
In Tanzania, senza fretta
di Aurora Stramacci, Project Administrator
È un martedì pomeriggio e, mentre mi dedico alle mie faccende d’ufficio, penso e ripenso a queste mie righe. Decido di scrivere a Giovanna, per parlare di un episodio che vorrei raccontare. Voglio sapere se mi ricordo tutto per bene, e se posso fare il suo nome in questo testo. Lei mi risponde entusiasta, mi invia delle foto da poter pubblicare, dice di emozionarsi a ripensare all’anno trascorso da civilista a Dar es Salaam. Mi scrive, tra le altre cose, che riguardo a Nurat c’è qualcosa che mi sconvolgerà.
Prima però vorrei fare un bel passo indietro.
Nel 1970, dodici periti ferroviari cinesi si misero in viaggio, percorrendo a piedi la distanza che separa Mbeya da Dar es Salaam, più o meno quella che divide Palermo da Bologna. In nove mesi di cammino, tracciarono e allinearono la linea ferroviaria lungo gli altopiani sud-occidentali. Nel 1975 la ferrovia arriverà a collegare Tanzania e Zambia e verrà inaugurata con il nome di Tazara.
Haraka Haraka haina baraka: ho sentito questa espressione da qualche parte, e ora, come fosse un mantra, continuo a ripeterla senza sosta. La Tazara, nessuno sa a che ora parte. L’unica cosa certa è che lo farà solo quando tutti saranno a bordo. Ogni martedì lascia Dar es Salaam e attraversa tutto il paese verso sud ovest, per poi valicare il confine e arrivare a Kapiri Mposhi, Zambia, dio solo sa quando. La partenza, quest’oggi, era attesa per le 13.00, stimata per le 15.00 e ora sono le 15.45. Valentina mi aveva avvisato, ma adesso quest’attesa sta sfiancando anche lei.
Una settimana fa sono atterrata in Tanzania, rimettevo piede in Africa dopo tre anni pandemici. Ho letto una volta, e adesso mi pare proprio vero, che la parola “viaggio” deriva dal latino viaticum. E no, non indica l’atto di andare da A fino a B, ma l’occorrente di cui necessitiamo per farlo. Intorno a me i bajaji scaricano i viaggiatori e le loro valigie. Ovunque si affollano persone, si accampano sui marciapiedi con le loro shangazi e le loro taniche piene di chissà cosa, consumando acqua, cibo e soda, ripartendo le razioni per il lungo tragitto che le aspetta. Ho l’impressione che il mio viaggio stia iniziando solo adesso.
Noi comunque un punto B, un obiettivo, ce l’abbiamo. A Ifakara andiamo a incontrare i nostri partner, il Saint Francis Referral Hospital e l’Università di SFUCHAS. Con loro mandiamo avanti le attività per la formazione e la cura dell’epilessia. Valentina, che sa già cosa aspettarsi, mi ha detto che, se saremo fortunate, entreremo nel parco nazionale del Mikumi prima che faccia buio. Il panorama è mozzafiato, gli animali della savana sono visibili dal treno. Sarà proprio come un safari, proprio come in swahili si dice “viaggio”. Ma intanto, mentre attendiamo e attendiamo, il tempo scorre e qui il sole tramonta presto. Haraka Haraka Haina Baraka.
Quando finalmente siamo dentro, realizziamo che il treno non è vintage, è solo vecchio. Noi viaggiamo in prima classe e questo concetto di prima classe ci strappa più di un sorriso. Nella cabina, arredata con dettagli rosa shocking e animata da una musica a tutto volume, siamo in cinque: noi, una ragazza giovanissima e una mamma con un bambino. Entrambi sembrano non essere in salute, la donna ci dice c’era stato un errore: in un primo momento li avevano messi in cuccetta con gli uomini. Qui funziona così, donne e uomini viaggiano separati sul treno. Adesso hanno a disposizione più spazio, anche se lo useranno in modo bizzarro. Lui, già a pochi minuti dalla partenza, dorme col respiro pesante in un piccolo angolo del materasso, mentre lei siede a terra aggrappandosi alle valigie.
Mentre il treno procede a una velocità irrisoria, guardo il panorama sfumare fuori dal finestrino. Mi viene da pensare ai fatti miei. Tra quattro giorni sarà il mio compleanno e sono lontana dai miei cari; nello zaino ho una scatolina, un regalo che mi è stato lasciato alla mia partenza, potrò aprirlo sabato, quando avrò compiuto trentuno anni. Questo forse è il mio viatico, che in italiano vuol dire: “conforto, sostegno, aiuto a chi ne ha bisogno per superare un problema, portare a termine un’impresa, e così via”.
