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Giovanna, i cinque sensi e la sua Tanzania

Giovanna, i cinque sensi e la sua Tanzania

22 Novembre 2023

Il gusto, l’olfatto, il tatto, la vista e l’udito: quello che vi presentiamo è, attraverso un percorso basato sui cinque sensi, il racconto di un anno di Servizio Civile Universale in Tanzania e di come quell’esperienza ha saputo portare nuove ed inattese sensazioni, tutte con un loro significato e un loro perché. Non è un resoconto scontato o formale, quello che al termine del suo servizio ci regala Giovanna Di Riso, ma una serie di immagini puntuali che ci restituiscono uno scorcio di vita personale, e ci permettono di osservare più da vicino l’impatto avuto da una ragazza alle prese con un viaggio che come nessun altro ha saputo stimolare e mettere alla prova i suoi sensi.

Giovanna ha vissuto con Comunità Solidali nel Mondo l’esperienza di un anno di Servizio Civile in Tanzania da settembre 2022 a settembre 2023: dodici mesi intensi, nei quali è entrata in relazione con le comunità locali, dando e ricevendo; dodici mesi di impegno e di conoscenza di una realtà radicalmente diversa da quella italiana. Un cammino da lei vissuto nella città di Dar es Salaam presso il centro A. Verna Kila Siku, del cui periferico quartiere di Kawe (in cui il centro è collocato), Giovanna ci restituisce alcune delle atmosfere che ha potuto vivere in prima persona. Indelebile è e resterà il sentimento di ringraziamento che Comunità Solidali nel Mondo le esprime. Ecco di seguito la riflessione che Giovanna ci ha regalato a conclusione del suo anno di Servizio Civile.

I miei sensi, la mia Tanzania

di Giovanna Di Riso 

Fino ad oggi, mai nessun viaggio aveva così tanto stimolato e messo alla prova i miei sensi.
Tutto parte dalle labbra. La sperimentazione di nuovi sapori è sempre un’avventura, se non piacevole, quantomeno interessante: nuove consistenze e nuovi gusti allettano e stuzzicano il palato ogni volta, che siano oramai cibi conosciuti o pietanze novelle. A volte, è vero, sono stata contenta di mangiare quasi al buio: meglio non sapere cosa ci fosse nel piatto ma muoversi a tentoni, con le mani incerte che sondano il terreno inesplorato, in quello stesso piatto, e capire solo dopo aver introdotto il cibo in bocca è stata una sfida intrigante e a fine pasto ogni volta gustosa.

L’olfatto spesso ha patito gli odori pungenti, forti, decisi. Vorrei poter dire che dopo un po’ ci si abitua ad alcune fragranze, ma la verità è che restano sempre ugualmente fastidiose e sempre nuove, ogni volta, pure se le hai appena respirate il giorno prima. Le narici si impregnano di odori che non si sa da dove e da cosa provengano: macerazione e marciume, sudore (io stessa ho cambiato odore), il sangue dei polli appena ammazzati ancora vivo che cola a fiumi tra le bancarelle del mercato, urina, feci, plastica e rifiuti bruciati. Poi, però, ti capita sotto il naso un bambino che sa di quel profumo inconfondibile e inebriante di bambino e olio di cocco; la terra rossa, arsa e brulla, si bagna dopo un acquazzone violento e si fa strada, al mattino, appena svegli, l’odore del terriccio umido che profuma, a quanto pare, allo stesso modo ovunque e ti riporta a casa pure se sei dall’altra parte del mondo. Un mango o un passion fruit diventano capaci di raccontare profumi esotici e di far sussultare l’olfatto e pure la lingua ad ogni assaggio.

Ti svegli sulle montagne di Morogoro sopraffatto dal profumo di cardamomo e cannella. Sei al centro e per le stanze si sparge l’aroma speziato del chai. Corri in spiaggia e sale violento l’effluvio del mare. Così il naso finalmente si ambienta, è come ritornare a respirare dopo l’apnea. Quando si riemerge vincitori da questo battesimo di esalazioni, pure i dagà al mercato iniziano a sapere di buono.


E il tatto. Entrare a piedi nudi nella casa di qualcuno è forse la più alta forma di rispetto e reverenza. Vuol dire che mi spoglio e lascio che la carne nuda prenda contatto, senza precauzioni e senza barriere frammezzo, eppure, spesso, mi sono chiesta dove stessi camminando e su cosa poggiassi, cosa avrei pestato e cosa avrei raccolto. Poi diventa abitudine, i muscoli si rilassano e la pianta si allarga, esplora e scopre nuovi terreni; delle scarpe quasi ci si dimentica ma non sempre i piedi si sono sentiti sicuri nel procedere senza conferma degli occhi. 

Così entra in gioco la vista, indispensabile al punto che si impara in fretta a farne a meno: le luci sono così fioche che il buio il più delle volte la fa da padrone, bisogna per forza abbandonarsi, aguzzare i sensi che restano e andare alla cieca. Ma quando il sole sorge e rischiara ogni cosa, gli occhi si riempiono di meraviglia e colori brillanti. Le foglie sembrano più verdi, la terra ha il colore del vino e il sole stesso è così lucente da incendiare il cielo della Tanzania, che ci ha regalato lune nuove e lune piene splendenti, un manto di stelle e la via lattea come nuovo tetto sulla testa quando quello di casa non ci è più bastato, e Venere e Marte a portata di mano, quasi a un tiro di sasso.

E l’udito? Dimenticavo l’udito. Quello è andato a farsi benedire dopo il primo mese di vita qui. Kawe è tutto fuorché un posto tranquillo e silenzioso.

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