così competenti, sensibili e radicati nel territorio, mi ha mostrato quanto io abbia ancora da imparare sulla Tanzania. Ed è stato bello lasciare spazio, vedere i miei spunti prendere vita in una forma diversa da quella che avevo immaginato, ma molto più efficace proprio perché calata nel contesto giusto.
Nel mio ruolo di volontaria del servizio civile, ho capito ancora più profondamente quanto sia importante rimanere nel proprio posto: un posto di supporto, di osservazione, di collaborazione e non di protagonismo. In questa prospettiva, ogni piccola conquista — come un incontro andato bene, una mamma che si sente meno sola, uno scambio tra genitori che genera un’idea nuova — è una vittoria collettiva. E io, in punta di piedi, sono grata di poterne essere testimone e parte attiva.