“Chukuana”. La sfida dell’oggi è cancellare il modello dominante adottato finora
Quella che segue è la relazione introduttiva presentata da Michelangelo Chiurchiù, presidente di Comunità Solidali nel Mondo, nel corso del workshop “Chukuana – Decolonizzare davvero”, tenutosi a Roma il 28 settembre 2023.
Parte I. Italiani colonizzatori: una guerra vigliacca e criminale
Prima di parlare di decolonizzazione occorre intendersi su che sia la colonizzazione. Per farlo non andrei a consultare il dizionario ma aprirei con voi il libro di storia al capitolo “Guerra in Abissinia”, per vedere come concretamente noi italiani abbiamo vissuto l’avventura coloniale e come abbiamo interpretato il ruolo di colonialisti.
Anticipo la mia posizione: occorre mettere fine a una sorta di oblio collettivo che fa ripetere a molte persone “Colonialisti noi? No! Italiani brava gente!”. Ritengo sia un nostro dovere morale e civico ricordare a noi stessi e insegnare ai nostri giovani ciò che realmente c’è dentro questa vergognosa pagina della nostra storia. La guerra di aggressione all’Etiopia, giustificata dal ridicolo diritto di “avere un posto al sole”, inizia il 3 ottobre 1935 ma è preparata da almeno 10 anni. Termina ufficialmente il 5 maggio 1936; ma comincia subito una guerriglia portata avanti dagli etiopi che terminerà con la conquista dell’Etiopia da parte degli inglesi nel maggio del 1941.
Alcuni dati. Tra marzo e settembre 1935 arrivarono nel porto di Massaua ben 498 navi italiane per sbarcare: 476.000 soldati; 350 aerei (gli etiopici ne avevano 8); 492 carri armati (gli etiopi 14), 14.500 mitragliatrici (gli etiopi 2000). E sbarcarono anche in un deposito a parte e sotto falso nome 270 tonnellate di iprite e arsine per un impiego ravvicinato;1.000 tonnellate di bombe per aerei caricate a iprite; 60.000 tonnellate di granate per artiglieria caricate ad arsine. Con questa sproporzione di mezzi e di uomini alla fine tra gli italiani ci furono 3800 morti e oltre 8.000 feriti; mentre tra gli etiopi ci furono 275.000 morti su una popolazione di appena 10 milioni di abitanti. Non ci è dato conoscere il numero dei feriti etiopi mentre sappiamo che a seguito della guerra e molto spesso a causa dei gas asfissianti, morirono almeno cinque milioni di buoi e 9 milioni di pecore. Per i superstiti questa strage di animali si riassume in una sola parola: fame!
E’ stata una guerra vigliacca perché in tutto questo è stata determinante l’assoluta superiorità dell’aviazione. Vittorio Mussolini, il figlio del Duce pilota di un aereo, pubblica un libro autobiografico “Voli sulle Ambe” che va a ruba (come quello del generale Vannacci) e scrive: “Era un lavoro divertentissimo e di un effetto tragico ma bello. C’era una grossa zeriba circondata da alti alberi non riuscivo a colpirla bisognava centrare bene il tetto di paglia e solo al terzo passaggio ci riuscii; quei disgraziati che stavano dentro, saltavano fuori scappando come indemoniati. Così in quei due giorni tutto l’AdiAbòfu in fiamme…”
Oltre che vigliacca è stata una guerra criminale perché condotta in spregio ai trattati internazionali come quello che proibiva l’uso dei gas che tra l’altro l’Italia aveva ratificato il 3 aprile 1928. E invece l’uso dei gas, su espresso ordine di Mussolini, in Etiopia fu fatto su larga scala proprio per piegare la resistenza e la guerriglia etiope. Indicativa la testimonianza di un capo etiope ripresa dalla denuncia dell’imperatore Hailè Selassiè: “Era la mattina del 23 dicembre 1935 quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani che lanciarono strani fusti che si rompevano appena toccavano l’acqua del fiume e proiettavano attorno un liquido incolore. Alcune centinaia fra i miei uomini rimasti colpiti dal misterioso liquido urlavano per il dolore mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprirono di vesciche. Altri che si erano dissetati al fiume si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore…”
Mussolini non autorizzò soltanto il criminale uso dei gas ma diede anche indiscutibili indicazioni sul metodo. Cito un telegramma, il numero 8103, raccolto e classificato dallo storico Angelo del Boca, inviato da Mussolini a Graziani l’8 luglio 1936, dunque a guerra formalmente conclusa: “Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma”. Avete sentito bene: la legge del taglione al decuplo vuol dire che per un italiano che muore devono essere uccisi 10 etiopi. Siamo nel 1936, otto anni esatti prima delle Fosse Ardeatine. Uno storico molto acutamente mi faceva notare come quello che si sperimenta nelle colonie poi viene utilizzato su vasta scala nelle guerre successive.
