
Tanzania ten years later…
di Antonio Finazzi Agrò*
Novembre 2023, e poi di nuovo maggio 2024: rimetto i piedi in Tanzania per una manciata di giorni, in senso assoluto ridicolmente pochi, molti in termini di incastri e compromessi cui mi obbliga la mia agenda in questi periodi dell’anno. Sufficienti per mischiare insieme ricordi e nuove scoperte, tra ciò che sapevo o presumevo di sapere su questo angolo d’Africa e quel che invece mi si presenta oggi. Ci torno con in tasca un incarico di monitoraggio che ho accolto a braccia aperte, a quasi dieci anni dalla conclusione di una stagione di impegno umano e professionale a favore delle comunità tanzaniane così intensa e coinvolgente – ne sarò debitore in eterno a Comunità Solidali nel Mondo e alle altre ONG che condividevano con lei le medesime sfide in Tanzania – da considerarla tra le tappe evolutive fondamentali della mia formazione, come progettista sociale prima e dirigente di impresa sociale poi.
Era inevitabile che, a dissolvenza incrociata, sovrapponessi vecchie memorie, e vecchi appunti, a quel che qui mi è saltato addosso, da quando ho messo i piedi in aeroporto a Dar es Salaam se non prima quando preparavo la missione. La pulsione non del tutto controllabile, per uno come me abituato a guardare alle cose attraverso indicatori, dati e misure controllabili, era correre a compulsare le fonti statistiche, per trovare conferma a qualche privata intuizione su quelle evoluzioni in atto, o quel tenace permanere dell’impermanente che più di ogni altro aspetto caratterizza la Tanzania, che mi si imponevano tanto quando dialogavo coi leader istituzionali o comunitari, quando intervistavo le mamme dei bambini nei centri di Dar es Salaam e Mbeya, o quando attraversavo il mercato (della frutta, delle stoffe e di ogni altra cosa immaginabile e ragionevolmente commercializzabile) a Makambako o a Kawe.

E sì, i dati principali questo ci dicono, che la Tanzania è in transizione. La Tanzania è società niente affatto immobile, anzi è entrata a pieno titolo nel processo di rapidizzazione che sta sconquassando il mondo, ma ci è entrata a suo modo, col suo passo lento e cadenzato, portandosi dietro i propri ritardi e preoccupandosi poco, a voler essere ottimisti, o non potendo sostenere il ritmo, a voler essere pessimisti, della competizione globale. Perché negli ultimi dieci anni, superata la crisi globale della pandemia da Covid-19, tutto qui è in crescita: cresce il prodotto interno lordo, che si mantiene in una forbice tra il 4% e il 5,5%, crescono gli indici e i tassi di industrializzazione, sostenuti dagli investimenti pubblici e da quelli privati nel settore energetico, manufatturiero, alimentare e minerario, cresce l’investimento estero. Migliorano le infrastrutture, e si progettano nuove strade e ferrovie: è in partenza il cantiere per la prima vera autostrada a pedaggio, tra Dar es Salaam e Morogoro. La connettività pervade ogni cosa, e attraversa tutti gli strati sociali, anche i più poveri. Fa persino capolino IA: mi sono trovato a contrattare l’acquisto di alcuni manghi al mercato di Kawe con la mediazione di ChaptGPT, sapientemente compulsata dal giovane venditore del banco di frutta. Beninteso, badando bene nel frattempo a dove mettere i piedi, per non cadere nel canale di scolo maleodorante e a cielo aperto che attraversa il mercato e ogni strada.
Ma il punto di questa crescita, indubbia e costante, è che però si mantiene costantemente più bassa di quella intrapresa dagli altri “leoni” d’Africa (Nigeria, Ghana e Kenya su tutti), ma anche della media della crescita dei paesi subsahariani, e non permetterà alla Tanzania di colmare i suoi gap storici, men che meno se il raffronto è posto coi paesi OCSE. Se nel 2024 si avvierà davvero, come annunciato, il cantiere della prima autostrada a pedaggio, per un tratto di circa 120 chilometri, non si sarà posta che una proverbiale prima pietra dello sviluppo infrastrutturale viario tipico di un paese sviluppato; Dar es Salaam – Morogoro è una tratta sì strategica, perché supera un collo di bottiglia strangolato dal traffico pesante che tutti gli utenti costretti a spostarsi in auto da est a ovest in Tanzania conoscono bene, ma pur sempre irrilevante rispetto ai mille e più chilometri da un estremo all’altro, sull’asse longitudinale, del Paese percorsi da infinite teorie di camion malandati a sei assi che tentano di guadagnare il centro Africa dal porto di Dar es Salaam. Insomma, se andrà bene, si sarà realizzato poco più della Napoli-Portici del Regno delle Due Sicilie, del 1839.

