
Un anno di Servizio Civile, che cosa ci portiamo via
Un anno dopo. Ci sono i saluti e gli abbracci, le lacrime e i sorrisi, gli scatti finali di gruppo e le ultime cose da mettere in valigia. Quella vera, che sarà imbarcata sul volo che li riporta in Italia, e quella invisibile ma altrettanto reale, fatta di ricordi, di emozioni, di senso e di significato. E’ giunta al termine l’avventura del Servizio Civile Universale 2024/25: è tempo di lasciare l’Africa, di salutare la Tanzania e di far rientro in Europa, in Italia, ognuno nella propria città, ognuno alla propria vita.
Dodici mesi di esperienza all’estero per quindici operatori e operatrici volontari del Servizio Civile con Comunità Solidali nel Mondo. Quindici giovani da ringraziare: per la loro scelta, per il loro impegno, per esserci semplicemente stati. Candida Zani, Maria Chiara Grasso e Chiara Della Mora a Mbeya; Elena Di Felice e Federica Fino a Ilembula; Chiara Lo Presti, Samantha Cippiciani, Anna Azzarelli e Gregorio Giacchetti a Ikelu; Letizia Bevilacqua e Greta Mion a Ilunda; Yasmine El Masri, Davide Landanesi, Giada Tagliente e Benedetta Valoti a Dar es Salaam.
E’ stata per loro un’esperienza che è andata ben oltre il semplice volontariato: ragazze e ragazzi parlano, nei racconti che ci hanno lasciato in eredità, di giornate piene di significato, di sorrisi contagiosi, di momenti difficili e di consapevolezze profonde. Un viaggio attraverso nuove culture, con incontri profondi e una nuova scoperta di loro stessi.
Il primo impatto e lo spaesamento iniziale
Rileggiamo il loro percorso prendendo alcune delle testimonianze che ci hanno voluto lasciare in queste ultime settimane di servizio. Ad iniziare (e potrebbe mai essere diversamente?) dallo spaesamento iniziale di fronte ad un nuovo mondo da esplorare. All’arrivo infatti tutto sembra estraneo, diverso,
“Prima di atterrare in Tanzania non avevo ben afferrato il senso profondo del Servizio Civile: le prime emozioni provate al mio arrivo sono state di confusione e spaesamento”.
“In tutta onestà, non posso nascondere quanto questo primo impatto all’epoca mi avesse molto spaventata: in alcuni momenti ho pensato davvero di non essere in grado di tener fede a un impegno simile per un intero anno”.
“Sembrava fosse iniziato nel peggiore dei modi: mi sentivo spaesata, sola e con la sensazione di trovarmi nel posto sbagliato. Nei primi mesi di servizio avevo la costante impressione di non avere un ruolo, di non servire a nulla. Eppure, con il tempo, ho preso consapevolezza proprio di questo: io qui ‘non servo’, ma in senso positivo, quasi liberatorio. Non sono qui per cambiare le cose o fare grandi miracoli: sono qui per esserci, nella semplicità, nella mia piccolezza, nel quotidiano”.

Sfide e conquiste: crescere attraverso le difficoltà
Ben presto ogni giorno diventa un’occasione di conoscenza nuova. E ci sono le “prime volte”, tante prime volte. Quella di quando si riesce ad esprimersi davvero con qualcuno in Swahili e si comprende anche emotivamente, oltre che razionalmente, il perché si è fatta tanta fatica nell’imparare i rudimenti della lingua locale. Quella della prima palla che rotola e rompe l’imbarazzo con un giovane locale, quella della prima coccola ricevuta da una bambina, magari al termine di una giornata difficile.
“Il corso di Swahili, nonostante le difficoltà iniziali, ha dato poi i suoi frutti e mi ha aiutato tantissimo a integrarmi maggiormente all’interno della comunità”.
“Mi sono ritrovata a Dar es Salaam… sin dal momento in cui ne ho percorso le strade, i suoi colori e il suo caos mi hanno stregata”.
“Nel centro orfani dove abitiamo ho ricevuto coccole, carezze e abbracci dai bambini. I corsi di massaggio infantile del martedì mattina sono stati momenti di tenerezza pura”.
“Un sorriso è sempre un sorriso. E un abbraccio resta, ovunque, il rifugio più caldo per una fronte corrucciata”.
Le difficoltà, in questi contesti, non possono mancare e infatti non sono mancate: per qualcuno è la gestione di un briciolo di nostalgia di casa, per qualcun altro è affrontare la frustrazione di non vedere immediatamente il frutto del proprio lavoro, per altri è il sentirsi impotenti davanti alle ingiustizie. Per tutti è entrare, col tempo, dentro la cultura del posto.