E il viceré Graziani applica alla lettera il metodo del terrore. Nel febbraio del ‘37 a seguito dell’attentato alla sua persona, Graziani autorizza per 3 giorni la più furiosa sanguinosa caccia al nero che il continente africano abbia mai visto. Alcune migliaia di italiani civili e militari escono dalle loro case dalle loro caserme e armati di randelli di spranghe di ferro e abbattono chiunque – uomo, donna, vecchio, bambino – inquadrano sul loro cammino nella città foresta di Addis Abeba. Dal secondo giorno più sbrigativamente cospargono le capanne di benzina e poi le incendiano con gli occupanti lanciando una bomba a mano. 30.000 etiopi massacrati. Nel marzo 1937 il clero Cristiano- Copto,sulla base di sospetti infondati, venne accusato di fomentare la guerriglia. Su ordine di Graziani oltre 2000 tra monaci, giovani seminaristi, insegnanti di teologia, e sacerdoti del Convento di Deborah Libanòs vengono portati sulla riva del fiume e mitragliati…
Mi sono dilungato su questo pezzo di storia perché occorre ricordare a chi in modo cattivo e ipocrita si scaglia contro gli immigrati che invadono le nostre coste, che noi abbiamo calpestato per primi e in modo non pacifico le terre da cui oggi loro provengono. Noi per primi abbiamo invaso e ucciso.
Parte II. Il dibattito sulla decolonizzazione
Il dibattito sulla decolonizzazione è vivo nel mondo anglosassone perché è lì che si è avuto il coraggio di affrontare la memoria storica della colonizzazione, delle nefaste conseguenze di questa parte di storia nelle relazioni internazionali. E’ ciò che modestamente vorremmo contribuire a fare anche noi a partire dai lavori di oggi pomeriggio. E’ ora di parlare di decolonizzazione per almeno quattro ragioni. Accenno soltanto per titoli.
- I giovani africani alzano la testa: sono imperiosi. Chi ha fatto esperienza di questa rivendicazione di indipendenza nei confronti del mondo occidentale non può dimenticare. Io l’ho fatta e non è piacevole: dopo aver lavorato nei progetti per avviare attività e costruire iniziative si percepisce (quasi mai viene espresso a voce): “Adesso torna a casa tua!”
- La crescente disuguaglianza tra nord e Sud globale. Tra il 1980 e il 2002 la diseguaglianza tra i Paesi è cresciuta: il 75% dei poveri si trova nei paesi classificati e medio reddito. La ricchezza è concentrata su élites più ristrette: l’1% del mondo detiene il 52% delle ricchezze e il 5,5% delle ricchezze è quello che resta per l’80% della popolazione.
- C’è un dato che è per lo più nascosto e che invece va rilevato. Da una ricerca delle Università americane e ben argomentato nel libro di Dambisa Moyo “La carità che uccide”, dal 1946 ad oggi dall’occidente (Europa e Stati Uniti) sono stati erogati ai Paesi africani in forma di aiuti un trilione di dollari: un miliardo di miliardi di dollari! Una cifra spropositata, ma che dà la misura della complessità del problema. C’è stata l’incapacità delle classi dirigenti africane, ma qui vorrei sottolineare le responsabilità che hanno le grandi istituzioni mondiali – la Banca Mondiale, il Fondo monetario Internazionale, il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) – che assumono decisioni e offrono il proprio sostegno esclusivamente sulla base degli interessi dei Paesi Occidentali. Siamo abituati a leggere distratti e con distacco le notizie di decisioni che assumono questi organismi internazionali convinti che le stanze dei bottoni siano troppo distanti per poter intervenire. Eppure noi ONG, noi operatori del settore dobbiamo essere consapevoli che ci troviamo davanti a una tragica “Tela di Penelope”: quello che di buono e significativo – anche se piccolo – riusciamo a tessere e costruire di giorno viene dissipato e lacerato di notte dalle scelte e dalle decisioni di questi organismi sopra le nostre teste. Ne fanno le spese e gli investimenti nella sanità, nella scuola, nei servizi dei paesi del Sud. Ne fanno le spese soprattutto i poveri, quelli dimenticati nelle periferie delle metropoli e nei villaggi delle savane senza servizi.
- Infine una parola sulle nostre ONG. Qual è il ruolo che dobbiamo giocare nella partita della decolonizzazione? I nuovi criteri per la progettazione e lo sviluppo dei progetti con l’introduzione della teoria del cambiamento danno una dimensione chiara al nostro operato per cui l’obiettivo è il cambiamento strutturale, non la realizzazione di singole attività. Il cambiamento strutturale comporta il coinvolgimento organico dei nostri partner, il dialogo anche complesso con le Istituzioni locali, la difficile faticosa strada dell’accompagnamento verso l’autonomia della gestione e della sostenibilità futura. L’accompagnamento significa sapere sempre stare un passo indietro per restituire responsabilità e competenze per permettere anche di sbagliare… Perché il più delle volte si impara solo quando si è liberi di sbagliare.