In una sola cosa la Tanzania eccelle, e credo per conseguenza di alcune scelte ispirate dal suo fondatore, Julius Nyerere, ben poco disposto a barattare lo sviluppo con l’ineguaglianza e la dipendenza dai paesi esteri: la Tanzania rimane una società a vocazione tendenzialmente egalitaria, o perlomeno con diseguaglianze contenute, a paragone con altri paesi dell’area. L’indice di Gini – è una misura statistica, compresa tra 0 e 1, della distribuzione di una data caratteristica in una popolazione, ed è universalmente adottato come indicatore della distribuzione del reddito tra la popolazione – in Tanzania è rimasto costante, in una congiuntura internazionale di crescita generalizzata delle disparità di reddito e ricchezza, che ha colpito soprattutto i paesi a basso e medio sviluppo, con sistemi di welfare più deboli. Negli ultimi anni, l’indice di Gini della Tanzania si è attestato intorno a 0,405 (2018), mentre il Mozambico ha un valore di 0,54 (2014), il Ghana 0,435 (2016), e l’Uganda 0,427 (2019). Il Kenya, il paese che ha attraversato lo sviluppo più sostenuto nel recente ventennio, l’indice è allo 0,416 (2018). In Italia, paese nonostante tutto caratterizzato da sistemi di welfare, protezione sociale e redistribuzione del reddito a carattere universalistico, l’indice è allo 0,33 (2021).
Come mantiene questa sua performance la Tanzania, ovvero come tenta di mantenersi fedele ad una postura d’origine, voluta dal suo fondatore? Con un mix di scelte di politica economica, alcune lungimiranti altre meno, tra cui alcuni grigi e compromessi che colpiscono l’occhio, anche del più distratto dei visitatori. Il lavoro, quel po’ di lavoro che emerge dall’economia informale per essere assorbito in una ordinaria dinamica datoriale di mercato, è in Tanzania incredibilmente distribuito, a volte in modo molto fantasioso. Provatevi ad attraversare uno dei suoi aeroporti, per prendere un volo interno, con ciò inevitabilmente mischiandovi al ceto dei privilegiati, dato che tutti gli altri sciamano per il paese a forza di treno e bus quando possono permetterselo: sarete fermati non per un controllo, ma per due check con metal detector a nastro, all’ingresso dell’aeroporto e prima del gate e poi di nuovo all’arrivo, e per un numero imprecisato di altri controlli, alla partenza e all’arrivo, tutti incredibilmente ridondanti sino al puro non-sense, perché verificheranno, fino all’ossessività, le stesse cose, a distanza di pochi passi l’uno dall’altro: carta d’imbarco, a cui paiono interessatissimi, e documenti. E ogni controllo è segmentato, distribuito tra due o più addetti: occorre controllare passaporto e carta d’imbarco? Uno controllerà il primo, l’altro il secondo. A Mbeya hanno scelto di mantenere i vecchi protocolli Covid, per cui aggiungono controllo della temperatura e abluzione rituale con disinfettante delle mani del passeggero, per un totale di due addetti in più alle mansioni. Esigenza securitaria o vocazione alla distribuzione del lavoro? Propendo per la seconda delle ipotesi: il reddito, a parità di emolumenti corrisposti e corrispondente spesa pubblica, è distribuito tra più individui e famiglie. Il costo reale, aggiuntivo, dell’intera operazione è in realtà esternalizzato, e corrisposto dai viaggiatori, per lo più locali, in termini di lungaggini e molestie che però sopportano con serafica pazienza. Con quella pazienza e mitezza che è uno degli invidiabili tratti di questa comunità umana. Ho visto spazientirsi un solo viaggiatore nelle mie recenti esperienze, e ovviamente non era di qua.

