Tanzania, la maternità partecipata
di Michelangelo Chiurchiù
DAR ES SALAAM (primavera 2023) – Bite, la nostra segretaria del Centro Kila Siku, mi saluta radiosa al mattino quando entro in ufficio. La pancia è vistosa e lei, al contrario di altre donne incinte tanzaniane, non fa nulla per nasconderla. D’altra parte il riserbo è giustificato, oltre che da costumi rituali, anche dall’alto tasso di mortalità neonatale. Le faccio gli auguri, che ricambia col sorriso.
Il mattino dopo c’è aria di festa in palestra: Bite ha avuto un bambino!
“Ma quando?”.
“Stanotte”, risponde Chausiku, l’assistente sociale, amica del cuore.
Sono incredulo e chiedo alla suora che è ben informata. Mi racconta che il pomeriggio, uscendo dall’ufficio, Bite le confida che ha dolori molto forti ma rifiuta di essere accompagnata; preferisce prendere ben due daladala (i pulmini del trasporto pubblico di Dar) per tornare a casa dove ha già telefonato al marito.
La valigia è pronta e insieme vanno in ospedale.
Alle tre del mattino nasce Eliam!
Le suore del Centro organizzano una visita alla casa dei nuovi genitori. Si affitta un pulmino, i colleghi fanno una colletta per il regalo e tre giorni dopo, nel pomeriggio, si parte tutti insieme. La casa è lontana più di un’ora in mezzo al traffico di Dar.
Ci accoglie la mamma di Bite, siamo più di venti, e ci fa accomodare in due stanze pulite e modeste. Calde parole di benvenuto prima di presentarci, perché la mamma chiede di conoscere ognuno di noi.
Finalmente arriva Bite col marito e ci saluta uno a uno. Lei ci tiene a dire che è andato tutto bene e, davanti a noi, ringrazia il marito che le è stato vicino durante il parto. La cosa non è scontata ed è un segnale significativo della cultura che sta cambiando in Tanzania: anche gli uomini si assumono la responsabilità della paternità!
Le sorelle di Bite servono una cena a base di riso e pollo: c’è tanta aria di festa!
Terminata la cena arriva il papà con il piccolo Eliam: dalle coperte spunta un faccino delicato che dorme incurante dei complimenti che riempiono la stanza. Il papà mette in braccio a me, per primo, il piccolo: sono l’ospite d’onore e tocca a me il privilegio. Poi via via tutti i presenti.
Quando viene Bite ci alziamo tutti in piedi: prima si canta un canto festoso con i gridi di gioia come fanno in Tanzania; poi si prega il silenzio. A nome di tutti la madre superiora prende il bambino in braccio e ringrazia Dio per aver benedetto questa famiglia e augura al bambino ogni bene. Due colleghe, con parole semplici e commosse, esprimono il loro affetto e fanno gli auguri alla famiglia.
Chiedono a me di dire qualcosa: Valentina traduce in swahili. Sono emozionato. Ringrazio di cuore per avermi fatto partecipe dell’esperienza intima della paternità e della maternità e dico con sincerità che ho imparato dalla cultura tanzaniana ciò che vorrò trasmettere alla nostra cultura occidentale: la nascita non è un evento privato vissuto dai soli genitori se non addirittura dalla sola mamma, ma uno spazio di festa e di consapevolezza della comunità tutta. La maternità (la paternità) e la generazione dei figli è il vero fondamento della cultura tanzaniana.
E’ significativo che, d’ora in poi, Bite cambierà il nome: non la chiameranno più Bite ma “Mama Eliam”, la mamma di Eliam.