Celebriamo il volontariato, ogni giorno.
Oggi si celebra la Giornata internazionale del volontariato e quest’anno le Nazioni Unite hanno scelto di sottolineare il tema della solidarietà attraverso il volontariato: per noi non c’era un modo migliore di farlo se non intervistando il nostro Presidente, Michelangelo Chiurchiù, in un ritratto appassionato e vivido di una vita solidale, al servizio degli altri.
Michelangelo, la tua prima esperienza significativa nel terzo settore è con don Luigi Ciotti in una pionieristica comunità di recupero, per poi continuare con il Gruppo Abele e con Capodarco. Dal 2007 sei Presidente della nostra associazione, Comunità Solidali nel Mondo, che si occupa di garantire le cure e restituire dignità ai bambini con disabilità e alle loro famiglie in Tanzania. Nei tuoi tanti percorsi di solidarietà hai incontrato decine, centinaia di volontari: qual è, tra tutti, il ricordo che ti suscita ancora oggi maggiore emozione?
Leggere la domanda mi ha fatto riflettere sul mio percorso e la prima cosa che posso dire è che in questo percorso ci sono anch’io come giovane: un giovane che si rivede allo specchio, a distanza di quarantasette anni dalla prima esperienza strutturata che ho fatto presso il Gruppo Abele e poi dal 1976 nella mia Comunità di Capodarco. Facendo un bilancio, perché quando si hanno i capelli bianchi è inevitabile farlo e farlo spesso, io mi ritengo soddisfatto. Rifarei tutto ciò che ho fatto perché l’ho fatto in coerenza con la migliore cultura e sensibilità dell’epoca. Mi riferisco, in particolare, all’esperienza di quel ‘68 “minore”, di cui poco si parla, caratterizzato da scelte radicali che erano la traduzione delle scelte politiche che ognuno di noi maturava. Per molti miei compagni dell’epoca la scelta politica, infatti, si traduceva in assemblee, riunioni di partito, organizzazione di dibattiti, di assemblee, di manifestazioni. Ma per una parte di noi, una minoranza, l’opzione politica si traduceva in scelte di vita a fianco di persone fragili: per me ha significato la vita in una comunità insieme a persone con disabilità.
Vivere in comunità significava lasciare la propria casa, per vivere in una nuova famiglia. Ricordo come a un certo punto in Comunità mi abbiano chiesto di assumere il ruolo di Responsabile degli obiettori e dei volontari. E ricordo anche di aver detto subito “facciamo!” e mai “fate!”. Ritenevo, e ritengo ancora oggi, che la credibilità non si guadagna per titoli o per ruoli ma sul campo. Allora c’era una circostanza legata agli obiettori: quella della residenzialità. In sostanza, agli obiettori che venivano inviati dal Ministero della Difesa si chiedeva di svolgere il servizio civile in comunità 24 ore su 24, lasciando la propria casa e vivendo nei gruppi famiglia. Questa circostanza era prevista anche per chi era precettato, quindi per le persone che non avevano scelto Capodarco come destinazione ma erano state inviate dal Ministero perché lì c’era bisogno, al pari di quanto accadeva per il servizio militare. Per loro la residenzialità era una difficoltà, un vero e proprio trauma, per cui si creavano attriti, tensioni e situazioni non semplici da gestire, anche tenendo conto del fatto che altri enti non chiedevano il medesimo impegno. Ecco, in quella occasione ricordo di aver avuto la determinazione di chiedere a tutti la stessa esperienza di vita in comunità, nel rispetto delle regole che tra l’altro ci venivano dettate dal Ministero della Difesa che aveva il compito della gestione degli obiettori. L’ho fatto perché ero certo che questo distacco dalla famiglia fosse una possibilità di crescita, visto che lo avevo sperimentato sulla mia pelle: per me era chiaro come solo così si potessero capire le sfumature di certe realtà, sfumature che sarebbero sfuggite vivendole solo 6 ore al giorno per 5 giorni a settimana.
Nella stragrande maggioranza dei casi andava proprio così: quello che sembrava un ostacolo insormontabile diventava esperienza di vita gratificante perché si creavano nuove relazioni, nuovi affetti, si dava un senso nuovo alla cura di persone con disabilità che prima sembravano distanti e che all’improvviso diventavano parte della propria vita. Soprattutto, riconoscendo nomi e volti spariva la distinzione tra assistente e assistito.
