“Chukuana”, tutta la riflessione tra decolonizzazione e partnership paritaria
ROMA – La condizione attuale del continente africano, le disuguaglianze in crescita, la migrazione dei popoli del sud verso il nord del mondo. Gli effetti a lungo termine del colonialismo europeo, il fallimento delle élites africane, l’azione e il ruolo svolto dalle organizzazioni non governative, la richiesta di autonomia e indipendenza proveniente dai partner locali che chiama le stesse ong ad una risposta non semplice ma necessaria. La riflessione sulla decolonizzazione e sul futuro della cooperazione internazionale è stato il filo conduttore di “Chukuana”, la tre giorni voluta da Comunità Solidali nel Mondo per favorire il confronto e lo scambio culturale e pratico sul tema (qui il riassunto dell’evento). Un approfondimento concentratosi in modo particolare nel workshop di giovedì 28 settembre, moderato da Roberto Natale (Rai) e trasmesso in diretta Facebook sulla pagina di ComSol (vai al video e segui l’intero workshop). Eccone qui di seguito un’ampia sintesi testuale.
Anche l’Italia è stata colonialista: chiamati a far dimenticare prevaricazione e dominazione
Nel suo intervento introduttivo Michelangelo Chiurchiù, presidente di Comunità Solidali nel Mondo, indica la necessità di mettere fine a quella sorta di oblio collettivo che ha cancellato una vergognosa pagina della storia italiana: la guerra di aggressione, vigliacca e criminale, combattuta in Etiopia nel 1935-36. Chiurchiù ha poi ricordato la crescente disuguaglianza fra nord e sud globale; la rivendicazione di indipendenza verso il mondo occidentale che esprimono sempre più convintamente i giovani africani; il ruolo nefasto giocato da grandi istituzioni mondiali (Banca Mondiale, Fmi, Wto) che agiscono sulla base degli interessi dei paesi più forti; il ruolo delle ong sul campo, chiamate a perseguire l’obiettivo del cambiamento strutturale, il che implica il pieno coinvolgimento delle comunità e una partnership paritaria. Di fronte alle condizioni strutturali del mondo e all’evoluzione demografica, assisteremo in futuro ad una massiccia trasmigrazione dei popoli dal sud al nord del mondo. “Abbiamo una sola possibilità che questa trasmigrazione – afferma Chiurchiù – non si traduca in un evento traumatico e violento per i nostri figli, i nostri nipoti e per la nostra civiltà: costruire fin d’ora, da subito, un modello di convivenza e di collaborazione organico con il Sud globale per far dimenticare il prima possibile il modello di prevaricazione e di dominazione imperiale che abbiamo adottato finora”.
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L’Italia, una società con un male oscuro che non sa fare i conti con il passato e con le migrazioni
Lo storico africanista Sandro Triulzi ha sottolineato come sia “raro” che nell’ambito della cooperazione allo sviluppo sia messo a tema il problema coloniale: del resto è l’intero paese – dice – che “non ha ancora iniziato una sua vera decolonizzazione”. C’è una ragione storica che almeno in parte spiega questo: il fatto che l’Italia abbia dovuto rinunciare a colonie e possedimenti già con il Trattato di pace del 1947, il che ha significato “non vivere direttamente il processo di decolonizzazione dei decenni successivi, e quindi non passare per il confronto con i movimenti di liberazione, per l’esigenza della formazione di classi dirigenti africane, più in generale per quell’atto di coscienza collettiva che costituiva il prendere consapevolezza della perdita dei territori coloniali”. Non bastò, per tutto questo, neppure il periodo decennale (dal 1950 al 1960) di amministrazione fiduciaria della Somalia che le Nazioni Unite assegnarono all’Italia fino all’indipendenza di quel paese.
