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Un viaggio che inizia con una strada di terra rossa

Un viaggio che inizia con una strada di terra rossa

11 Maggio 2020

Uno degli aspetti che più mi ha incuriosito ed emozionato, in questa breve esperienza di servizio civile in Tanzania (nella regione di Mbeya), è stata la possibilità di affiancare gli operatori locali nelle majumbani, ossia negli incontri domiciliari con i bambini con disabilità e le loro famiglie. Osservare i bambini negli spazi in cui vivono e nei momenti della loro vita di ogni giorno, mi ha aiutata a comprendere bisogni e priorità riabilitative nel loro contesto. Accanto all’opportunità di crescita professionale, in questo breve periodo, ho ricevuto molto di più! Ogni volta che entravo nella casa di un bimbo, avvertivo di avere un grande privilegio: quello di poter conoscere davvero l’altro, nei suoi ritmi, nella sua quotidianità, nelle sue modalità di condividere gli spazi e di accogliere l’altro.

Gli incontri a casa sono stati un susseguirsi rapido di sensazioni, emozioni, osservazioni e ascolti nuovi; e la sera tra una partita a carte e un film, ci si ritrovava spesso ad aver bisogno di condividere tra noi civiliste e CCP impressioni e pensieri; ed è stato bello avere accanto qualcuno a cui raccontare e con cui confrontarsi.

Da quel che, in questo breve periodo in Tanzania abbiamo avuto modo di osservare, le visite domiciliari prevedono una routine di base, una sorta di “ritmo che ritorna”. Una mia amica, a cui raccontavo questa sensazione di un qualcosa che ha accomunato tutti gli incontri domiciliari, mi spiegava che quel ritmo di base di cui le parlavo si chiama in musica (specialm. etnica) “ostinato ritmico”. Con un paragone musicale, quindi, potrei dirvi che le poche majumbani, che abbiamo modo di aver vissuto, hanno avuto un “ostinato ritmico” inatteso, nuovo, piacevole…

“L’ostinato ritmico” delle nostre visite domiciliari Mbeya

Le visite domiciliari iniziano sempre con il risveglio presto la mattina, si parte con uno zaino in spalla, riempito di semplici giochi per i bambini. Da casa si cammina a piedi fino alla fermata del “daladala” (piccolo bus locale), con il quale si raggiunge il luogo preciso dell’appuntamento, dove si incontrano i terapisti locali. Così tutti insieme ci si avvia lungo stradine di terra rossa, sotto il sole o la pioggia, fino all’abitazione della famiglia che ci attende.

Gli incontri a casa iniziano sempre con un “Hodi! Hodi!” in coro (toc! toc!) sull’uscio di piccole case e con in risposta un sonoro e accogliente “Karibuni dada” ovvero benvenute sorelle. Eh si! ci chiamano dada!, questo è un aspetto che mi ha emozionato fin dai primi giorni in Tanzania. Perché, seppur sei un’italiana appena arrivata e che non parla la loro lingua, loro ti accolgono, chiamandoti “dada” e presto ci sia abitua con piacere a chiamare l’altro “kaka” (fratello) o “dada”, e “mama + il nome del bimbo” nel caso in cui sia già una mamma.

Le majumbani iniziano sempre con un’onda vivace e lunga di saluti (Shikamoo, Habari za asubuhi, habari za nyumbani, habari za familia, …). Perché i Tanzaniani dedicano al saluto tempo e parole e ogni volta ti trasmettono e ti insegnano la bellezza di questo momento. Il loro saluto rilascia calore, voglia di accogliere e creare una relazione e un legame con l’altro. Un secondo momento importante è quello del presentarsi all’altro, un momento di ascolto vero e condivisione.

E infine l’ostinato ritmico più vivace nelle visite domiciliari è l’ospitalità: quella loro calorosa accoglienza anche se c’è poco spazio, quel loro sorridente offrire all’altro anche se si ha poco o nulla.

All’interno di questo ritmo che ritorna, poi ogni domiciliare regala un suono propriouna sfumatura musicale unica, creata dall’unicità del bambino, che si va a trovare. Infatti, ogni bimbo conosciuto durante le visite domiciliari ci ha rilasciato prime sensazioni ed emozioni diverse. Tra loro, scelgo di raccontare l’incontro con

Rehema, perché aveva qualcosa di particolare nel suo portamento: di umile, dolce e fiero al tempo stesso, che mi ha suscitato nell’immediato tanta tenerezza.

Al nostro “Hodi! Hodi!”, Rehema ci viene incontro sull’uscio della porta, con accanto i suoi fratellini.

Rehema, undici anni, ci accoglie con un lieve “karibuni” e un sorriso vivace e timido al contempo. Risponde al nostro saluto, ma poi abbassa lo sguardo e inclina un po’ il capo: da un lato, sembra vergognarsi un po’, dall’altro, sembra assumere un atteggiamento di rispetto e riverenza nei nostri confronti. Accanto ai fratellini assume un portamento molto diverso: il petto più in fuori e il capo più dritto e nel porsi ha una sorta di fierezza da sorella maggiore. Sembra abituata ad occuparsi di loro e i bimbi sembrano avvezzi a seguire la sua voce e i suoi richiami.

Rehema, con un gesto timido ci invita a seguirla, appare fiera di guidarci lei nell’ingresso a casa. La mamma non c’è, probabilmente è nei campi e ci raggiunge poco dopo. Ci precede nel breve corridoio che porta alla stanza della sua casa. Noto che cammina lentamente provando a controllare il suo passo, ma nonostante lo sforzo, la gamba destra le rimane un po’ indietro e ha un’andatura falciante. Rehema ha una paralisi cerebrale, più precisamente un’emiparesi destra, la sua gamba non le consente un’andatura normale e fluida, il suo braccio è rigido, pressoché immobile e lei lo nasconde un po’, camminando con le braccia semiconserte.