Qualche giorno fa (il ricordo mi suscita ancora emozione) un personaggio pubblico di cui sono amico, mi chiama al telefono e mi confessa: “Senti, a distanza di 25 anni dall’esperienza in comunità posso dirti che avevi ragione”. Gli chiedo il perché e mi spiega che vivere in comunità gli ha cambiato la vita; oggi è convinto che il Servizio Civile debba essere obbligatorio per tutti.
Mi sono ricordato di quando ci scontravamo di quanto abbia faticato per questi scontri; ma sono ancora più convinto che, anche se non riconosciute da tutti, queste sofferenze hanno dato un senso alla crescita di tante ragazze e tanti ragazzi che mi sono stati accanto.
A pensarci bene questo è stato il mio apporto per un cambiamento della società che io avevo sognato radicale e rivoluzionario: se poi sia stato effettivamente “radicale” lo lascio giudicare alle migliaia di giovani che ho incontrato sulla mia strada.
Tra le tue attività rientrano anche diverse pubblicazioni: ne citiamo una, “Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale”, un libro a cui hai collaborato e che raccoglie i contributi di alcuni tra i nomi più prestigiosi della riabilitazione e dello studio dell’handicap (Augusto Battaglia, Andrea Canevaro, Marcello Mario Pierro e Anna Maria Sorrentino).
Per le famiglie che affrontano, giorno dopo giorno, le necessità di cura e di assistenza di un bambino o ragazzo disabile grave, definito “figlio per sempre” per la continua e indispensabile necessità di qualcuno che lo accudisca come un genitore anche quando il genitore non c’è più, come si declina e che significato assume la parola volontariato? Come si caratterizzano l’impegno e la dedizione dei familiari che diventano, in un certo senso, “volontari per sempre”?
Quel libro è nato dalla presa d’atto della necessità di evidenziare lo sforzo che facevano i genitori che avevano figli con disabilità, specialmente se con disabilità mentali. Ricordo che nel corso di un’intervista sul Manifesto, un giornalista di grande valore umano, proprio in occasione della Giornata del volontariato, mi chiese la mia idea sul tema e io gli dissi: “Occorre volontarizzare i professionisti e professionalizzare i volontari”. Intendevo dire che secondo me occorre mettere insieme le due caratteristiche, quelle del professionista e quelle del volontario, perché entrambi possono svolgere un servizio adeguato. Il libro è un modo per porre l’attenzione sulla questione del “dopo di noi” perché questo aspetto ha una validità molto importante anche oggi. Le conquiste legate all’integrazione sociale, all’integrazione scolastica, sono molto fragili: occorre sempre proteggerle con qualcosa in più, qualcosa che in passato, negli anni 70/80, era rappresentato dal clima sociale e culturale di partecipazione e di attenzione, per cui c’era una sensibilità viva. Era un clima generale caratterizzato dall’idea di rimuovere le cause dell’emarginazione sociale, un clima in cui ci si accorgeva maggiormente di questi aspetti e infatti è stata la stagione in cui sono nate la maggior parte delle leggi relative alle questioni di cui parliamo oggi (la 180, la riforma Gozzini sulle carceri, la 118, la riforma del sistema sanitario per garantire la sanità per tutti, ecc.), proprio perché il periodo era favorevole. Dunque, se c’è questa sensibilità anche la società civile è pronta a raccogliere le sfide del sostegno alle persone in difficoltà così come alle stesse famiglie.
Oggi questo libro è ancora attuale perché è necessario rinnovare le ragioni per cui i problemi di cui parlavamo prima possano essere considerati problemi di tutti. La tendenza attuale è di affidarsi agli specialisti per la cura e la presa in carico di situazioni difficili: tendenza dettata da una presunta convenienza economica che nasconde molto spesso una chiusura di fatto generalizzata a chi è “diverso”, a chi ha bisogno di maggiori attenzioni. E questo è un tornare indietro!
Significa, di fatto, la rinascita degli istituti con tutto quello che di negativo negli anni Sessanta avevamo scoperto frequentando come volontari quei luoghi dannati: disumanizzazione delle relazioni, negazione della vita e del futuro. Le istituzioni totali, ce lo avevano insegnato gli studiosi che abbiamo conosciuto come “maestri del sospetto”, servono soprattutto a definire chi è diverso (e sta rinchiuso dentro) e chi è normale perché sta al di là del muro di cinta.