Anche tutto ciò ha causato “l’assenza di un dibattito pubblico sul colonialismo che perdura ancora oggi” e che è tanto più grave quanto più consideriamo che “la società italiana è stata permeata dalla mentalità colonialista propagandata durante il ventennio fascista”, secondo la quale gli africani erano inferiori a noi e non sarebbero mai potuti essere come noi: il ritenere inconcepibile la parità fra le persone è “il male oscuro della nostra società”, un senso di dominio e di superiorità che non ammetteva che un nero potesse far parte della nazione. “Confini nazionali e linea del colore – afferma Triulzi – culturalmente coincidevano e in buona parte coincidono ancora oggi: e la nostra è infatti una società che non riesce a fare i conti con le migrazioni. E’ un immaginario collettivo profondo che solo le nuove generazioni iniziano a rifiutare”.
Le ong sono una parte della soluzione al problema migratorio. “Far entrare la campagna 070 nell’agenda politica”
Sul ruolo della cooperazione internazionale e sul contesto concreto nella quale essa opera si concentra Ivana Borsotto, presidente di Focsiv (Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana): “Il nostro – dice nel suo intervento – è un mondo in cui milioni di persone fuggono da siccità, carestie, soprusi, violazioni dei diritti umani; è un mondo nel quale non ha funzionato l’esportazione della democrazia e anzi la democrazia è tanto più fragile e debole quanto più non riesce a rispondere alle richieste di benessere, giustizia e uguaglianza; è un mondo in cui si registrano i limiti di un’idea di sviluppo fondata solo sul commercio e sul mercato, e in cui il mercato si propone per trovare soluzioni a problemi creati dal mercato stesso. La cooperazione si muove in questo mondo sempre più faticoso, in cui i problemi di ciascuno sono i problemi di tutti e in cui le soluzioni possono essere solo globali”.
“Noi che facciamo cooperazione e abbiamo i piedi ben saldi nel terreno vediamo l’avversità e l’ostilità che i giovani africani maturano nei confronti dell’Europa: ma del resto – afferma la presidente Focsiv – mandiamo loro i nostri rifiuti, facciamo accordi con i loro dittatori, non li salviamo quando stanno affogando e non diamo loro alcun modo di entrare in Europa…”. La decolonizzazione – argomenta Borsotto – è chiaramente un tema collegato alla migrazione, che è un diritto. Ma le politiche migratorie sono efficaci se iniziano dal paese di partenza: questa è l’importanza della cooperazione, che costruisce i percorsi, che nasce per condividere analisi e far nascere politiche locali. E in questo senso le ong possono essere parte della soluzione del problema, perchè essendo presenti nei paesi di partenza possono informare, formare e preparare i percorsi migratori. E’ il lavoro della migrazione consapevole”.
Gli equilibri demografici mondiali – sostiene Borsotto – raccontano già il futuro che sarà: “Chi sta in Africa, America Latina e Asia ha oggi un’altra consapevolezza. L’energia, la forza, la speranza, sono lì. Noi siamo ormai un piccolo ospizio che si apre su un’immensa scuola media o scuola superiore. Ci sarà un momento in cui la decolonizzazione avverrà per irrilevanza, la nostra”. In questo contesto “possiamo ancora scegliere se svolgere un ruolo attivo in questo processo e il rispettare la parola ripetutamente data dovrebbe essere il primo obiettivo”. Il riferimento qui è all’obiettivo di destinare lo 0,70% della nostra ricchezza nazionale a sostegno di obiettivi di sviluppo. “La campagna 070 – afferma la presidente Focsiv – mira a far entrare questo impegno internazionale nell’agenda politica del nostro paese: vogliamo dialogare, con una postura di totale e assoluta fiducia nelle Istituzioni e nei partiti, per far sì che ci si assuma questo obiettivo, peraltro in modo graduale (mancano all’appello circa 5 miliardi, sappiamo che sono necessari più anni per riuscirci)”. In secondo luogo, dice, “bisogna essere consapevoli che la cooperazione internazionale rappresenta un pezzo di welfare dell’Africa, che crea opportunità di lavoro, che aiuta la creazione di sistemi scolastici e sanitari più forti: occorre raccontare meglio tutto ciò e passare sempre più da una grammatica dei diritti alla pratica quotidiana degli stessi”.