La ragazza giovane interrompe il flusso dei miei pensieri e mi offre delle patatine di cassava dalle striature rossastre. Ne metto una in bocca e subito divento paonazza, sento la bocca bruciare e ho l’impressione che potrei strozzarmi. Lei scoppia a ridere e così tutte nella cabina. Il piccante qui non è roba da wazungu. Nella confusione il bambino s’è svegliato e si tocca la pancia gonfia, l’ombelico fa capolino dalla maglietta a righe. Sul volto ha una dermatite da sudore. Sembra felice. Sua madre è una donna sulla quarantina, ci dice che entrambi hanno il coronavirus. Così iniziamo a giocare con lui, Valentina lo fa ridere con il suo swahili fluente, di cui mi fa una traduzione istantanea. Lo minaccia che lo mangerà perché è affamata e ha proprio voglia di gustarsi un mtoto, un bambino. Gli chiede dove stanno andando e perché, e lui dice che sono diretti a Morogoro per fare i capelli alla nonna. È sempre più euforico, ora salta, si contorce, ci abbraccia. La donna fa un gran sospiro ed esce dalla cabina senza dire niente. Va a prendere un po’ d’aria, tornerà solo dopo un paio d’ore.
Ho sempre creduto che tutto mi riguarda nella misura in cui mi compete. E adesso, mentre lo rincorro per i corridoi, lo tengo per mano ed evito che si sporga troppo dal finestrino, penso di essermi almeno parzialmente sbagliata.
Intanto è successo: si è fatto buio prima di entrare nel parco. Il sole è sceso lentamente quasi davanti a noi, specchiandosi sulla superficie metallica del treno e sugli acquitrini lungo i binari. Siamo ancora lontane, ancora molto lontane. E tutto il tempo e lo spazio che ci separano dal nostro punto B sembrano un vuoto incolmabile.
Io allora ancora non lo sapevo, di Nurat. L’avrei conosciuta solo qualche mese dopo nel centro di riabilitazione Antonia Verna, poco prima di lasciare la Tanzania. Sua nonna, la bibi, quel giorno ha portato la sua famosa cassava cotta a carbone. Ha osservato tutto il tempo mentre i fisioterapisti si dedicavano alla nipote. La bambina, tenuta in posizione eretta su uno standing, fissava il vuoto. L’esercizio, in quel momento, consisteva nel darle stimoli continui: a voce, toccandola, col contatto visivo. Nurat è affetta da paralisi cerebrale infantile. “Il fatto – ha spiegato Giovanna – è che quando riceviamo una risposta da lei, non sappiamo se sia volontaria oppure no. Non possiamo sapere se questo o quello sono movimenti di riflesso, spasmi, o una vera risposta allo stimolo. Non sappiamo se ci sente, e se può codificarci”. A me è sembrato un vuoto incolmabile. Mi sono chiesta quale poteva essere un punto B. Dov’è che fossimo diretti, lì tutti intorno a Nurat, se fossimo almeno in grado di renderle un viatico per affrontare la sua impresa.
Intanto la bibi si muoveva con compostezza. Aiutava ogni volta che c’era bisogno di spostare la bambina. Ci passava il panno per asciugarle la saliva dalla bocca, un secondo prima che questa diventasse evidente. Parlava, faceva dei larghi sorrisi, tornava seria e poi ricominciava. Giovanna, senza alcun cedimento, continuava a battere sul legno dello standing, dicendo “guarda” o chiamandola per nome. Andavano tutti avanti, incessantemente, con la lentezza che contraddistingue la staticità apparente.
Adesso, mentre scrivo, è il mese di giugno del 2024, ed è passato un anno dall’ultima volta che ho visto Nurat. Torno a guardare il messaggio di Giovanna. Se ti ricordi la gravità delle sue condizioni, ti sconvolgerà sapere che una volta ha pure parlato. Ha detto “poa” e “wao”. E poi più niente. Ma almeno è stato un segno di vita.
È notte fonda ormai, il treno inchioda bruscamente, svegliandoci di soprassalto. Qualcuno dal corridoio ci grida “Ifakara, Ifakara”. Io e Valentina raccogliamo le nostre cose, gettando un ultimo sguardo sulla mamma e il bambino addormentati. Morogoro era molte fermate fa, chissà adesso che ne sarà del loro viaggio. Per scendere dobbiamo fare un salto di più di un metro, atterrando sull’erba altissima, ben lontane dalla banchina. La stazione è completamente al buio, e non c’è niente di più buio della notte africana. Abbiamo impiegato 10 ore per fare solo 400 chilometri, e quando ormai avevamo smesso di attendere, siamo arrivate.
È proprio così che si dice qui in Tanzania. Haraka Haraka Haina Baraka: la troppa fretta non è benedetta.