“Mi ritengo molto fortunata ad aver avuto la possibilità di partecipare a matrimoni e feste di addio al nubilato tanto diversi dai nostri; a provare il cibo locale nella maggior parte dei casi delizioso; a essere stata accompagnata a fare le treccine con le extensions e dalla sarte capaci di realizzare vestiti meravigliosi con i tessuti locali…”
“Non è stato facile accettare l’idea di non poter fare nulla di concreto nell’immediato che potesse in qualche modo alleviare le sofferenze di coloro a cui col tempo mi sono affezionata.”
“La rabbia e l’impotenza sono spesso state mie fedeli compagne di percorso”.
“Posso dire con certezza però di non essermi mai completamente arresa, e di aver continuato a credere nella competenza e nella dedizione al cambiamento di tutti coloro che lavorano ai progetti a cui abbiamo contribuito in questo anno”.

La consapevolezza del privilegio: un nuovo sguardo sul mondo
Vivere in Tanzania ha portato a profonde riflessioni sul privilegio e sulle ingiustizie del mondo. Con una ridefinizione delle coordinate dalla percezione del mondo e di sé: essere italiani ha smesso di essere un’identità neutra, diventando qualcosa con cui confrontarsi.
“Il privilegio di essere italiani si riflette anche in questo: la vita per puro caso ha voluto che io nascessi con un passaporto di colore rosso, che mi permette di attraversare confini che altri non possono oltrepassare”.
“Mi sono accorta che il colore della mia pelle influenzava il modo in cui venivo percepita: a volte mi pensavano più autorevole e competente di quanto realmente fossi”.
“Abbiamo perso molte parti di noi nella nostra società ‘moderna’ occidentale. Abbiamo perso il presente, abbiamo perso l’altro, il prossimo. Abbiamo dimenticato la natura.”
“È stato un anno in cui ho imparato tante cose che non avrei mai pensato di apprendere… Ho capito che la diversità è una ricchezza che non deve essere esclusiva e divisiva, ma una ricchezza che va condivisa e apprezzata.”
Un anno per imparare la reciprocità
A passare davanti a tutto, però, è il senso di reciprocità autentica vissuto durante l’esperienza di Servizio Civile. E’ una sorta di passaggio collettivo, che parte dal “vado ad aiutare” e arriva al “vivo, imparo e cresco insieme”, con uno sguardo che riconosce il valore della relazione e dello scambio orizzontale.
“A conti fatti, penso che sia stato più il servizio civile ad aiutare me, che il contrario”.
“Sono io quella che porta via molto più di quanto abbia potuto dare”.
“Ho capito che mettersi a servizio sia un atto che fa bene non solo agli altri, ma anche a sé stessi”.
“Il Servizio Civile si basa su uno sforzo collettivo… bisogna pensarsi come anelli di una lunghissima catena, in cui il compito di ciascuno è accodarsi a quelli precedenti e preparare il terreno per i successivi”.
“Un’esperienza da fare, ti cambia dentro”
E così, in definitiva, dopo un anno di Servizio Civile Universale, resta tantissimo. Resta una consapevolezza nuova, lucida e vissuta; resta uno sguardo che non è più quello di prima; resta la capacità di leggere il mondo con occhi più lenti, più attenti, più intrecciati alle vite altrui. Resta in molti casi una serenità inedita, resta il ricordo vivo di persone incontrate lungo il cammino. E resta la certezza che il Servizio Civile offre davvero una grande opportunità di vita.
“Porto con me tanti volti, tanti nomi, tante storie… Ma soprattutto porto con me una certezza: quest’anno mi ha cambiata”.
“È stato un anno in cui ho imparato tante cose che non avrei mai pensato di apprendere, o forse erano già dentro di me, ma aspettavano il momento giusto per emergere”.
“È un’esperienza che ti arricchisce, che ti fa vedere le cose da un altro punto di vista”.
Un’occasione che rimane a disposizione di tutte le ragazze e i ragazzi fra i 18 e i 28 anni:
“Spero che anche altri ragazzi possano vivere un’esperienza simile, perché ti mette in discussione e ti fa crescere”.
“Consiglio a tutti di fare questa esperienza, perché ti cambia dentro”.
“Mi auguro che sempre più giovani scelgano di mettersi in gioco, perché è un’occasione unica per conoscere sé stessi e il mondo”.
Con l’auspicio dunque che molti altri giovani possano vivere quest’esperienza, non ci resta che ringraziare ancora una volta Candida, Maria Chiara, Chiara, Elena, Federica, Chiara, Samantha, Anna, Gregorio, Letizia, Greta, Yasmine, Davide, Giada e Benedetta. La valigia del Servizio Civile si chiude qui, ma noi siamo certi che la porteranno sempre con loro.
“Chiudo la mia valigia dopo un anno mettendoci dentro la speranza di riuscire a portarmi dietro tutto quello che ho vissuto…”.
“Quest’anno è e sarà per sempre un nuovo tassello del mosaico che è la mia vita”.