La sfida della decolonalità e l’importanza della partnership nella natura profonda delle ong
Dal canto suo Francesco Petrelli, responsabile Relazioni internazionali di Oxfam Italia, sottolinea la necessità di rilanciare l’impegno delle ong proprio nel momento in cui si avvertono le tante difficoltà del tempo presente: per farlo serve – dice – anzitutto un “grande lavoro di tipo culturale, anche teorico e sistematizzato, basato sulla pratica e quindi su quello che facciamo, sui successi, sugli insuccessi, anche sugli errori”; in secondo luogo occorre avere la “consapevolezza del rapporto di potere asimmetrico” che al di là delle intenzioni esiste rispetto ai paesi in via di sviluppo, e infine bisogna evidenziare l’elemento che contraddistingue le ong, cioè la partnership, la natura di organizzazione che agisce insieme alle comunità locali”. Un modo di agire su un piano di parità che comporta anche la possibilità della critica e che si sviluppa insieme alle comunità, in modo responsabile e proattivo.
Oltre al processo di decolonizzazione storica – sottolinea Petrelli – c’è bisogno di “vivere un processo di decolonialità, cioè di uscita da quella prospettiva di superiorità che ha determinato culturalmente gli eventi storici e che ha imposto di fatto un sistema di disuguaglianza, a volte interiorizzata perfino da quegli individui e da quelle popolazioni che erano state colonizzate”. Il colonialismo cioè non ha comportato solo violenza territoriale, economica e politica, ma anche una violenza culturale che richiede oggi il recupero degli elementi di buona pratica presenti nelle culture tradizionali. Tenere in debito conto le pratiche tradizionali e locali non significa, peraltro, non rendersi conto che “ve ne sono alcune esclusive e discriminatorie, capaci di riprodurre e perpetuare la struttura della colonialità”.
Il lavoro da fare dunque è quello di progettazioni dentro una cooperazione diversa, decolonizzata, in cui la parola chiave è la partnership e lo sviluppo (visto come un processo) deve mobilitare il capitale sociale esistente e avere al centro la ownership, la capacità di autodeterminazione delle persone, il determinarsi il proprio destino e il proprio futuro. Un’esigenza che vale dappertutto, ad ogni latitudine. La decolonizzazione – sintetizza Petrelli – è stata quella dei nostri padri, la decolonialità riguarda noi nel nostro prossimo futuro: una sfida complicata ma inevitabile”.
Le ong italiane in Tanzania: l’importanza del trasferimento delle abilità ai referenti locali
Arriva dalla Tanzania il punto di vista di Senga Pemba, docente di Salute pubblica all’Università Sfuchas (St. Francis University College of Health and Allied Sciences) di Ifakara, partner in un progetto di Comunità Solidali nel Mondo. Nel suo contributo, dopo aver tracciato uno spaccato della colonizzazione europea (tedesca e britannica) in Tanzania, Pemba spiega che per superare l’approccio post coloniale i paesi africani dovrebbero “rafforzare l’unità del loro continente” e avviare relazioni reciproche, “promuovendo sistemi politici eletti democraticamente” e “passando da sistema economici che dipendono quasi esclusivamente dall’agricoltura ad economie industriali che permettano di aggiungere valore e aumentare l’ingresso di valuta estera”. Riguardo alle ong italiane attive nel paese, il professore auspica che esse prendano in considerazione “gli effettivi problemi e le reali esigenze” del paese con “un’agenda adeguata, mirata e chiara di interventi” che “devono essere trasparenti rispetto ai progetti e alle risorse”. E’ “apprezzabile – aggiunge – il loro impegno a lavorare in luoghi difficili da raggiungere” ed è fondamentale la loro capacità di “essere in grado di lavorare sul versante della capacity building”, quindi dello sviluppo delle capacità dei referenti locali e del trasferimento delle abilità e conoscenze alle popolazioni locali”.