Può su questi fondamentali la Tanzania affrontare la sfida dello sviluppo e della competizione con le altre economie? Forse, nei termini della pura competizione globale, no. Il rischio concreto è che, in una comunità internazionale dominata da paesi che controllano la scena dalle proprie torri di controllo, dai propri radar e dai propri sistemi satellitari, la Tanzania continui a guardare il mondo da dietro il parabrezza di un bajaji, dovendo accontentarsi delle briciole dello sviluppo, poco munificamente elargite dai distratti passeggeri suoi clienti. Ciò almeno finché il paradigma che regolerà i rapporti tra le società umane resterà la competizione globale. Perché se invece per poco si torcesse il paradigma, questo guardare il mondo dal basso di un reticolo di strade infangate piuttosto che dall’attico di una torre a Manhattan o Dubai svelerebbe tutta una serie di virtù, e vantaggi.
La Tanzania che ho ritrovato è un mondo brulicante, pieno di cose singolari e soprattutto stracarico di aspettative materiali e spirituali, di fame autentica di vita, quella fame di vita che in occidente stiamo smarrendo o abbiamo smarrito del tutto. Alcune mamme di bambini con disabilità con cui ho parlato a novembre, a cui chiedevo cosa le avesse portate ad arenarsi in miserabili tuguri a Dar es Salaam venendo dalle loro campagne, mi hanno consegnato una parola apri-mondo: “natafuta maisha”, cerchiamo la vita. I tanzaniani e le tanzaniane non cessano di cercare la vita, con pantagruelico appetito, neppure un secondo. È tutto uno sciamare, intraprendere “biashare” (biashara in swahili significa “commercio” o “business”), trafficare e commerciare a qualunque ora del giorno e della notte. Nessuno qui è così povero da non aver nulla da vendere, o comprare. In un certo senso questa è l’economia più inclusiva, su base comunitaria, del pianeta. Dà opportunità a tutti, e a tutti chiede di contribuire. L’amministrazione pubblica ha le sue falle, tranne quando si tratta di promuovere e organizzare feste e ricorrenze: allora la società tanzaniana si trasforma in una perfetta macchina organizzativa, e torna a credere nelle virtù del project management. Provate a ritrovarvi in una festa dell’indipendenza, con la “Mwenge wa Uhuru”, la fiamma dell’indipendenza accesa per la prima volta il 9 dicembre 1961 sul Kilimanjaro, che sciama di quartiere in quartiere a Dar es Salaam: vedrete masse umane che, in modo perfettamente ossimorico, ballano e cantano con perfetta e sincronizzata disciplina, senza l’ombra del disordine pubblico.

La Tanzania che ho ritrovato, hegelianamente, innova e insieme conserva. E non parlo di valori morali o spirituali, più o meno astratti, parlo di valori materiali, di puro attaccamento alla dimensione materica della vita. Mi è capitato di vedere su un nastro trasportatore delle valigie un bastone, che era stato imbarcato da un passeggero. Non parlo di un elegante bastone da passeggio, e neppure di un manufatto remotamente levigato da mano artigiana; no, parlo proprio di un nodoso ramo, di quelli che ciascuno di noi durante una passeggiata ha raccolto su un sentiero per servirsene e poi ha accantonato a bordo strada. Nessuno da noi conserverebbe un bastone, men che meno lo porterebbe con sé in quell’esclusivo privé che è pur sempre un aeroporto, mentre qui la cosa non sorprende nessuno. Se il mondo-ambiente è, per dirla con Heidegger, l’insieme degli utensili e dei mezzi che istituiscono il senso dell’essere, disvelando come servircene, si direbbe che un semplice bastone rientri a pieno titolo tra questi rimandi, potendo coesistere con lo smartphone e l’asettico ambiente internazionale di un aeroporto. Finché questa comunità potrà permettersi il lusso di conservare un bastone, non correrà il rischio di smarrire le ragioni profonde, ad esempio, della propria conquistata indipendenza.