Dopo esserci sedute nella stanza della sua casa, le operatrici invitano la bambina a salutarci con “Shikamoo!”, provando ad utilizzare la mano destra per il gesto che prevede il saluto. “Shikamoo” è un saluto formale e rispettoso che i più piccoli e i giovani riservano alle persone più grandi o anziane ed è associato ad un gesto: il più piccolo d’età pone la sua mano sul capo del più grande. E Rehema, con imbarazzo, ma tenacia, aiutandosi con il sinistro, solleva il suo braccio e mano destra e ci saluta tutte con una voce esile e dolce. Poi si siede e sorride: sembra proprio contenta di averci lì, sedute a casa sua, e partecipa all’intera conversazione, per la maggior parte del tempo ascoltando quanto le viene detto.

Appena le operatrici iniziano a parlare, nella stanza arriva una ragazza, molto giovane, con un neonato di pochi giorni avvolto nel kitenge e addormentato sulla sua schiena. Intuisco essere la sorella maggiore di Rehema, le chiedo del piccolo e le facciamo gli auguri per la sua nascita. Poco dopo, compare anche un uomo, molto giovane anch’esso, il papà del piccolino. È una stanza vivace, movimentata. Le case (spesso stanze) in Tanzania sono sempre un po’ affollate: piene di parenti, vicini. A me occidentale, più abituata al nucleo familiare, “le case piene” fanno sempre un po’ strano e sono sempre incantata e incuriosita dall’ingresso e presenza di tante persone!

Le terapiste iniziano a parlare con Rehema e lei risponde con voce via via più sicura e ridendo di tanto in tanto; talora interviene anche la sorella maggiore. Comprendo ancora davvero molto poco di kiswahili, ma intuisco che stanno parlando delle attività che fa a casa: cucinare, lavare, prender l’acqua… e le chiedono se continua a fare esercizi per la sua mano. Osservo che, durante l’intera conversazione, con la mano sinistra Rehema continua ad aprirsi le dita della mano destra, rigide (per l’ipertono) e a massaggiarsi la mano, lo fa con imbarazzo, ma dolcezza e calma. Se si incrocia il suo sguardo, lo abbassa, con un fare vergognoso ma sorridendo.

Poco dopo, ci raggiunge anche la mamma di Rehema, con lei le terapiste proseguono la conversazione già avviata con la bambina e la sua sorella maggiore. Intuisco di nuovo, che c’è uno scambio di suggerimenti e consigli di attività quotidiane da far fare alla bambina.

La mamma è seduta vicina a lei, non capisco esattamente ciò che dice alle operatrici, ma il suo sguardo verso Rehema è tenero e fiero. Si somigliano molto, anche lei ha un atteggiamento “raccolto”, umile e rispettoso verso le riabilitation workers e la psicologa. Annuisce e ringrazia spesso.

Poco dopo la giovane sorella di Rehema esce e torna con una soda per ognuna di noi. Io e Chiara ci sentiamo in imbarazzo nell’accettare da loro che hanno poco, la bevanda offerta e riservata solo a noi ospiti. Ma le operatrici ci invitano a bere, ci hanno insegnato che bisogna sempre accettare, accogliere ciò che viene offerto a casa dei bimbi. Perché accogliere qui è segno di rispetto, di gradimento e per loro offrire è un’usanza, un modo di ringraziare l’ospite.

Finito l’incontro ci accompagnano, ma non alla porta come mi aspetterei io, Rehema, la sua mamma e i suoi fratellini ci fanno compagnia per un lungo tratto di strada di terra rossa che dal loro villaggetto porta alla strada principale. È capitato spesso, durante le domiciliari, che poi le mamme ci accompagnassero per un lungo tratto di strada, anche le mamme con bimbi pesanti sulla schiena. Ed io, con i miei occhi occidentali, ogni volta dentro di me mi chiedevo fin dove ci avrebbero accompagnato e mi stupivo di tanto rispetto, accoglienza e riverenza. Loro facevano tutto ciò con spontaneità, calma e naturalezza.

Tornando alla dolce Rehema, all’incrocio con la via principale, la salutiamo abbracciandola e lei per abbracciarci prova a sollevare anche il suo braccio destro. Salutiamo i suoi fratellini e la sua mamma. C’è di nuovo uno scambio vivace di saluti “Asante sana” “Karibuni sana” (grazie tante, benvenuti ancora! tornate! da parte della mamma) e da parte nostra un sentito “Asante Mama Rehema, Tutaonana Mama, Tutaonanaa Rehema” (grazie mamma, ci vediamo mamma, ci vediamo Rehema).

E dicendoti Tutaonana, pensavamo davvero Rehema di rivederti presto, dopo alcune settimane dal nostro primo incontro, per aggiornarci con le operatrici locali su come andavano le attività a casa.

Io Rehema, non so come andrà il mondo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, nei prossimi anni… ma forse come ci stavate insegnando voi tanzaniani, con la vostra fede e fiducia spontanea e semplice… Mungu akipenda tutaonana tena (se Dio vorrà, ci rivedremo ancora).

E se torneremo, bimbi tanzaniani, sarà davvero bello venirvi a conoscere nelle vostre casette e sperimentare la continuità dell’incontro con voi, aspetto che per il precoce rientro non abbiamo avuto modo di vivere.

Tutaonana Rehema! tutaonana watoto watanzania!

Mungu atulinde

Tunatumaini sana kurudi Tanzania!

Asante Tanzania!

Di Valentina Collina, volontaria SCU 2020 con Gondwana e Cesc Project a Mbeya, in Tanzania

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