La gravità della questione alimentare: in Africa crescono fame e povertà. “Il cibo è disponibile ma non è accessibile”
A scattare una fotografia concreta della condizione attuale del continente africano e della gravità della questione alimentare è Pasquale De Muro, economista, docente di Economia dello sviluppo umano all’Università Roma Tre: “Più di 700 milioni di persone nel mondo – dice – non hanno il necessario cibo quotidiano, non assumono cioè le calorie necessarie per una corretta crescita e per un corretto vivere. Mentre assistiamo alla diminuzione globale di un altro fenomeno, quello della povertà, il numero degli affamati non solo non diminuisce ma dal 2014 ad oggi è cresciuto e la gran parte di questo aumento si riferisce proprio all’Africa, che è inoltre l’unica area mondiale in cui cresce anche il numero delle persone in povertà. Si tratta – scandisce De Muro – di un gravissimo fallimento (del quale peraltro si parla molto poco) della comunità internazionale, dei governi, delle agenzie internazionali e della stessa società civile: non siamo riusciti ad invertire questa tendenza”. “La vera emergenza riguardo all’Africa non è allora – incalza l’economista – quella dei migranti, ma quella della crescita della povertà e della denutrizione, che è una piaga sociale che distrugge non solo la salute delle persone, ma il tessuto sociale e tutte le relazioni interpersonali, provocando danni a lungo termine e negando il futuro ad un’ampia fetta del continente. E a soffrirne oggi sono soprattutto donne e bambini”.
E il problema non è – come si potrebbe pensare – la scarsità di cibo: “I dati ufficiali ci dicono che sull’intero pianeta ogni singolo abitante ha a disposizione, al netto anche degli sprechi, circa 3.000 calorie, una quota sensibilmente maggiore delle 1.800 – 2.000 calorie che mediamente rappresentano il fabbisogno quotidiano di una persona. Nei fatti il cibo c’è, è disponibile ma non è realmente accessibile”.
Perché? “C’è un elemento di ingiustizia sociale – dice De Muro – al quale è associato un altro problema, quello del modo in cui è costruito il sistema alimentare mondiale: il metodo della produzione è insostenibile e sfrutta la base agricola alimentare del pianeta in modo tale che distrugge più di quanto produce”. La responsabilità di questa situazione è diffusa, ma certamente è grande quella delle industrie dell’agri-business, che gestiscono la produzione, la trasformazione e la distribuzione delle materie alimentari. Un sistema che detta le regole del gioco, imponendosi anche ad organizzazioni sovranazionali come la Fao, peraltro essa stessa espressione di alcuni governi potenti che cercano principalmente i loro interessi. “Il sud del mondo opera ancora seguendo modelli occidentali, quindi neo-coloniali: uno sviluppo agricolo fondato sulla coltivazione e sull’allevamento intensivo, con un alto uso di prodotti chimici e un’idea della produttività a breve termine che non tiene conto né della sostenibilità né della necessità di garantire un accesso al cibo su scala mondiale”.
“In questo contesto – afferma De Muro – occorre essere consapevoli che alcuni governi usano la cooperazione allo sviluppo per fare politica estera, e questo si chiama neocolonialismo. Lo fanno gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, e molti altri, e lo fa anche l’Italia quando afferma che nel fare cooperazione vi sono un gruppo di paesi ‘prioritari’, che non sono i più bisognosi ma quelli verso i quali gli italiani hanno un interesse politico ad una maggiore presenza economica”.
In Africa una forte frustrazione sociale: serve una classe politica che sappia ‘obbedire’ al popolo
A completare l’analisi con una valutazione della situazione attuale dell’Africa è Jean-Léonard Touadi, politico, saggista e accademico, già parlamentare italiano e oggi consulente della Fao. Secondo il docente congolese i recenti colpi di Stato (Niger e Gabon la scorsa estate, in totale otto negli ultimi tre anni) non sono altro che “l’inizio di una serie di cambiamenti che investiranno un continente alle prese con la frustrazione sociale, economica e politica dei loro popoli”, inchiodati ad una “doppia solitudine”, quella “di popoli soli di fronte ai meccanismi internazionali della globalizzazione” e al tempo stesso “soli anche di fronte alle loro élites”.