Parte III. La sola possibilità che ci resta
Vorrei dare infine una personalissima interpretazione della decolonizzazione. Gli uffici studi dell’ONU hanno inviato al G20 dello scorso anno una nota in cui si evidenziano alcuni dati demografici su scala mondiale. L’Europa che attualmente ha 440 milioni di abitanti fra 30 anni ne avrà 400: meno 40 milioni. L’Africa subsahariana che attualmente è abitata da 1 miliardo e 250 milioni persone tra 30 anni ne avrà due miliardi e 500 milioni di cui 900 milioni saranno giovani sotto i 24 anni: complessivamente 750 milioni di africani in età lavorativa. Questa massa di giovani in situazioni di povertà radicale, di insicurezza nelle questioni sanitarie, di crisi alimentari dovute anche ai cambiamenti climatici, questi giovani prima di morire nel proprio villaggio o nelle grandi metropoli tenteranno il tutto per tutto e cercheranno, a tutti i costi, una vita migliore, un’alternativa. Quale? La terra che sta di fronte ai loro occhi!
Non basterà avere un Mediterraneo disseminato di mine, di navi in assetto di guerra… non avendo nulla da perdere questa massa di giovani alla fine andrà a riempire i vuoti lasciati nei nostri paesi abbandonati nei quartieri delle nostre città con le culle vuote e popolate per il 40% da anziani oltre 70 anni. Allora la frittata si rigirerà e saremo noi a poggiare la schiena sulla padella che scotta: e gli altri sopra. La nostra classe dominante avrà un colore della pelle diverso dal nostro e avrà un’altra cultura!
Per rendere fondato questo scenario vorrei evidenziare altri due elementi.
Il primo: la volontà ferrea di tanti giovani africani e del Sud globale che noi abbiamo incontrato e incontriamo nelle nostre attività che sono determinati a uscire dalla propria condizione di povertà; giovani che sanno stringere i denti, che lavorano senza guardare l’orologio, che non hanno paura di soffrire pur di raggiungere i loro obiettivi.
Il secondo ce lo insegna la storia. Dal IV secolo dopo Cristo, con la crisi anche demografica e dei costumi dell’Impero Romano, i popoli del nord, vitali, desiderosi di nuove terre oltrepassano i confini così accuratamente segnati dai legionari e occupano gli spazi lasciati vuoti. A scuola ce le hanno insegnate come“invasioni barbariche” ma più correttamente dovremmo imparare a chiamarle “trasmigrazioni dei popoli”: sono i Longobardi, i Bizantini e tutti gli altri popoli che hanno imparato dai legionari romani il metodo della conquista, della occupazione e della aggressione violenta. E ripagano con la stessa moneta! Questi popoli danno origine alla Nuova Europa. Io sono convinto che è questo lo scenario che dobbiamo prevedere con la differenza che la “trasmigrazione” stavolta non verrà dal nord ma dal sud!
E la decolonizzazione che c’entra? Abbiamo una sola possibilità perché questa trasmigrazione non si traduca in un evento traumatico e violento per i nostri figli, i nostri nipoti e per la nostra civiltà: costruire fin d’ora, da subito, un modello di convivenza e di collaborazione organico con il Sud globale per cancellare, far dimenticare il prima possibile, il modello di prevaricazione e di dominazione imperiale che abbiamo adottato finora.
In tutto questo sento di stare in buona compagnia: don Milani la pensava più o meno allo stesso modo! Fatte le dovute proporzioni – non sono degno neanche di allacciare le scarpe a don Milani – nell’ ultima pagina del suo capolavoro “Esperienze pastorali”egli suppone che nel 2954 (fra mille anni!) il Vescovo della Diocesi di Firenze sia cinese e scrive una “Lettera dall’oltretomba – Riservata e segretissima ai missionari cinesi” in cui prefigura il crollo violento del nostro sistema ad opera di altri popoli (che siano cinesi o africani poco importa!). E chiede scusa:
“Cari e venerati fratelli, voi certo non vi saprete capacitare come prima di cadere noi non abbiamo messa la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa…
Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi.
Abbiamo solo dormito.
Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri hanno già partiti senza di noi.
Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio.
Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio….
A voi missionari cinesi, figlioli dei martiri, il nostro augurio affettuoso”
(Un povero sacerdote bianco della fine del secondo millennio.)
I profeti, si sa, sono sempre scomodi ma ci aiutano a vedere oltre e a risvegliare le nostre coscienze. E’ l’augurio che vorrei condividere con tutti voi, prima che sia troppo tardi.