La Tanzania che ho ritrovato è esente da qualunque forma di cinismo. Crede alla vita ciecamente, e la celebra in tutte le sue forme. La sua prorompente dinamica demografica, che si manifesta nel nugolo di bambini che ti salutano divertiti ad ogni crocicchio e angolo del paese, è figlia di questa carica spirituale più che delle culture tradizionali che ancora attraversano la Tanzania. La vita come forma collettiva ben più che come dominio dell’individuo: persino la palese ostilità della società tanzaniana, come di molte altre società africane, ai diritti individuali di identità di genere e affettività, si iscrive pur con tutta la sua cupezza e la sua incipiente violenza, che certo non suscita alcuna simpatia da parte nostra, dentro questo culto per la propagazione infinita della vita, a cui ogni persona è tenuta a offrire tributo, come parte della ragione per cui è nel mondo.
La Tanzania che ho ritrovato ha un suo tratto di fierezza e attaccamento alla propria indipendenza, che la rende poco malleabile alle richieste e alle sollecitazioni esterne, persino di chi vorrebbe sostenerla con gli strumenti caratteristici della cooperazione. Colleghe e colleghi qui impegnati nella gestione di programmi e progetti specifici implicanti un rapporto di collaborazione istituzionale, o con attori scientifici, universitari o dei sistemi sanitari, mi raccontano della fatica reale che devono affrontare ogni qual volta devono ottenere dalle autorità una firma o un visto di adesione a questo o quel protocollo, questo o quell’accordo, questo o quel “memorandum of understanding”, anche quando palesemente le disposizioni contenute sono per disporre aiuti e sostegni allo sviluppo locale. Qui non sono affatto disposti a firmare in bianco ciò che sottoponiamo loro, solo perché la proposta proviene da un contesto più ricco e sviluppato in grado di offrire opportunità e risorse. Compatisco la fatica delle colleghe e dei colleghi, e delle ONG che rappresentano, ma contemporaneamente non riesco a non simpatizzare anche con quelle istituzioni che, memori della propria storia, non accettano alcuna posizione supina e subalterna. Non prima di aver discusso ogni cosa, in ogni aspetto, e di averla fatta propria, ciò costasse anche giorni di riunione. Posso solo augurarmi che le autorità strutturino con la stessa schiena dritta i rapporti non solo con le ONG, che sono in fondo anche qui una soggettività debole e disarmata, ma anche con poteri economici e politici esteri ben più agguerriti e muniti di strumenti di imposizione.
La Tanzania che ho ritrovato è, infine, una società che convive piuttosto spensieratamente con le proprie difficoltà, i propri “changamoto” piccoli e grandi. Changamoto è un’altra di quelle parole apri-mondo che ricorre in ogni conversazione, specie in un contesto manageriale orientato a decidere, intraprendere, organizzare. Qui la determinazione occidentale, e la sua ingenua volontà di potenza e controllo, è sempre in bilico su qualche “changamoto” inatteso e insospettato, risolto il quale se ne presenta un altro, e poi un altro e un altro ancora. Finché non capisci che “changamoto” è proprio una categoria socio-esistenziale, è il modo in cui si svolge la vita agli occhi di un tanzaniano. Ci sono due modi di affrontare i “changamoto”: uno, quello tipico occidentale, è provare ad abbatterli spianandosi la strada come un bulldozer, angosciandosi però moltissimo per la riottosità delle cose, irriducibili come sono a un pieno controllo tecnico; l’altro, quello tipico tanzaniano, è aprirsi un varco tra mille ostacoli, come farebbe l’acqua, o un bajaji o un piki piki (moto) nel convulso traffico di Dar es Salaam, avendo fiuto per la vita e le sue infinite possibilità. Non è detto che il secondo modo sia così peggiore del primo.
* Antonio Finazzi Agrò è progettista sociale e dirigente di impresa sociale. Prende così tanto sul serio il suo mestiere di progettista da avervi consacrato un’associazione, l’Associazione Italiana Progettisti Sociali, di cui è stato fondatore e presidente, e oggi vicepresidente. Oggi è presidente de La Nuova Arca, realtà di solidarietà romana dedicata al mondo dei nuclei monogenitoriali “madre bambino”, dei migranti e dell’agricoltura sociale. Sposato con Claudia, è papà di Lorenzo e Davide.