Questo approccio purtroppo è tornato di “moda” oggi, con la tendenza a privilegiare identità forti e divisive. È importante continuare a parlarne: proprio qualche giorno fa, sul Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo che sottolinea la necessità di affrontare il tema del “dopo di noi” da subito, prima della scomparsa dei genitori, perché solo così si può creare un clima di solidarietà semplice, capace di consentire la condivisione di questo problema anche con altre famiglie, siano esse nella stessa situazione o meno. In questo modo si può alleggerire il ruolo di “volontari per sempre” dei genitori o dei fratelli e sorelle delle persone con disabilità e anche queste piccole esperienze hanno un loro valore, importante, e devono essere incoraggiate.
Lo scorso anno hai inviato all’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi una lettera in cui identificavi il servizio civile come una bottega della democrazia, riprendendo anche le parole di Luca Antonini, giudice della Corte Costituzionale, che aveva precisato: “L’educazione al bene comune è quello che forma il cittadino in grado di essere un protagonista della vita sociale, economica e politica del nostro Paese”. Quali strumenti suggeriresti alla politica e alle istituzioni per valorizzare il Servizio Civile e fare in modo di trasmettere ai giovani l’importanza di un’esperienza così significativa di volontariato e di vita?
Parlando anche in questo ambito in termini di bilanci, ritengo che l’attenzione, anzi l’ossessione, per i giovani sia stato il tratto che ha dato il significato più profondo alla mia esperienza professionale. Il Servizio Civile, negli anni, ci ha preservato da derive che secondo me ancora oggi sono in atto e mi permetto di sostenere che abbiamo svolto una funzione suppletiva rispetto alle istituzioni ufficiali come la scuola o l’università, perché queste, spesso, non sono state capaci di trasmettere il senso dell’impegno per una cittadinanza attiva.
Lo strumento che suggerisco è una battaglia da condividere e vincere, a mio parere, per inserire il Servizio Civile in un cammino organico: scuola, università, associazionismo e servizio civile, in modo che si crei un percorso strutturato, al cui interno si possa offrire ai giovani varie strade, compresa quella del Servizio Civile appunto. La proposta concreta è che si arrivi a far sedere allo stesso tavolo i rappresentanti della scuola, dell’università, delle associazioni laiche e cattoliche, delle Chiese, degli Enti che gestiscono oggi il servizio civile per elaborare insieme una strategia educativa e formativa utile a condividere gli strumenti da dare al giovane di domani per aiutarlo ad affrontare in modo adeguato e con pienezza le sfide del Terzo millennio. Ritengo che questa strategia formativa oggi non sia chiara e soprattutto non sia condivisa. Alcuni elementi fondamentali di questa strategia, sicuramente funzionali alla vita sociale e politica del giovane consapevole di domani, vanno necessariamente condivisi, per poterli poi far entrare nella formazione dei giovani. Concludo suggerendone alcuni: l’educazione alla responsabilità, l’educazione alla politica come luogo del bene comune, il lavoro manuale e l’educazione alla nonviolenza.
Abbiamo dimenticato l’importanza della nonviolenza e soprattutto di educare alla nonviolenza come ci aveva suggerito, in tempi non sospetti, Aldo Capitini. In questo mondo sconvolto dalle guerre forse siamo stati troppo deboli, e di questa nostra debolezza dobbiamo farci carico, perché non abbiamo investito nel pensare che la nonviolenza è un’alternativa reale a una società intrisa di violenza. Un’alternativa che deve essere interiorizzata e praticata non da pochi o da alcuni, ma da tutti.
Michelangelo Chiurchiù studia filosofia e teologia all’Università Gregoriana, sviluppando nei primi anni ’70 la passione per il terzo settore. La prima esperienza significativa è con don Luigi Ciotti nel Gruppo Abele in una pionieristica comunità di recupero. Dal 1976 entra a far parte della Comunità di Capodarco di cui diventerà, per anni, dirigente. Dal 2007 è Presidente di Comunità Solidali nel Mondo, a cui dedica quotidianamente le sue energie per consentire all’Associazione di perseguire la sua missione principale: dare dignità e speranza alle persone con disabilità e alle loro famiglie nel Sud del mondo.
Grazie Michelangelo!