Le speranze suscitate dopo la caduta del muro di Berlino dai processi di democratizzazione, alimentati dalla richiesta della società civile africana di conferenze nazionali per “inventare un’Africa nuova”, sono state – dice Touadi – “confiscate dalle élites che hanno instaurato processi di democratizzazione senza democrazia, senza trasparenza e senza alternanza”. “Oggi siamo alle prese con le conseguenze del fallimento totale di quella esperienza: c’è una chochardizzazione di massa delle popolazioni africane, sempre più affamate, e non c’è stato un progresso significativo nell’accesso alla soddisfazione dei bisogni essenziali, non c’è stata cioè l’uscita dal regno di necessità”. Ecco così che “oggi i popoli sono stufi delle loro élites ma anche dei paesi occidentali che quelle élites hanno incoraggiato e protetto. La società africana esprime una grande rabbia, come altre volte è successo: spero – auspica Touadi – che stavolta il sentimento anti-francese manifestato di recente, e in generale quello anti-occidentale, possa diventare energia per inventare un continente diverso dove la democrazia inizi dalla soddisfazione dei bisogni essenziali. Serve una leadership politica nuova che sia obbediente ai loro popoli, cioè che si ponga in ascolto profondo dei loro popoli, come in passato hanno fatto Thomas Sankara (Burkina Faso), Julius Nyerere (Tanzania) e pochi altri”.
“Decolonizzare – prosegue Touadi – significa anche aiutare gli africani a prendere coscienza della loro parte di responsabilità in ciò che non ha funzionato in questi 60 anni, ma non credo che il mondo post-occidentale che abbiamo davanti debba essere un mondo senza l’Occidente: deve essere un mondo con un altro Occidente, portatore dei suoi valori secolari e del suo patrimonio, ma in grado di guardare l’altro negli occhi, di stargli accanto, condividendo insieme il pane”.
“In tutto questo il ruolo delle ong è importante – sostiene – perché esse sono interlocutori dei governi ma partner dei popoli e delle comunità: la cooperazione potrebbe continuare a fare ciò che già fa dedicando però un pezzo della sua presenza alla formazione di una classe politica nuova capace di captare le istanze più profonde di un popolo che chiede una democrazia come soddisfazione dei bisogni essenziali. Dedicare tempo quindi alla creazione di una classe politica nuova che possa restituire l’Africa a se stessa”. “Credo nella cooperazione – argomenta ancora Touadi – come strumento in grado di creare spazi di contaminazione interculturale, a cominciare da una cultura comune fra Europa e Africa che sia capace di decodificare il nostro passato fatto di ingiustizie, di dominio e di oppressione, ma capace anche di rendersi conto che nessun popolo, né in Africa né in Europa, è in grado di vivere della sola preservazione di sé. C’è uno spazio da costruire e lo si costruisce – conclude con una nota di speranza Touadi – non a partire dalle istituzioni ma a partire dalla buona volontà delle persone che esistono sia in Africa che in Europa”.
La variabile del tempo e il protagonismo politico della società civile
Nelle sue conclusioni, il presidente di ComSol Michelangelo Chiurchiù sottolinea alcuni spunti: anzitutto il fatto che la proposta (da accogliere) di includere nella dirigenza delle ong i partner locali, in modo da co-gestire la cooperazione, rappresenta un accompagnamento faticoso. Il tempo è infatti una variabile culturale di grande peso: “Per noi spesso è più facile dire ‘Lo faccio io, faccio prima’. ma i nostri amici africani, sudamericani o asiatici hanno bisogno di tempo”. Una discriminante, questa, di cui tenere conto per non rischiare di bruciare il percorso di accompagnamento. Chiurchiù rimarca inoltre l’importanza della formazione di una classe dirigente locale, non solo politica ma ad esempio sanitaria: azione che i progetti di ComSol portano avanti per dare strumenti che permettano di agire in continuità. “Dobbiamo ridare protagonismo politico alla società civile, per favorire una politica che sia più vicina ai poveri e agli invisibili”, dice il presidente di ComSol invocando una sana alleanza tra le università, la società civile, la diaspora e i mass media.